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Autore: SAranel    13/01/2013    12 recensioni
Quando John regala qualcosa a Sherlock, quest'ultimo lo ripaga sempre con l'esatto opposto. A parte un'unica, singola volta in cui è John, a ripagarlo con la stessa moneta.
Quando a Sherlock offri un sorriso, la sua risposta è uno sguardo letteralmente sconvolto.
Se ne sta sulle sue, e lo vedi pensieroso e teso, come se fosse impegnato in una veemente lotta interiore tra due fazioni opposte e in cui sembra non possa esserci vincitore.
Si morde il labbro, sposta il microscopio lontano da lui e annuisce tra sé e sé, aprendo pian piano ognuna delle porticine che compongono il suo immenso Mind Palace. Probabilmente è perso in un dibattito con sé stesso sui probabili significati di quel sorriso, su cosa avessi voluto intendere, su cosa mi aspettassi, se magari volessi un favore, o se covassi dentro di me una richiesta imbarazzante come quella di qualche giorno fa.[...]
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera fandom meraviglioso!
Per prima cosa, grazie mille per le recensioni all’ultima storia, siete dolcissime e risponderò ad ognuna, prometto!
Per quanto riguarda questa one-shot, è un’altra di quelle storielle iniziate tempo fa e mai finite…fino ad oggi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

Half of my heart (or strange reciprocity)
*

 

 

Quando a Sherlock offri un sorriso, la sua risposta è uno sguardo letteralmente sconvolto.
Se ne sta sulle sue, e lo vedi pensieroso e teso, come se fosse impegnato in una veemente lotta interiore tra due fazioni opposte e in cui sembra non possa esserci vincitore.
Si morde il labbro, sposta il microscopio lontano da lui e annuisce tra sé e sé, aprendo pian piano ognuna delle porticine che compongono il suo immenso Mind Palace. Probabilmente è perso in un dibattito con sé stesso sui probabili significati di quel sorriso, su cosa avessi voluto intendere, su cosa mi aspettassi, se magari volessi un favore, o se covassi dentro di me una richiesta imbarazzante come quella di qualche giorno fa. Un semplice ad un invito a pranzo di Mycroft, comunque, niente di così tanto terribile, almeno a mio avviso.
Continua a guardarmi ed è teso, non vuole deludermi ma neppure accontentarmi, sente dentro di sé che dovrebbe farsi perdonare per i nuovi buchi alla parete, o per il tavolino da tè per metà carbonizzato, ma dall’altro lato è palesemente terrorizzato dal motivo, secondo lui incomprensibile, per il quale gli rivolgo quel sorriso. Almeno dopo la furiosa lite di cinque giorni fa. Non se lo spiega, ed una sensazione così corroborante che quasi mi sento in colpa per un momento. Per fortuna, non dura più di quell’istante.
Il tormento continua ancora, è una delle cose più divertenti che io abbia mai visto, ed ecco che compare sul suo viso quella vastissima gamma d’espressioni che pone il primo passo al lento cammino che conduce al declino, a quel pot-pourri di labbra piegate all’ingiù, occhi che guardano un punto fisso oltre le mie spalle, e mani che non fanno altro che tormentare la molla della penna a sfera che tiene tra le dita. Quel cammino che può solo portare a due soluzioni, ovvero a Sherlock che afferra il cappotto e accampa qualche scusa per uscire di casa e Sherlock che corre verso di me, scuotendomi e chiedendomi di spiegargli le mie intenzioni.
Questa volta, però, sembra leggermente più motivato, come se per qualche motivo lo avessi profondamente offeso e lui non volesse darmi la soddisfazione di vederlo arrendersi.
Adesso è seduto sulla sua sedia, ma è chino in avanti in procinto di togliersi pian piano la maschera, sperando fino all’ultimo di poterne fare a meno, ma visibilmente infastidito. La mia espressione poi, volutamente angelica e profondamente strafottente, è mirata soltanto a spingerlo fino al punto di non ritorno, alimentando il suo malumore come lo sbuffo di un soffietto sul fuoco ardente di un caminetto.
“John” dice poi all’improvviso e capisco di aver vinto, ancora una volta. “Sei un essere spregevole”.
Fingo uno stupore splendidamente genuino, che mi fa ben sperare per le mie doti d’attore, come se non avessi la minima idea del perché mi avesse apostrofato a quel modo. Le nocche di Sherlock schioccano minacciosamente e il mio partner si assicura che io stia guardando mentre lascia scivolare le mani sulle sue cosce, tenendole ferme ma afferrandosi nervosamente il tessuto dei pantaloni costosi. Forse, in passato, il suo disappunto mi avrebbe fatto desistere quasi immediatamente, adesso, invece, ho quasi preso gusto a stuzzicarlo fino al limite. So per certo che non mi accadrà nulla. Forse un paio di giorni di sciopero della parola da parte sua, ma dopo giorni e giorni di incessante ciarlare, un po’ di silenzio sarebbe stato una manna dal cielo.
“Sherlock, che cosa dici?” chiedo, fingendomi innocentemente sorpreso. “Cosa ho fatto, di grazia?”.
Sherlock lascia andare i suoi pantaloni, che ormai hanno bene impresse le forme delle sue unghie sul tessuto, e si alza dalla sedia, scompigliandosi i capelli già disordinati e vagando per il salotto come un’anima in pena.
“Lo sai bene perché, piccolo subdolo manipolatore” Sherlock sibila, risentito. “Sai bene quanto mi infastidisca ma continui a farlo!”.
Mi sento crudele e terribilmente cattivo quando decido di non demordere e continuare la mia piccola recita, ma non posso reprimere un vaga sensazione di inquietudine quando lo vedo fermarsi davanti alla poltrona, in piedi davanti a me ancora seduto. Ha gli occhi che sprizzano scintille infuocate, e voglia la vicinanza o la lieve incertezza sulle sue intenzioni che mi coglie all’improvviso, sento un certo calore invadermi da capo a piedi, come se improvvisamente mi fossi avvicinato ad una fonte di calore invisibile.
“Io non ho fatto niente, Sherlock” dico, ma mi accorgo di sembrare meno convinto. Vorrei scoppiare a ridere, ma mi concedo ancora qualche minuto. “Cominci a perdere colpi, amico. Vedi cose che non esistono”.
Conosco le doti fisiche di Sherlock, l’ho visto e più volte invidiato per quell’agilità che io non avevo mai raggiunto nemmeno dopo l’addestramento militare, ma mai avrei creduto fosse capace di piombare addosso a qualcuno con la stessa velocità con cui si getta su di me, le mani sui miei avambracci e il suo naso a un centimetro dal mio. Mi sta studiando, come in un ultimo disperato tentativo di anticipare le mie mosse. Rimango impassibile, almeno per quanto riesco con la sua faccia quasi incollata alla mia, ma resisto.
Dopo qualche secondo, sotto forma di un sospiro stizzito e uno sguardo offeso, assisto alla sua disfatta.
“Dillo, forza! Cosa vuoi? Cosa cerchi di farmi capire? Cosa desideri che faccia?” Sherlock sbotta, tirandosi su e tornando a tormentare le ciocche scure tre le dita. “Vuoi che mi prostri ai suoi piedi chiedendo perdono, vero? Che mi offra come accompagnatore nella serata shopping di Mrs. Hudson per scusarmi di aver appiccato un incendio sulle scale? Dimmelo!”.
L’unica cosa che vorrei è scoppiare a ridere fino a farmi venire mal di pancia, ma resisto, per il suo bene e soprattutto per la mia incolumità.
“Sherlock…” provo a dire, cercando di sedare la sua agitazione. “Credo tu abbia frainteso”.
“No, John, tu mi hai sorriso dopo giorni che non lo facevi. Dal giorno della lite, per l’esattezza” lui dice, e mette le mani sui fianchi, indeciso su dove sedersi, se sedersi o rimanere in piedi, o mettersi a fare qualcos’altro, o continuare quella conversazione o qualunque cosa.
Riesco quasi a vedere la confusione nel suo cervello, che mi figuro sempre come un gigantesco appartamento pieno di cianfrusaglie sparse qua e là, senza alcun ordine o criterio.
“E allora?” io dico, continuando con quel tono cordiale e allegro che lo manda in fibrillazione. “E’ solo un sorriso”.
“Non è solo un sorriso John” Sherlock mi dice, quasi gridando, questa volta. “E’ quel particolare sorriso. Quello mirato a farmi sentire bene, a farmi sentire che ci sei e che mi apprezzi e tutte quelle tue tipiche smancerie” socchiude gli occhi poi, squadrandomi. “Quello mirato a farmi sentire in colpa per qualcosa”.
A quel punto, raggiunto il mio scopo principale e ottenuta la mia incontrastata vittoria sul Consulting Detective, decido di abbandonare le armi e concedergli una giusta tregua e una fine dignitosa. Sorrido ancora, un sorriso che non so come lui leggerà ma che io coloro con un pizzico di comprensione e con un po’ di allegria. Un sorriso colmo di simpatia sincera e di un leggero senso di colpa per averlo stuzzicato in quel modo. Un sorriso pieno un profondo, profondissimo affetto.
Spero che lui capisca e che questa volta il messaggio arrivi al destinatario senza cambi di rotta improvvisi. Spero che lui comprenda fino in fondo quanto qualunque nostro litigio mi scivoli addosso dopo il rancore del primo momento. Spero che lui si accorga quanto sia importante per me.
Lui non mi stacca gli occhi di dosso, ma non dice nulla, rimanendo in un religioso silenzio di contemplazione. Fissa le mie labbra, e la cosa mi imbarazza alquanto, ma non dico niente e nemmeno lo esorto a mirare lo sguardo verso altri lidi. Mi piace, in fondo, avere i suoi occhi su di me, nonostante sia bene a conoscenza di ciò che lui adora guardare, cadaveri o scene del crimine in primis, ma mi piace pensare di essere una delle sue eccezioni. L’unica.
“Mi dispiace che tu abbia pensato questo, Sherlock” dico infine, e scopro che la mia voce è flebile, quasi timida. “Ma il mio sorriso era un’offerta di pace, in realtà. Di scuse” ammetto, e non vedo l’ora di conoscere la sua reazione.
Lui apre gli occhi e socchiude le labbra, in un’espressione stupita che cerca in tutti i modi di reprimere, come se fosse qualcosa di riprovevole e imbarazzante oltre ogni immaginazione. Poi tossicchia, tentando di riacquistare compostezza, e torna a guardarmi con un’espressione seria che però non gli riesce perfetta come al solito.
“Scuse?” è la sua unica domanda.
“Scuse” io asserisco, e sorrido di nuovo. Non riesco a farne a meno. “Forse ho esagerato, quel giorno. Dopotutto, l’incendio non è stato il peggiore dei tuoi incidenti. E fino ad oggi non hai combinato più nulla” lo lodo, e lo vedo fremere come un bambino davanti ad un bel voto a scuola. “Sei stato bravo”.
Sherlock pare pensoso e scrolla le spalle, aprendo e chiudendo la bocca come se volesse dire qualcosa ma non riuscisse a trovare le parole adatte. Non è qualcosa da Sherlock, è una difficoltà assolutamente non da lui, e non posso che esserne felice. L’eccezione, mi ripeto ancora. E’ una speranza un po’ egoista, ma non posso fare a meno di assaporare il gusto dolce di quel pensiero.
Il mio migliore amico sembra optare per uno sguardo serio e posato, come se volesse apparire sicuro di sé e allo stesso tempo ancora contrariato con me, un po’ come a volermi dire silenziosamente qualcosa simile ad un ma certo che sono stato bravo, ovviamente avevo ragione e non c’era bisogno che me lo dicessi tu.
“Beh, era anche ora che ci arrivassi” è quello che dice. “In effetti, la tua sfuriata è stata davvero infantile”continua, senza contraddirmi in nulla e senza neppure accennare ad un qualunque ma figurati John, è tutta colpa mia di circostanza. Non m’importa, comunque. Sono più che felice così.
“Detto da te è altamente significativo, Sherlock” rispondo, e sono ironico e tagliente abbastanza da attirare totalmente la sua attenzione prima rivolta a qualcosa ai piedi del tavolino da caffè. “La prossima volta, quando sorriderò, metterò un cartello a neon con scritte le mie reali intenzioni”.
Sherlock emette un suono gutturale senza nemmeno aprire la bocca, qualcosa tra un grugnito e un mugolio d’assenso.
“Sarà meglio” dice, come se gli fosse dovuto. “Non posso sempre starti dietro in tutte le tue stramberie, John”.
Detto questo, mi lancia un’occhiata furtiva e decide che è soddisfatto abbastanza della conversazione per tornare in cucina. Si siede al suo solito sgabello, l’unico superstite della pseudo-bomba esplosa in cucina un mese fa, e torna a guardare nel microscopio, in qualunque diavoleria si trovi all’interno del vetrino.
Io mi rilasso nuovamente contro la spalliera del divano e ridacchio tra me e me, pensando alla situazione assolutamente surreale, e totalmente priva di senso logico, che ho appena affrontato insieme al mio coinquilino. Poi penso alla vita che avevo prima, alla noiosa, sciocca, monotona quotidianità che mi stava uccidendo, dopo la guerra, e mi accorgo di quanto io adori tutto questo. Di quanto io ami questa mia seconda chance.
Guardo Sherlock, che adesso è concentrato a regolare lo zoom del microscopio, e capisco che lui ha percepito i miei occhi su di lui. Dura un secondo, è impercettibile, più veloce di un lampo ma è impossibile da confondere.
Sherlock sorride.
E non c’è perla rara, gioiello prezioso o qualunque altro costosissimo regalo che io potrei apprezzare di più di quel gesto così semplice e istintivo. Perché la felicità del mio migliore amico, la consapevolezza di aver suscitato in lui un interesse, una sorta di piacere, è il dono più bello che io possa desiderare.
Sa benissimo che ho visto, che non mi è sfuggito, che ho carpito quei pochi secondi imprimendoli a fuoco nella mia mente, senza la minima possibilità di poter dimenticare. Ho catturato quel veloce sorriso come una farfalla nel mio retino.
“Sentimentale” Sherlock sbuffa, ma vedo benissimo che non è arrabbiato, né offeso e tantomeno contrariato.
“E’ colpa tua” rispondo io senza esitazione, afferrando un giornale dal cesto e fingendo di trovarne la lettura interessantissima. Quando poi crede che io non lo guardi, che io sia concentrato sulle poche righe di un articolo di cui non ho neppure inteso l’argomento principale, sorride di nuovo.
E io sento il cuore arrivarmi in gola, pervadendomi da capo a piedi di un calore meraviglioso e speciale.
E questa giornata, mi ritrovo a pensare, non sarebbe potuta finire in modo migliore.

 

Quando a Sherlock offri un bacio, lui ti risponde con un brusco cenno del capo.
Siamo sdraiati sul letto, sul quello che è stato il mio letto che ora mi piace considerare come nostro, e tengo stretto Sherlock a me, con le gambe allacciate al suo bacino e le sue a circondare il mio in un caldo abbraccio.
Le mie mani vagano sulla sua schiena, disegnando figure indistinte sulla pelle liscia e leggermente segnata da cicatrici più vecchie e troppe più nuove, mentre le sue sono al mio viso, passando i polpastrelli su ogni piega del volto come se avesse bisogno di memorizzare ogni più piccola scabrosità del mio viso, ogni imperfezione e perfezione, soffermandosi sulle zone che reputa più affascinanti e degne di un maggior approfondimento.
Percepisco il tocco ruvido delle sue dita sulla fronte, che percorrono tutte le rughe d’espressione con delicatezza, facendomi sentire lusingato di tanto interesse e allo stesso tempo simile ad una strana cavia da laboratorio.
Ma so benissimo, Sherlock è fatto così, che non c’è alcuna freddezza e nessun subdolo fine scientifico nelle sue azioni. Almeno, non in questo momento.
“Sono più profonde qui, vicino agli occhi” sussurra all’improvviso, socchiudendo i suoi per studiare meglio quella determinata parte del mio volto. Continua a toccarla, cercando di percepirne ogni segreto.
Io ridacchio, spostando la mia carezza alle sue braccia solide, percorrendo il lieve avvallamento dei bicipiti.
“Sorrido molto di più” è la mia risposta, che gli provoca un sorrisetto ilare e ironico allo stesso tempo, come se la giustificazione da me fornitagli non si basasse su un così solido fondamento scientifico.
“Tu dai la colpa al tuo sorriso?” mi chiede, e il tono della sua voce è appena incredulo e suona leggermente come una presa in giro per la mia ingenuità. “Forse invece, è perché stai invecchiando, mio caro”.
Sapevo benissimo che sarebbe andato a parare su quel punto, lui che adorava alimentare il suo ego con i complimenti della gente che non faceva altro che lodare il suo viso giovanile e particolare, che fuorviava quasi sempre chiunque fosse ignaro della sua vera età. Tutti quanti finivano sempre, inevitabilmente, con l’attribuirgli almeno cinque anni in meno di quanti ne avesse veramente.
“Oh, senti chi parla” lo punzecchio, attirandolo ancora più vicino e godendo del suo gemito leggero provocato dall’improvvisa vicinanza. “Quello che verrà sempre scambiato per un ragazzino”.
Lui ride, e si crogiola nel calore dei nostri corpi premuti assieme, appoggiando la fronte alla mia e guardandomi con occhi curiosi.
“Invidioso” commenta, pensando di pungermi nel vivo.
“Oh per niente. Io almeno sembro un uomo adulto, vissuto, pieno di esperienza” questa volta rivolto la situazione a mio favore, stuzzicandolo su uno dei suoi punti deboli, la gelosia. “Avrei file di ragazzi e ragazze dietro a quest’ora, se non fossi già impegnato con te”.
Il suo viso si colora di un rosso acceso, diventando quasi comicamente fosforescente in meno di un minuto, facendolo assomigliare ad un buffo personaggio stereotipato da fumetto per bambini. Non posso fare a meno di ridere quando vedo quel repentino cambio di realtà sul suo volto, quasi fosse uno schermo televisivo sul quale cambiare canale, o espressione, a proprio piacimento.
“Oh, scusa se faccio un torto al mondo pretendendoti tutto per me” la sua fronte si stacca dalla mia e incrocia le braccia, come un bambino col broncio. Sento il mio cuore che batte all’impazzata, come durante lo sprint iniziale di una corsa olimpionica, e in quel momento mi ritrovo davanti ad uno dei motivi principali per il quale amo quell’uomo più della mia stessa vita. E’ capace di provare così tanto, è capace di racchiudere in poche parole così tanti sentimenti da sembrare una moltitudine di persone racchiusa in una sola. E’ semplicemente unico. E’ semplicemente Sherlock.
Io rido e incrocio una mano con la sua, che all’inizio respinge il mio tocco, per arrendersi –senza nemmeno poi tanta fatica- appena due secondi dopo. L’altra mia mano percorre la sua schiena con dolcezza fino a fermarsi sul suo collo, attirandolo in un bacio pieno di quell’amore che in quel momento mi pervade, fino al midollo.
Lui è schivo sulle prime, fa il prezioso come poco prima lo han fatto le sue dita corteggiate dalle mie, e ritrae le sue labbra porgendomi la guancia come magra e insoddisfacente sostituta. Accarezzo la pelle sensibile della mascella con la bocca, fino a salire sugli zigomi sottili e taglienti che tanto mi fanno impazzire, e lo vedo soccombere man mano alla mia subdola manovra d’attacco.
Piano piano lo vedo tornare a rivolgere lo sguardo al mio, le mie labbra che cercano nuovamente le sue, trovando molta meno ritrosia e sempre più un mutuo interesse, ancora poco abilmente mascherato da algida freddezza, fin quando finalmente non raggiungo il mio agognato traguardo.
Si lascia baciare con trasporto, lui che fino a pochi secondi prima voleva sembrare offeso, partecipando con passione, dedizione e profondo desiderio. Sento la sua lingua sfiorare dolcemente le mie labbra e le consento il passaggio, la mia già pronta ad darle il bentornato con piacere immenso.
Dopo qualche minuto passato letteralmente a colmare ogni dimenticanza sulla conoscenza reciproca delle nostre bocche, mi separo da lui a malincuore, per pura necessità d’ossigeno.
Accolgo il suo viso tra le mie mani e sorrido, fissandolo negli occhi azzurri quasi completamente scuriti dall’eccitazione intensa. Lo vedo, dopo un’iniziale esitazione, ricambiare il mio gesto.
“Lo sai che sono tuo” gli assicuro, perché non voglio che abbia mai nessun dubbio, perché capisca che i miei scherzi sono solo tali e senza alcun fondamento di verità. “E che non vorrei essere di nessun’altro”.
I suoi occhi brillano come gemme bagnate di sole e inaspettatamente si mette a ridacchiare, scuotendo la testa come per redarguirmi.
“Oh beh, non ho mai avuto nessun dubbio su questo, John” mi prende nuovamente in giro, fingendo di non essere mai stato davvero colpito dalla mia galeotta affermazione di poco prima. Tipico di Sherlock, capovolgere completamente le situazioni portandole a suo favore.
Sospiro, conscio di non potere nulla contro la furbizia e l’innegabile astuzia del mio compagno.
“Oh, lo avevo immaginato sin da subito” la mia voce è inevitabilmente sarcastica, e so benissimo che lui ne ha colto benissimo la sfumatura. Non sembra desideroso di continuare lo scherzoso battibecco comunque, come se fosse –stranamente- soddisfatto anche così.
Tossicchia, con fare importante.
“E la scusa del sorriso non regge” mi bacchettò, con l’espressione altezzosa di chi la sa molto più lunga di te. “Il tuo è bellissimo, non dovresti attribuirgli certe ingiuste colpe”.
Mi fingo quasi dispiaciuto per un secondo, e sinceramente colmo di rimorso per aver osato fare un torto a quella mia, a detta di Sherlock, tanto affascinante caratteristica, ma non riesco a mantenere la concentrazione incentrata su quella recita per molto tempo ancora.
Non posso fare a meno di avvicinarmi di nuovo a lui, abbracciandolo e stringendolo a me con quanta più forza riesco a trovare, e lui sembra sinceramente stupito ma felice di quel mio gesto spontaneo e sentito.
“Non è affatto colpa sua infatti, Sherlock” sussurro al suo orecchio, mentre la mia schiena è percorsa da brividi provocati dal lento solletico del suo dito indice sulla colonna vertebrale.
Lui s’irrigidisce appena, colto di sorpresa.
“E allora di cosa, John?” lui domanda, curioso. Strano che non fosse riuscito a dedurlo da sé. “Ammetti di star invecchiando?”.
Io rido e lo colpisco con una certa forza, ma senza ovviamente fargli troppo male, nell’area più morbida tra i fianchi e sopra il coccige, mordendo allo stesso tempo il lobo del suo orecchio con una dolce pressione dei denti.
“Oh no. In realtà, è colpa tua” confesso e lui, questa volta, rimane congelato nel nostro abbraccio. Probabilmente sta pensando chissà cosa, sono propenso a credere che il suo cervello stia elaborando pensieri sulla falsariga di ‘la vita con me lo stressa così tanto da farlo invecchiare precocemente’, ‘cosa sto facendo?’, ‘sarà davvero colpa mia?’ e per qualche secondo, lascio che viva nella consapevolezza che io stia pensando davvero qualcosa del genere. Giusto per una mia piccola soddisfazione personale.
Quando mi sento abbastanza soddisfatto da ritenere di poter mettere fine a quel piccolo scherzo, mi avvicino nuovamente al suo viso, ma questa volta, prima che lui possa parlare, lo zittisco con un dito sulle labbra e rimango a fissarlo, le fronti nuovamente poggiate l’una contro l’altra.
“E’ colpa tua” ripeto ancora, sussurrando. “perché è grazie a te che sorrido di più”.
Lui ride, enormemente sollevato, e io non posso fare a meno di regalargli, e regalarmi un altro tenero bacio.

Quando a Sherlock offri la vita lui ti ripaga con la morte.
Avevo pensato a quell’eventualità per mesi, prima di decidere finalmente di darmi una mossa e ponderare una volta per tutte i pro e contro della mia importantissima decisione.
Non era certo il momento più adatto per una cosa del genere, con il processo di Moriarty in atto e tutta l’inevitabile polvere sollevatasi intorno a Sherlock, ma il pensiero che avrei potuto distrarre il mio compagno da quella spirale di intrighi, enigmi e giochi psicologici tipici del suo arcinemico, mi allettava più di quanto forse sarebbe stato lecito.
Sherlock amava quella situazione, per quanto intricata e dai risvolti più inquietanti di quanto ci saremmo mai aspettati, e io ero più che consapevole che una distrazione forse non sarebbe stata la cosa più gradita, in quel momento. Fatto stava che non riuscivo davvero ad aspettare, a dirmi ‘John, lascia che passi un po’ di tempo e andrà tutto bene’ perché per un motivo o per l’altro, sentivo di non potermi permettere altre attese e altro tempo inutile.
Qualcosa mi diceva che se davvero ero certo, sicuro delle mie intenzioni, la cosa migliore da fare era agire subito, senza pensarci ulteriormente, senza nessun ripensamento.
Ero passato in negozio e avevo speso ore, ma letteralmente più di centoventi minuti di fila a scegliere qualcosa che a Sherlock potesse davvero piacere senza che sentisse la necessità di stroncare la mia scelta con una delle sue battutine acide e fuori luogo.
Neanche sapendo come fosse stato possibile che il commesso non si fosse spazientito tanto da mandarmi direttamente a quel paese dopo l’ennesimo cambio di decisione, uscii finalmente da quel luogo dove probabilmente mi sarebbe stato interdetto l’accesso per il resto dei miei giorni, soddisfatto e sempre più deciso ad andare avanti.
Il giorno dopo, ero stato ad un passo dal fargli quella fatidica domanda, ma davvero vicino, molto più vicino di quanto avrei creduto di poter arrivare con un solo misero giorno di preparazione psicologica per quel discorso. Non dovevo ritirare un Nobel, o un Pulitzer o chissà quale importantissimo riconoscimento ma ci tenevo a fare bella figura con l’uomo che amavo e che avrei amato per tutto il resto della mia vita.
Vicinissimo alla meta, Sherlock aveva poi deciso che la figura di Jim Moriarty necessitasse dell’assoluta priorità molto più di me e delle mie smancerie distraenti, quella sera.
Non ce l’avevo fatta. Non avevo avuto il coraggio di controbattere anche se ero furioso, anche se dentro di me ribollivo di rabbia e frustrazione verso il mio compagno, perché me lo aveva sempre detto nonostante mi fossi illuso che le cose sarebbero potute cambiare. Il lavoro viene prima.
‘Riproverò domani’
 mi dissi, cercando di sbollire l’ira e la profonda delusione. ‘Andrà meglio, andrà tutto bene’.
Il giorno dopo poi, Sherlock morì.
Sono seduto su una delle scale del mio appartamento.
Fisso una crepa profonda nel muro di fronte a me e non riesco a distogliere l’attenzione, come se dal seguire quella scalfittura sottile e disseminata di pittura secca dipenda la mia vita, la mia sanità mentale. Più probabilmente, perché so che una volta spostato lo sguardo da quella inutile e stupida distrazione, tutto tornerà a travolgermi. E io non so se potrò sopportare un peso del genere prima di soccombere anch’io. Non sono pronto. Sono debole, svuotato.
Non provo niente, in questo momento.
Solo una sensazione estremamente piatta, come quel millesimo di secondo in cui colpisci qualcosa violentemente e il primo impatto fa talmente male che, paradossalmente, quasi sembra non esserci dolore. Quello che sento in questo momento è solo la stessa sensazione, soltanto molto, troppo, prolungata. Penso che se arrivasse qualcuno e mi colpisse con un coltello, non sentirei nulla.
Probabilmente, appena metterò bene a fuoco la situazione, comincerò ad urlare così forte che Mrs Hudson crederà che i muri possano crollare da un momento all’altro. E certamente mi metterò a colpire il muro, a lanciare oggetti sulla cazzo di poltrona del mio cazzo di coinquilino bastardo e piangerò, oh sì, perché è –era- un maledetto guastafeste e io dovrei odiarlo, dovrei maledirlo fino alla fine dei miei giorni e invece lo amo come lo amavo prima e anche di più.
Sono un idiota. Aveva ragione. Probabilmente, lo sono sempre stato.
Una porta sbatte giù in strada, e sento i passi di un uomo che si allontana lungo la strada discorrendo animatamente con qualcuno al cellulare. Vorrei scappare via anche io, vorrei afferrare io il mio telefono e gettarlo per terra fino a ridurlo in mille piccoli pezzi come se così io possa cancellare ogni traccia di ciò che è successo, di ciò che mi ha detto, del suono metallico della sua voce attraverso quell’apparecchio.
Un nuovo rumore giunge alle mie orecchie, la porta che si apre questa volta è quella del 221B e non è uno sconosciuto a comparire in fondo alle scale, ma Gregory, intento a guardarsi intorno con aria smarrita.
L’ispettore, o qualunque cosa sia lui al momento, fissa il corridoio e si stringe nel suo giaccone troppo largo che probabilmente nemmeno gli appartiene, e si strofina le braccia come se avesse freddo e non riuscisse in alcun modo a riscaldarsi. I capelli sono scompigliati e bagnati di pioggia, e i suoi occhi sono rossi e gonfi, le guance umide e lucide. Alza gli occhi e incontra i miei quasi immediatamente, ma non riesce a mantenere lo sguardo nonostante io veda quanto ci stia provando. Lo capisco, non insisto e non ho la minima intenzione di spingerlo a parlarmi, se non vuole. Le sue sarebbero solo parole di cordoglio, e non è affatto di quello che ho bisogno adesso.
“John” lui sussurra, all’improvviso. Adesso l’incantesimo è rotto. E’ tutto di nuovo reale. “John, mi dispiace tanto” aggiunge e vedo qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non riesco a capire ma che probabilmente, è solo dettato dalla mia mente confusa. Sembra pieno di rimorsi, come se quello che è successo fosse colpa sua. So perché si sente responsabile e posso capirlo. Lo consolerei, se fossi lucido e coerente. In questo momento però, non m’importa di niente e di nessuno.
Non gli rispondo mentre lui avanza a piccoli passi verso di me, strisciando i piedi nelle scarpe basse e infangate e sedendosi sulla scala accanto a me. Non faccio caso alla sua figura, anche se in fondo al mio cuore, sotto il dolore, sotto la perdita, l’odio, e la rabbia c’è un piccolo posticino anche per lui. Sembra leggermi nella mente e posa una mano sul mio ginocchio, tentando di trasmettere un conforto che non sortisce alcun effetto, in me.
Rovisto nelle tasche, cercando di respingere il profondo panico che sento crescere dentro ogni secondo di più, e tiro fuori una scatoletta di velluto blu, quella che a quest’ora sarebbe dovuta essere tra le mani di Sherlock, e non certo nelle mie.
La apro, incurante che Greg sia ancora lì a guardare e che ora stia inevitabilmente fissando le mie mani chiedendosi se è davvero quello che crede. Non lascio la sua curiosità digiuna ancora per molto e apro la scatoletta, rivelando la semplice fascia d’oro bianco che essa contiene.
“E’ troppo semplice, lo so” dico, senza sapere neppure perché lo faccio. “Ma è l’unico tipo di gioiello che avrebbe mai accettato di indossare”.
Non incontro più lo sguardo di Gregory, perché non voglio leggere la pena, la commiserazione, lo sguardo da ‘io soffro come te’.
Per quanto lui possa comprendere non riuscirà mai a capire davvero cosa io provi.
“E’ molto bello” comunque dice, e non mi sarei mai aspettato quelle parole. “Gli sarebbe piaciuto”.
Mi ritrovo a sorridere, senza alcuna gioia, in un gesto meccanico come sbattere le palpebre. Gli sarebbe davvero piaciuto, forse. Non potrò mai saperlo, e questo sarà un altro rimpianto che mi negherà il sonno. Non dico niente. Non ci riesco. Sfioro ancora la scatola e il metallo freddo, gelido come ora lo è l’uomo a cui esso era destinato.
“Avrebbe detto di sì” Greg sussurra, e la mano sulla mia gamba si stringe in un pugno, in un gesto di estrema impotenza. “Non dubitare mai di questo”.
Fa male, non fa bene. Per quanto Greg sia convinto che l’idea di quel , che l’immagine di Sherlock che accetta quell’anello e tacitamente acconsente a legarsi a me per tutta la vita possa alleviare almeno un po’ ciò che provo, quel pensiero è soltanto un ulteriore affondo della lama che sta squarciando il mio cuore a poco a poco.
“Non importa più, ormai” io finalmente parlo di nuovo, ma è una voce totalmente diversa dalla mia quella che lascia le mie labbra. “Qualunque cosa avesse risposto”.
Lascio la scatola accanto a Greg, sullo scalino di nuovo freddo, e non mi volto indietro a riprenderlo o a rivolgere un gesto di saluto a Greg.
“Non serve più a nulla” aggiungo, prima di sbattere la porta dietro di me.
Immagino cosa sarebbe potuto succedere se Sherlock avesse deciso di rispondere no, alla mia proposta. Un secco rifiuto, un freddo diniego.
Magari andrà meglio. Magari lenirà la mia sofferenza.
Ma nemmeno sotto quella prospettiva, il cuore fa meno male.

 

Quando a John offri una piccola parte di te, lui ti ripaga con tutto sé stesso.
Non ho mai avuto paura di nulla in vita mia.
Non ho mai avuto timore dei ragazzi più grandi a scuola, quelli il cui maggiore divertimento era rivolgermi minacce per farmi sentire diverso e inadeguato; non ne ho avuta quando ho iniettato cocaina nelle mie vene per la prima volta, totalmente conscio delle possibili conseguenze.
Non ho temuto niente la prima volta che ho accarezzato la morte, con la lama di un coltello affondata nel mio torace troppo vicina al mio cuore.
Non avevo nulla da perdere, allora. Non m’importava della mia famiglia, ero scappato da loro per un motivo ben preciso, e soprattutto non m’importava della mia stessa vita. Morire facendo qualcosa che amavo, che mi faceva sentire bene e, paradossalmente, vivo era la prospettiva più bella del mondo.
Adesso, seduto sulla mia vecchia poltrona a Baker Street, quella che John non ha neppure spostato di un centimetro, come fosse anch’essa una lapide commemorativa nell’enorme mausoleo che è il 221B, io ho paura.
Ho paura che il mio migliore amico, il mio compagno, l’unico uomo che io abbia mai amato possa essere cambiato. Sono spaventato, perché so che potrebbe rifiutarmi, non volermi mai più vedere una volta superato quell’iniziale shock.
E, cosa più orribile, so che ne avrebbe tutto il diritto e che non potrei affatto biasimarlo.
Mi passa una tazza di tè, e alcune gocce finiscono irrimediabilmente sul piattino a causa del tremore delle sue dita. Io la afferro prima che cada e sfioro appena le sue dita, per sondare le acque, per capire se trovi il mio tocco disgustoso come in fondo dovrebbe. Non lo fa.
Beve un sorso della sua bevanda e non mi guarda, ma anche senza incrociare i suoi occhi posso capire cosa stia succedendo nella sua mente.
Vorrebbe cacciarmi via, lo so bene, ma allo stesso tempo è combattuto perché sono tornato, e sono venuto da lui prima di chiunque altro e ho pianto davanti a lui come non avevo mai fatto con nessuno. Forse teme che io sia un fantasma, che sia un incorporeo prodotto dei suoi incubi notturni e della conseguente insonnia. Così rimane lì, senza aver detto nemmeno una parola, senza aver alzato neppure un dito su di me per lenire la sua frustrazione e dar sfogo all’ira rinfacciandomi quanta poca fiducia avevo avuto in lui a non dirgli niente.
“Vorrei ucciderti, lo sai?” mi coglie di sorpresa pronunciando quelle parole prima che potessi prevederlo. Chiudo gli occhi e annuisco.
“Ne avresti diritto”.
“Oh sì, ne avrei” lui dice, stringendo le labbra fino a renderle livide. “E anche se non lo avessi, lo farei comunque”.
Posa la sua tazza di tè sul tavolino accanto alla poltrona perché non riesce più a berne, e soprattutto, non riesce a tenere la mano abbastanza ferma da poter reggere la tazza senza versarne il contenuto. Stringe le mani in pugni saldi e le tiene sulle cosce, ancora fissandomi.
“Dimmi solo una cosa, Sherlock” poi mi domanda, quando invece mi sarei aspettato che cominciasse a sfogarsi. “E’ stato…necessario?”.
La domanda mi spiazza e non è una cosa a cui sono abituato, nemmeno un po’. Non succede spesso che quello che la mia mente elabora come giusta progressione di un discorso o di una situazione si riveli poi completamente diversa da come essa ha programmato. John però, è sempre un eccezione.
“Lo è stato” ammetto, ed è la verità. Io lo so bene, lo sa Mycroft, lo sa Molly e presto lo saprà anche John. “O non ti avrei mai e poi mai lasciato all’oscuro”.
John accenna un sorriso e scuote la testa, ma non capisco se è una silente approvazione delle mie parole o una sarcastica conseguenza al fatto che non creda minimamente a nessuna di esse.
Dal canto mio, so di essere nel giusto. So che gli ho aperto il mio cuore come non ho mai fatto con nessuno.
“Valeva la pena, quindi?” aggiunge ancora, a voce bassa. Credo non riesca fisicamente a parlare con tono più alto. “Valeva la pena farmi soffrire per anni, per poi ricomparire nell’esatto momento in cui credevo di aver recuperato le redini della mia vita?”.
Mi ero messo nei suoi panni per quanto avevo potuto, cercando di immaginare come si fosse sentito, cosa avesse provato, come fosse riuscito a ricomporre i pezzi della sua intera vita senza soccombere sotto il peso di ogni ricordo.
L'avevo visto, con Mary. L'avevo visto sorridere, felice come nei nostri giorni insieme, sereno, ed ero tornato a casa nel tentativo di portaglielo via senza remora alcuna.
Ma lei era arrivata in seguito.
Lei era stata solo l'ancora a cui John si era aggrappato per non affogare. Io, invece, ero sempre stato l'onda, la marea, la corrente.
E adesso, per quanto ingiusto, sono tornato per travolgerlo ancora senza possibilità di salvezza.
"C'è una ragazza" John dice, come se avesse appena aperto una finestra sui miei pensieri. "so che lo sai".
Annuisco, negare e mentire non servirebbe a nulla, e lui sospira combattuto stringendo ancora i pugni tanto da farsi male.
Non so come dirgli la verità, non so come dirgli che non m'importa, che io sarò suo per il resto dei miei giorni e che non mi arrenderò fin quando vivrò. Non so come dirgli che ormai ho il suo cuore e lo custodisco gelosamente nel mio come la cosa più preziosa che io possieda e che mi dispiace, che i miei sentimenti non sono cambiati e che nonostante ciò che gli ho fatto, credo nel suo amore.
Lo aspetterò per tutta la vita, se sarà necessario. Se mi concederà solo un bacio quando entrambi saremo vecchi e stanchi, io sarò felice.
"Lo so" esclamo, alla fine. "Lo so e non m'importa".
Non è quello che avrei voluto dire ma non ho potuto controllare la lingua che ormai non risponde più al mio cervello. Lui, stranamente, non sembra colpito più di tanto.
"Tipico di te" lui sussurra e vedo che sta cercando di mantenere la sua voce ferma. "Tornare e accampare pretese".
Ha ragione, lo so. Non ho la forza di raccontare il motivo per cui sento di avere ancora tutti i diritti del mondo, perché lui neppure lo immagina. È normale che parli così, lo avrei fatto anch'io se lui avesse fatto male a me come io ne ho fatto a lui.
"Lei mi da tanto, Sherlock" dice ancora, alzandosi e dirigendosi verso la mia poltrona. Si ferma in piedi di fronte a me e io lo fisso, dritto negli occhi. "Tu mi hai dato solo dolore, incubi e notti passate a chiedermi perché".
Chiudo gli occhi e capisco che il tempo del silenzio sta per finire. Tocca a me, in quel momento. Ho paura, ma devo farlo.
"John" bisbiglio, lieto che questa volta ci sia davvero lui ad udirlo.
"Ti vedo cadere" lui mi dice, interrompendomi. "Ogni santa notte, quando chiudo gli occhi. Cadi e giaci lì, senza rialzarti".
Mi ricordo quando Mycroft mi lasciò gli appunti della sua terapista, pieni di note scarabocchiate su mancanza di fiducia e predisposizione al somatizzare le proprie angosce.
"Mi dispiace" dico, non posso aggiungere niente di più di questo. "Io non avrei mai voluto arrivare a questo".
"Ma ci sei arrivato" è la sua risposta. "E ora vieni qui e mi chiedi di...dimenticare gli ultimi tre anni".
I suoi occhi sono lucidi adesso, segno che la sua buona volontà sta vacillando pericolosamente vicino ad un punto di non ritorno.
"Sì" dico. Nessun'altra parola avrebbe lo stesso impatto, per me. Sì sì sì vorrei che tu dimenticassi e mi dicessi che mi ami come il giorno in cui ti ho lasciato.
La sua espressione è colma di ironia e frustrazione, visibilmente sorpreso della mia schiettezza.
"Oh" esclama. "certo".
Rimane ancora lì in piedi e non aggiunge altro, il che, da un lato, mi fa ben sperare. Mi illude che voglia sentirmi parlare ancora, che voglia essere convinto, che abbia bisogno che io gli dia la sicurezza che questa volta andrà tutto per il verso giusto.
“Cos’hai da darmi, Sherlock?” poi mi domanda, abbassando lo sguardo e tirando su col naso. Si impone di trattenersi ancora, anche se io vorrei davvero che si sfogasse, che mi sputasse addosso tutto il suo odio e il suo risentimento.
Mi ha chiesto cosa ho da offrirgli. Penso, penso a ciò che sono adesso e non trovo una risposta abbastanza soddisfacente da potergli dare. Sono ancora un uomo morto, e come tale io non esisto più.
Sono indebolito, il mio volto è segnato inevitabilmente da ciò che ho dovuto passare e non ho nessuna sicurezza, nessuna garanzia, nulla di prezioso o significativo abbastanza da spingerlo a lasciare quella donna e la sicurezza di un rapporto sereno, per ritornare ad una vita imprevedibile e instabile con me. Decido di rispondere con l’unica cosa che davvero posso dire con certezza, con l’unica sicurezza che possiedo in quel momento.
“Io non ho niente” dico, senza staccare nemmeno per un momento gli occhi dai suoi. “Ho solo quel che resta del mio cuore. Ed è tuo”.
Lui respira profondamente, come se qualcuno gli avesse messo le mani al collo e lui non riuscisse a respirare correttamente. Rilascia finalmente i pugni e i suoi palmi riposano contro le cosce tese, ancora tremanti. Il suo silenzio alimenta la mia paura, ravviva quel fuoco di terrore che rischia di bruciare ogni mia speranza, convincendomi che è finita, che non tornerà mai, che siamo giunti alla fine della corsa. Che qualunque cosa fosse esistita tra noi è ormai destinata a rimanere qualcosa di passato, antico, dimenticato.
Prima che possa accorgermene, prima che possa anche solo trasformare in parole una qualunque delle mie paure, lui frena ogni mia possibile mossa.
Si muove e mi sovrasta con il suo corpo senza che io possa comprendere prima cosa stia per fare, portando un braccio a cingermi le spalle e una mano ad attirare il mio viso al suo.
Baciarlo dopo tanto tempo è come raggiungere un’oasi in pieno deserto, come tornare a respirare dopo ore ed ore sott’acqua, come tornare a vedere la luce dopo aver percorso un sentiero oscuro. Mi sento così bene che ho timore che sia tutto un sogno e che presto mi sveglierò da solo in un albergo a Lhasa.
Le sue labbra sono esattamente come le ricordavo, come tante volte le avevo sognate e desiderate. Il bacio è esigente ma a me va bene così, come se John volesse recuperare in quella sola sera anni e anni di dolorosa mancanza. La sua lingua si intreccia con la mia e scivola nella mia bocca esattamente dove lui sa, non lo ha mai dimenticato, mi piace sentire la sua carezza. Le sue mani vagano nel frattempo, passando dalle spalle ai miei capelli, stringendoli con dolce foga, fino a scendere alle mie braccia e alle mie mani, che intreccia saldamente con le sue.
Mentre ancora mi bacia, la mia testa prende a girare vorticosamente per l’euforia e la felicità di quel momento, e approfondisco ancora il bacio, affamato di John come non mai.
Improvvisamente sento qualcosa di umido scivolare tra i nostri volti e mi accorgo che sta piangendo, il suo petto scosso da singhiozzi silenziosi. Non mi separo da lui né lo spingo a dirmi cosa non va o qualunque altro inutile convenevole, ma mi limito ad abbracciarlo, a tenerlo stretto a me come un bambino da consolare. Alla fine le nostre labbra si separano e lui affonda il viso contro la mia spalla, bagnando la mia camicia e stringendo i pugni intorno alle maniche, con forza.
“Ti amo, John” sussurro contro i suoi capelli. Bacio poi la sua fronte, mosso dall’amore più forte che io abbia mai provato. “Ti amo e tu mi stai dando più di quanto avrei mai potuto desiderare”.
Lui singhiozza ancora, contro la mia spalla, ma alza finalmente lo sguardo. L’espressione nei suoi occhi mi fa male ma allo stesso tempo mi rasserena, mi solleva, mi fa sentire bene come non succede ormai da troppo tempo. I suoi occhi sono rossi e umidi di pianto, ma sulla sua bocca c’è il bocciolo del primo vero sorriso che avessi visto quella sera sulle sue labbra.
“Mi basta, sai, Sherlock?” riesce a sussurrare, la voce roca e instabile. “Perché insieme a ciò che resta del mio potremmo ridar vita ad un solo cuore”.
E’ la cosa più bella che mi abbia mai detto, e finalmente non ho più paura. Ho temuto tanto e, per la prima volta in vita mia, ho pregato altrettanto intensamente perché tutto potesse andare bene. John è l’unico per cui io l’abbia mai fatto e sarà, probabilmente, l’unico per cui mai lo rifarò.
“Uno basta” mi ritrovo a dire, mentre lui cerca di nuovo le mie labbra. “In fondo, i nostri,  sono sempre stati un cuore solo”.
Nessuno dei due parla ancora e qualcosa mi dice che non lo faremo neppure per quel che rimane della sera. Ci sarà tempo per parlare, per spiegare, per rimettere a posto ogni più piccolo tassello del puzzle, ma non è questo.
Pian piano sento John soccombere alla stanchezza di quella sera, finalmente sereno, finalmente libero da tutte le angosce e i rimorsi che lo avevano tormentato nei giorni passati. Mi dispiace per Mary, e mi sorprende il fatto che io abbia pena per lei davvero, ma John è destinato a me come lo è sempre stato in passato e sempre lo sarà.
Respira dolcemente, ancorato al mio corpo e rannicchiato contro il mio petto, e non m’importa se domani mi sveglierò dolorante e indolenzito: non ho intenzione di muovermi, non ho intenzione di fare assolutamente nulla se non guardare il viso del mio John per tutta la notte.
Forse sognerà ancora, e probabilmente accadrà a breve, quando il sonno diverrà più profondo, ma sono pronto ad affrontare quell’eventualità.
Probabilmente sarò io il protagonista di quel sogno, come succede ogni giorno.
Probabilmente cadrò ancora questa notte, ma stavolta non giacerò in terra inerme e in una pozza di sangue scuro. Non rimarrò fermo mentre lui stringerà il mio polso alla ricerca di un battito inesistente.
Questa volta, io aprirò gli occhi e afferrerò la sua mano.

 

 

 

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