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Autore: _Graysoul    10/01/2013    2 recensioni
"Ten songs" è la storia di queste due ragazze che si conoscono in un modo un po' insolito. Il loro rapporto non comincia con un "ciao" né con un "hey" e neppure con un "oh, scusami" di passaggio.
Loro non si conoscono affatto e forse mai lo faranno. O forse si.
Genere: Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando la conobbi, io avevo quindici anni e lei diciassette.




Hide and seek - Imogen Heap

Come ogni giovedì pomeriggio arrivai alla fermata del bus alle tre e trenta. Arrivavo sempre con mezz’ora di anticipo per prendere posto sull’unica panchina a disposizione, nonostante quella fosse la fermata meno frequentata. Mi è sempre piaciuto arrivare in anticipo. Il ritardo mi angosciava e la puntualità mi aveva sempre irritata. Così, alle tre e trenta presi posto sulla solita panchina di legno. Mi sistemai le pieghe della gonna a balze nere che mi ostinavo ad indossare malgrado i miseri cinque gradi che avvolgevano la città in quel periodo dell’anno. Non avevo mai patito il freddo; al contrario lo apprezzavo.
Distesi le gambe, come al solito, socchiusi gli occhi ed espirai lentamente. Mi stavo lentamente consumando. Ero stanca. Risollevai lentamente le palpebre e guardai dritto davanti a me.
Una coppietta di ragazzi che si baciavano. Forse loro erano felici. Chissà come si erano incontrati.
Un’anziana signora con i suoi due cani, un dobermann dall’aspetto truce e un chihuahua tremolante. Un ossimoro davvero interessante. Presi la macchina fotografica che portavo al collo, la portai all’occhio, misi a fuoco e scattai una foto. Click.
Una mamma dall’aspetto sciupato mano nella mano col suo bambino, che si guardava intorno meravigliato. Chissà se tra dieci anni si sarebbe ancora guardato intorno in quel modo.
Guardai verso destra. Nulla su cui soffermarsi.
Rivolsi lo sguardo a sinistra. In lontananza una ragazza si avvicinava nella mia direzione. Intuii che avrebbe preso il mio stesso autobus dal biglietto che stringeva tra le dita. Mi soffermai ad osservarla.
Capelli ricci, castani. Non troppo alta, ma nemmeno particolarmente bassa. Magra. Pelle bianca. Aveva un passo lento e mentre camminava strusciava i piedi per terra, quasi troppo stanca per alzarli. Cuffie bianche nelle orecchie, probabilmente collegate ad un’Ipod infilato nella tasca dei jeans. Era vestita interamente di nero, ad accezione per la borsa rossa che portava a tracolla. Guardava in basso e ormai era arrivata alla fermata. Si sedette senza esitazioni sulla panchina affianco a me. Dalle sue cuffie non usciva alcun suono. Non mi guardò, non fece caso a me.
La osservai più attentamente. Occhi castani, da cerbiatto. Delicate lentiggini sulle guance. Un naso come tanti altri. Una bocca rosea leggermente dischiusa. Era una ragazza interessante. Avrà avuto sui diciassette anni circa. Distolsi lo sguardo e mi concentrai sul cielo velato. Era soffocante.
La ragazza sfilò l’Ipod dai jeans neri e premette play. Partì una canzone, che non conoscevo, al massimo del volume, così mi costrinsi ad ascoltarla con lei.

Where are we? What the hell is going on? The dust has only just begun to fall, Crop circles in the carpet, sinking, feeling.



Guardava dritto davanti a se, silenziosa. Quando la canzone terminò, si tolse le cuffie e le ripose in borsa. Tirò un sospiro. Stanco. Quasi esasperato. Si vede che non voleva tornare nel mondo reale. Si appoggiò allo schienale della panchina, incrociò le braccia al petto e cominciò a parlare, cogliendomi alla sprovvista.
“Sai cosa detesto?”
Scossi lentamente la testa, mentre lei ignorava la mia espressione sorpresa ed interrogativa e proseguì, rispondendosi da sola.
“Detesto questa sensazione di chiuso che ci avvolge quando il cielo si vela. Sembra di essere formiche intrappolate in un barattolo di marmellata. Quelli col tappo grigio. Hai presente, no? Mi sento mancare il respiro.”
La voce era sottile, molto piacevole al suono. Delicata. Possedeva una nota rabbiosa, ma era sepolta da chili di stanchezza.
“Insomma, c’è da soffocare.” Tacque un momento, ma riprese poco dopo. “Mi sento davvero una formica. Piccola e indifesa. Certo, le formiche sono animali molto forti. Si spaccano la schiena tutto l’anno con il proposito di migliorarsi la vita. Fanno avanti e indietro. Sono concentrate sul loro obiettivo. Ma sono tutte uguali. Sei zampe, nere, piccole.” Pausa. “Sono animali forti, ma ci vuole davvero un niente a spazzarle via. Vengono calpestate senza pietà da tutti. A volte per caso altre volte apposta.” Tacque ancora ed ebbi il tempo di pensare un attimo alla situazione corrente.
Una sconosciuta si stava liberamente sfogando con me sui suoi dubbi esistenziali e delle sue riflessioni umane. Insolito. Interessante. Ambiguo. Magari era pazza. Però la pensava come me. Quindi ero pazza anche io.
Mi schiarii la voce e “Sì, la penso come te. Piccole formiche rinchiuse nel loro grande formicaio. Affascinante e terribile.”
Lei annuì in silenzio. Inclinò leggermente la testa.
“Un’altra cosa che detesto sono le persone imprevedibili. Quelle che si presentano a te in un modo, sorridenti e cordiali, e tu cerchi di delineare il loro carattere e la volta dopo si comportano in modo completamente differente. E così anche quella dopo, quella successiva ancora e via discorrendo.” “Allora sono bipolari. O magari lunatiche. Oggigiorno molte persone soffrono di..”
“No. Sono imprevedibili. Lui è così.” Si fermò di colpo. Si era forse resa conto di aver scavato troppo in profondità. Sembrava quasi non volesse offendere la persona, nonostante l’astio che nutriva nei suoi confronti. Strano. “Quelle confuse sono ancora peggio. Ti dicono che hanno buone intenzioni, ti fanno intendere cosa desiderano a cosa ambiscono e la volta dopo hanno idee completamente differenti. Distanti da quelle che avevi colto. E’ insopportabile.” La ascoltai attentamente. Si riferiva chiaramente a qualcuno. Un ragazzo. Chissà cosa aveva combinato. Illusa? Usata? Sedotta? Di certo non avrebbe detto più di così.
Per qualche minuto ci avvolse il silenzio. Ero troppo concentrata sulle sue parole per accorgermi della surreale quiete che aleggiava attorno a noi. Osservai il piccione che apriva pigramente le ali a pochi passi da noi. Sinceramente non mi sarebbe mai piaciuto essere un piccone. Sono uccelli che, nonostante abbiano le ali, se ne restano tutta la vita nella solita città. Se solo ne possedessi un paio…
“Credo non esistano le vere amicizie, sai?” Oh, lo sapevo bene. “Sono esausta di sentirmi rassicurare da tutti, di stare ad ascoltare quelle bocche che vomitano parole di riscatto del tipo io sono qui per te, se hai bisogno dimmelo che ci sono, hey lo sai che con me puoi parlare di tutto. No. Non è vero. E’ inutile che tendiate una mano se poi quando sto realmente affogando voi non ve ne rendete conto perché siete girati dall’altra parte a farvi lo smalto, a mandare stupidi messaggi, a baciarvi con la persona che prima dicevate di odiare.” Prese un respiro profondo mentre io mi sorprendevo di quanto quelle parole valessero anche per me. Era così strano pensare che altre persone, a te completamente sconosciute, condividano i tuoi pensieri. Forse siamo tutti collegati da un filo, un filo sottile che ci porta ad incontrarci, prima o poi, in un modo o nell’altro. Sarebbe stato bello.
“Mi ero ripromessa che non sarebbe successo.” La voce era un sussurro, ma era incrinata. Le lanciai un’occhiata, distogliendo lo sguardo dal piccione, e vidi che stringeva compulsivamente le dita attorno al tessuto della giacca nera. “Mi ero ripromessa che non sarei affondata. Ma mi sono un attimo fermata.. mi sono seduta un momento per riprendere fiato e non sono più riuscita ad alzarmi. Mi stanno cadendo chili di polvere addosso. Sto ammuffendo. E’ terribile.” Era esasperata. Avrei voluto appoggiarle una mano sulla spalla come conforto, per quanto strano potesse essere, ma avevo paura di essere infettata anche dalla sua polvere. Ne avevo già troppa addosso. Non potevo permettermene altra. Non ce l’avrei fatta.
“Siamo sassi.” Dissi.
“Come?” non vedeva come la mia affermazione potesse collegarsi al suo sfogo.
“Siamo sassi. Quei sassi piatti, lisci e neri che si trovano in spiaggia. Semplici sassi. Siamo tutti speciali. Ciò sta a dire che non lo è nessuno. Stiamo fermi in spiaggia, a prendere il sole. Tranquilli. Poi però qualcuno ci raccoglie. Ci solleva da terra e ci tira in mare, senza una precisa ragione. Per rabbia, magari. Per noia. Per distrazione. Per interesse. Fatto sta che prima o poi ci tirano in mare. E che cosa fa un sasso quando viene lanciato in acqua?” Mi rispose, nonostante la sua bocca fosse rimasta chiusa. “Affonda, esatto. Va giù, sempre più giù. Inevitabilmente. Poi tocca il fondo e ci resta. Se ne sta lì per un po’. Cos’altro potrebbe fare? Poi arriva un’onda, e lo sposta un po’ più avanti. Ne arriva una seconda e continua a procedere in avanti e così via con la terza la quarta e così via, fino a quando il sasso non ritorna a riva. Un po’ più sottile di prima, magari. Ma è di nuovo a riva. Stanco, certo. Ma è tornato a casa. Prima o poi, torniamo tutti a casa.”
La mia voce si spense e l’ultima frase parve riecheggiare in tutta la città. Per un attimo mi chiesi se non l’avessi urlata. Mi voltai verso la ragazza e incrociai il suo sguardo. La sua intensità mi travolse un attimo. Chissà cosa c’era nascosto dietro. Mille cose, probabilmente. Le sorrisi debolmente e mi parve, solo per un attimo, di cogliere una nota di ringraziamento nel suo sguardo. Poi voltai lo sguardo a destra. Il mio autobus era in fondo alla via.
Mi alzai in piedi, spensi la macchina fotografica che portavo al collo rimettendoci il copri obiettivo che in tutto quel tempo non mi ero accorta di stringere tra le mani, mi lisciai la gonna ed estrassi il biglietto dalla borsa. L’autobus si fermò a pochi passi da me.
“Non sali?”
Sollevò lo sguardo che aveva ripuntato a terra e scosse la testa debolmente. “Prendo il prossimo.”
Annuii, e la salutai con un cenno del capo. Salii sul mezzo a quell’ora deserto, presi posto e lasciai quella strana ragazza alle mie spalle, forse per sempre. Non pensai al fatto che il prossimo autobus sarebbe passato tra due ore.





Ommioddio, non ci posso credere. *si schiarisce la gola*
Allora, tanto per cominciare buonasera amici. Come state? Spero bene. Come avete passato le vacanze/natale/capodanno/befana? Spero bene, di nuovo.
Ora, andiamo al sodo. Questa sarà una breve FF di dieci capitoli (più uno "bonus") originale. E' la mia prima originale quindi mi lascerò andare nel dirvi un paio di cose e spiegarvene altrettante.
La storia è interamente, completamente, totalmente dedicata alla mia cara amica di cui non svelerò il nome.
Tu che stai leggendo, tesoro, spero di renderti felice con questa pazzia.
Ora, tornando a noi. La storia parla di queste due fanciulle di cui non dirò il nome (non ancora) *uuuhhhh misteeeero* . La maggiore di punto in bianco inizia a parlare con la minore. Il perché non lo sappiamo. Non chiediamocelo. Ogni capitolo sarà strettamente legato (o almeno ci proverò il più possibile) alla canzone che metterò come titolo del capitolo stesso; mi farebbe piacere se voi le ascoltaste e lasciaste un parere.
So che molti di voi mi seguono per le OS fluff che sono solita a scrivere sui One Direction (quei cinque vacconi che non sono altro, amori loro), ma stavolta faccio l'alternative e mi butto su una bella originale. Why not?
Okay, ho finito di fare la seria. Spero sinceramente che questa storia vi piaccia, che iniziate a recensirla, che la apprezziate. Le recensioni non mi servono per farmi figa ma per ricevere dei pareri, correggere se c'è qualcosa da correggere, migliorare ciò che posso migliorare.
Detto ciò, amici, io vi lascio. Ricordate: vi amo dal primo all'ultimo. Bye byeeeeee.

  
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