Note: Questo è quello che succede quando si beve troppo caffè la sera e si rimane tutta la notte a fissare il soffitto senza riuscire a dormire. Si finisce ad immaginare per la millesima volta, e mi sa che in attesa della terza stagione arriveremo alla milionesima volta, l'incontro tra Sherlock e John post caduta. E insomma questo è quello che ne è venuto fuori, ed è stato piacevole lasciarlo uscire =) Semplicemente.

Vorrebbe abbracciarlo. Vorrebbe prenderlo a pugni. Vorrebbe prenderlo a pugni e poi lavargli via il sangue, piano e con dolcezza. E chiedergli di fare l’amore, ma queste cose non si dicono. Queste cose non può permettersi nemmeno di lasciarle vagare nella sua mente per più di qualche secondo. Vorrebbe fare tutte queste cose ma sarebbe troppo facile e lui non è sicuro di volerlo.  Non pensa che tra loro debba essere ancora così facile, non sa se vuole che lo sia. E così sceglie la strada più difficile. Per entrambi.

“Questa telefonata è…il mio biglietto. E’ questo che fanno le persone, no?Lasciano un biglietto. Tieni i tuoi occhi fissi su di me?“ Lo dice scandendo bene le parole, ricalcandone la teatralità, come in una commedia. Come in una recita. “ Dimmi l’avevi provata prima di uscire? Tutto quel bel discorsetto, tutta quella pantomima l’avevi provata nei corridoi del Bart's mentre io ero occupato a correre per mezza Londra convinto che la nostra padrona di casa fosse in fin di vita?” Respira a fatica, pensa che se continuerà così gli verrà un infarto. E una voce dentro di lui ride, perché dopo tre anni a pensare di togliersi la vita quanto sarebbe ridicolo farsi venire un infarto proprio nel momento in cui la sua vita ricomincia. Grottesco. “ La voce rotta dal pianto era una tua idea fin dall’inizio o è stata pura improvvisazione? Una piccola chicca solo per me?”

Sherlock s’irrigidisce. John lo guarda per qualche istante e non sa se quella che vede è irritazione davanti alla sua irrazionalità, davanti al suo essere un normale essere umano, un essere così imperfetto e così sentimentale, o se c’è qualcos’altro. Se c’è qualcos’altro che lo rende un po’ umano anche lui.

“John, quella recita come tu la chiami era necessaria, c’erano tre cecchini…” Il consulente investigativo inizia a spiegare ma John blocca quelle parole con un gesto della mano, come se volesse allontanare entrambi da sé.

“Zitto.” Prende il respiro, cerca di calmare il suo battito cardiaco e ricomincia a parlare. “Ti ricordi quello che mi hai detto quella notte a Dartmoor "Non c’è niente che non va in me? " Beh io non ne sarei così sicuro. C’è sicuramente qualcosa che non va in te.”  Questo è voluto. Questo è unicamente per fargli male. Non lo pensa, non lo penserà mai ma deve ferirlo perché è così arrabbiato che non ha alternative. 

“ Anzi no, non c’è niente che non va in te. C’è qualcosa che non va in me, invece. Perché del resto sono io il coglione che ha passato tre anni ad andare a piangere sulla tomba di una persona che non è mai morta, anzi che non è mai vissuta. Che non è mai esistita. Una frode.” Questa invece fa male a lui, è come un pugno nello stomaco.

In quella frase ci sono tutti gli ultimi tre anni. Ci sono tutte le ore passate davanti a una lastra di marmo a chiedere un miracolo, a supplicare per un miracolo. Ci sono le notti in cui non vuole andare a dormire perché quando chiude gli occhi tornano gli incubi, non più quelli dell’Afghanistan, non più quelli da cui Sherlock l’ha guarito, quelli in cui un cappotto nero vola nel vuoto e tutto diventa scuro e lui si sveglia sentendosi così male che vorrebbe essere morto. C’è la sensazione di essere stato preso in giro, di essere stato solamente parte di un piano, di una commedia, di una recita. C’è la sensazione di aver dato la sua vita in mano a qualcuno per cui non è stato nulla più di un animale domestico.

Ero solo quello per te? Ero solo un animale domestico, qualcuno su cui testare un nuovo tipo di droga, qualcuno a cui chiedere di fare il tè e mandare un messaggio? Perché non mi hai lasciato saltare con te? Vorrebbe chiederglielo. Vorrebbe urlarglielo, ma si sente troppo fragile e spaventato e così l’unica cosa che riesce a far fuoriuscire da se stesso è la rabbia. Perché fino a che urla, fino a che lo ferisce non deve ascoltare la sua risposta a tutte quelle domande.

Poi succede qualcosa. Dopo una serie d’interminabili minuti in cui sono rimasti immobili, nel corridoio di un triste appartamento da scapolo, a fissarsi, ad ascoltare la pioggia che bagna Londra, senza riuscire a dire nemmeno una parola. Succede qualcosa. Sherlock si gira su se stesso. Si volta e fa per andarsene. A John sembra che questa scena avvenga a rallentatore, gli sembra che tutto sia improvvisamente ovattato, come se si muovessero e al tempo stesso non andassero da nessuna parte. Non devono andare da nessuna parte. Non deve andare da nessuna parte.

Si muove, e quasi si stupisce quando si rende conto che le gambe lo sostengono ancora, che riesce ancora a muoversi senza crollare, e lo abbraccia da dietro.

Lo stringe forte a sé, prima per impedirgli di muoversi, per impedirgli di aprire la porta e di andarsene e dopo perché semplicemente ne ha bisogno. Non vuole che sia così, non vuole sentire quel bisogno di stringersi a lui, ma semplicemente è così. Senza recite, senza commedie.

E’ magro (e spigoloso. E bellissimo), è anche più magro di prima e una parte di lui pensa che quando tornerà davvero a casa dovrà obbligarlo con la forza a fare almeno un pasto al giorno, a nutrirsi di qualcosa di più di tè troppo zuccherato e sigarette. L’altra parte di lui invece urla che dovrebbe lasciarlo andare, che dovrebbe scappare via prima di farsi troppo male.

“ Non ti azzardare ad andartene. Non ti azzardare a uscire da quella porta. Non ti azzardare a uscire da questa stanza. Non ho ancora nemmeno deciso se ti lascerò andare in bagno in futuro, quindi scordati di uscire” Lo dice sulla sua schiena, borbottando e sente i muscoli di Sherlock che si rilassano sotto le sue mani. Gli sembra quasi che stia sorridendo, gli sembra quasi di vederlo sorridere.

“ Sono pronto ad ascoltare. Sono pronto.” Sussurra con la voce che gli trema un po’ “ Va bene anche se mi dici una bugia, se mi racconti una favola io ti crederò lo stesso.* Sempre. (Perché non posso fare altrimenti). Raccontami. Raccontami di noi. Raccontami di questi tre anni di noi. Raccontami di tutto quello che hai fatto, raccontami di quello che ho visto ma non ho osservato (come sempre). Raccontami dei tuoi viaggi per l’Europa, dei ricercati che hai trovato solo grazie alla loro cravatta. Raccontami di quando hai allevato le api. E raccontami di come tu mi abbia sempre osservato a distanza. Raccontami. Anche se mi dici una bugia ti crederò lo stesso”.

Sherlock si stacca leggermente da lui e il suo cuore perde un battito, poi piano piano si gira e lo abbraccia. Così semplicemente. E’ un gesto goffo all’inizio, così lontano dalla fisicità che li accompagnava prima della caduta e John si chiede se il consulente abbia mai abbracciato spontaneamente qualcuno. Se abbia mai provato il desiderio di farlo. E si chiede se riuscirà mai a staccarsi da quell’abbraccio.

“  Perché le api, John?”

John ride piano, come non si ricordava di essere capace a fare. Forse le cose possono essere ancora facili. Ci sarà tempo per la rabbia, ci sarà tempo per ricominciare a fidarsi, ci sarà tempo per le recriminazioni e per le ore a parlare e farsi anche male a vicenda. Ci sarà tempo anche per la parte difficile, ma forse adesso le cose possono essere semplicemente facili.

“ Perché le api, John?”

Postillina: *Sono stata due ore a cercare di capire da dove venisse questa frase e poi il lampo. E’ una citazione, un po’ falsata dalla mia memoria che è quella che è, del manga Nana della Yazawa che vi consiglio anche di leggere perché è bellissimo e terribilmente doloroso. E al momento inconcluso, giusto per farmi un po’ del male.