Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Falling_for_you    15/01/2013    3 recensioni
"La prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le sfumature dei colori.
Pensai che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi dissi, i bambini sono colorati e non sono mai soli.
La seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.
Scoprii quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si apprestava ad aprire il forno.
La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


TAC TIC: CACOFONIA DI UN MOMENTO SBAGLIATO



Image and video hosting by TinyPic



Essere pronto è molto,

saper attendere è meglio,

ma sfruttare il momento è tutto.



Era il 25 dicembre 2007 e sentiva diffondersi nell'aria le note di un motivo natalizio di cui non ricordava bene il titolo: qualcuno cantava in una chiesa. Pensò che a lei sarebbe piaciuto se solo lo avesse potuto sentire e che lo avrebbe costretto ad andarci trascinandolo per il bavero della maglietta, avrebbero corso a perdifiato tenendosi stretti per mano, l'avrebbe trascinata dietro di sé con tutta la sua forza facendola stare al proprio passo, solo per poterle fare ascoltare gli ultimi melodiosi accordi accompagnati dai battiti cadenzati delle mani. Forse, una volta arrivati, avrebbero trovato una chiesa deserta, priva del calore di una voce a riscaldarla, avrebbero avuto il fiatone e avrebbero distinto i soffi affaticati del loro respiro nell'oscurità dell'aria, avrebbero avuto le labbra viola e il volto intorpidito per il freddo sferzante, i muscoli, esausti, avrebbero fatto male contraendosi, ma non gli sarebbe importato; sarebbe stato vitale, invece, osservare i suoi occhi illuminarsi e le sue labbra tendersi all'insù.


Una raccapricciante smorfia di dolore si delineò sul suo viso, la cicatrice si strizzò infiammandosi sottopelle e le labbra si arricciarono attorno a una sigaretta, una MS, per poi liberare un setoso alito grigio di fumo; nella testa, il ricordo evanescente di un sorriso.


Erano le sette quella sera, era buio e le strade del quartiere, lumeggiate dall'algido chiarore delle sgargianti illuminazioni natalizie, erano aride e desolate così immerse in un insolito silenzio, tutti erano nelle loro case, rassicurati e riscaldati dal tepore e dall'incantata e precaria serenità di un giorno di festa; si potevano distinguere le decorazioni e le luci accese, ma non quelle di una cucina o di un soggiorno, erano le camere da letto e i bagni ad essere illuminati: tutti erano indaffarati a prepararsi al meglio, una festa li stava aspettando.


Lui, invece, era solo, al parco, seduto sul filo dello schienale della solita panchina e con indosso una maglietta rossa, a maniche corte, come se fosse già talmente assiderato da non percepire minimamente la pelle rinsecchirsi, raschiata dal freddo pungente dicembrino; aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani strette le une alle altre, si davano forza ferendosi in una morsa che sapeva quasi di disperata preghiera.

Ne accese un' altra, di sigaretta, mentre immagini che avrebbe preferito dimenticare gli scorrevano davanti, guidate da un animo che non era il suo, aspirò profondamente rilasciando nell'aria un altro sbuffo grigiastro, dietro al quale, celò i suoi occhi, tristi, annebbiati, ghiacciati, come se lì, in mezzo al buio, ci fosse qualcun altro che potesse vederlo e , forse, era proprio questo che sperava; ad un occhio estraneo, quelle iridi, sarebbero parse quasi lucide, lui, al contrario, si disse che ancora, dopo anni, doveva abituarsi alle violente pennellate, aspre e ardenti, del fumo pungente le sue pupille. Abbassò le palpebre sconfitto, consapevole che quando si è come lui, un ottimo bugiardo, le menzogne con cui abbindoli te stesso sono difficili, se non impossibili, da digerire.


Pensava, Leonardo. Con le dita di una mano, affannate e inquiete, serrava la stoffa leggera di quella maglietta rossa, lì, vicino al petto, dove il cuore sembrava aver smesso di battere, esaurito e avvelenato da quell'inchiostro spietato e corrosivo di un marchio indelebile che gli parlava di un ricordo sfumato nel tempo, di una vita che avrebbe preferito dimenticare.

Pensava a come sarebbe potuto essere se lì ci fosse stata lei, a come sarebbe potuto diventare, pensava a un passato remoto, alle botte che si sarebbe risparmiato e che avrebbe risparmiato agli altri, pensava a quando, magari, un sorriso sulla sua bocca ci sarebbe scappato, a quando, a Natale, c'erano ancora il panettone e il pandoro sul tavolo della cucina, a casa sua.

Pensava a quanto sarebbe stato diverso, chiedendosi se ci sarebbe stato lo stesso su quella panchina, se si sarebbe sentito meno solo ma in realtà era conscio che, qualsiasi spazio varcasse e in qualsiasi tempo vivesse, nessun luogo gli sarebbe appartenuto, nessun momento sarebbe stato quello giusto.


Pensava, Leonardo, almeno finché non vide lei, che non era lei, stretta in un cappotto nero, camminare verso la chiesa, seguendo il richiamo di un canto. La osservò allentando la stretta sul petto mentre un brivido di freddo risaliva tutta la lunghezza della sua spina dorsale; guardò lei che poco sopportava e odiava, lei che lo voleva e amava, lei che lo logorava e distruggeva, lei che lo inseguiva e spiava, lei che lo vedeva, lei che sorrideva e arricciava il naso,lei, che non era lei.

Si disse che i suoi capelli erano troppo scuri ed eccessivamente ricci, che le sue labbra erano troppo poco carnose, che i suoi occhi avrebbero dovuto essere marroni, che il suo corpo avrebbe dovuto essere più esile e minuto.


La immaginò arricciare il naso e nella sua testa ne comparve un altro, di naso; si rassicurò dicendosi che fosse impossibile.

La immaginò sorridere e nella sua testa balenò il pensiero che quel suo sorriso fosse perfetto; tremò, certo che stesse sognando.

La immaginò guardarlo e allora ebbe paura.


Si alzò in piedi, probabilmente per vedere meglio, fissò le iridi su di lei, che non era lei, ne registrò i particolari e spontaneamente sorse la nociva e fastidiosa consapevolezza di trovarla irrimediabilmente bellissima, il respirò si bloccò in gola lacerando la pelle incendiata delle sue braccia nude e martoriando il suo cervello; si accorse di quella mano, sul suo fianco, di quelle dita che lo impugnavano, bastò un secondo per aggrottare le sopracciglia, indurire la mascella e desiderare di stare lui lì, in quel posto, il suo posto, per poi odiarsi e odiare lei, che non era lei.


La osservò allontanarsi e la vide.


Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l'anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce catastrofe. Credo che c'entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da fuori. Non ci puoi entrare, è qualcosa che rimane lì, e tu sei irrimediabilmente davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare. È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.



Nella vita comunque paghi per le scelte sbagliate
per quelle occasioni mancate
che non ti fanno dormire
ma ti sanno ferire

con ostinazione
attraverso i ricordi
di fatti e persone.


Tic tac, tic tac, tic tac.


E' sempre il tempo a fregarci, a me e a lui; crudele e impudente, ci canzona e si delizia, con disgustosa disumanità, guardandoci sfuggente rincorrerlo annaspando penosamente, consapevole delle nostre gambe troppo corte e stanche. Non ci aspetta, lui, procede indisturbato la sua corsa, va semplicemente, e non si sa dove, non si sa quando. Ci lambicchiamo, speranzosi e illusi, stanchi e amareggiati, a tentare di cogliere la sua complicata cadenza, a stare al passo senza perdere le battute, a districare l'armonioso groviglio delle sue note, costantemente uguali ma sempre così dannatamente diverse, a scorgere gli infinitesimali attimi che scandiscono lo spazio tra un secondo e l'altro, per registrali nella mente, conoscerli e farli nostri in modo da non perderci la prossima volta, quando rimarremo di nuovo tanto indietro.

Certo che lo sappiamo che è troppo veloce, che il suo incessante ritmo non riusciremo mai a tenerlo e che, una volta o l'altra, boccheggeremo a terra per la fatica, per le vene che urlano sottopelle, per il clangore di tendini che si frantumano e per il sapore rugginoso che ci saturerà la bocca, tuttavia ci accodiamo e ci sforziamo di seguirlo perché dobbiamo farlo: è la vita che ce lo impone.


Tic tac, tic tac, tic tac.


Il segreto è essere pronti, non voltarsi indietro e fermarsi troppo a lungo, si deve mantenere il passo di marcia, tallonare i secondi e prendere fiato ad ogni pausa, ascoltare bene ciascun tic e ciascun tac, rimembrarne la sequenza e riconoscerne tra molti la melodia migliore, quella più giusta, quella meno disarmonica e assordante per cogliere l'attimo.

Carpe diem, diceva Orazio, ed è proprio questo il punto, perché è esattamente quando ci perdiamo un solo tic e trascuriamo un solo giusto tac che la vita ci fotte, amaramente.


Tic tac, ti-c tac, tac.


Credo che noi, io e lui, non ci siamo mai riusciti, non l'abbiamo mai compreso il ritmo del tempo, ne abbiamo aggrovigliato i cicli, distorto la scansione, confuso i periodi e scompaginato l'ordine, finendo irrimediabilmente per essere braccati dalla cacofonia di un momento sbagliato.


Tac tic, tac tic, tac tic: questa è la sola ballata che appartiene al nostro tempo.


Entrò a far parte delle nostre vite fin da subito, lui. La sua figura fu una calamita, anche quando aveva ancora soltanto dodici anni, i suoi occhi erano meno spenti e sul suo corpo non gravava il peso di piaghe laide e velenose; è sempre stato come un magnete, era talmente sfuggente e inafferrabile, talmente scivoloso e inavvicinabile fin da allora, così nascosto e rifugiato al di là di quella corazza impenetrabile e granitica, che tutti si accalorarono nell'ipocrita e vano tentativo di afferrarlo, di bloccare quel suo fluire lesto per loro così troppo tempestoso e burrascoso.


Penso che ancora oggi non abbiano capito che lui è sempre stato immobile in realtà, oppresso tra le pareti di un oblio dai battiti fragorosi di un tac tic, in attesa di un nuovo tempo, quello adatto per lui. E' ancora lì, non si è mosso, non un solo passo in avanti, basta fermarsi per guardarlo e prenderlo, come vorrebbe, per rapirlo. E' solo in attesa che qualcuno lo faccia, una volta, per lui.


Quelli del mio quartiere indossarono da subito la faccia del buon samaritano e con quella ridicola maschera addosso organizzarono una festa di Natale, per farla conoscere a lui, che sembrava non ricordare neanche che sapore avessero il panettone e il torrone.

Da allora ogni anno si ripete sempre la stessa storia: dal primo di dicembre ecco che tutti diventano più buoni, ritornano i grotteschi e aberranti travestimenti da buonisti del cazzo e una luce fulgida si riaccende nel cervello rimembrando, improvvisamente, loro che qualcun altro esiste.

Ancora mi chiedo perché lui ci sia sempre andato a quella festa.


Ricordo che quell'anno si erano dati da fare parecchio, avevano affittato la vecchia area dell'oratorio, quello che mi trovavo di fronte non appena scendevo dal pullman che mi portava a scuola, vicino a quella chiesa in cui mia madre mi costringeva ad andare da piccola ogni domenica mattina, indossavo la veste da chierichetta insieme a Martina o sedevo alla destra dell'altare, facevo parte del coro.

L'oratorio aveva ancora i soffitti a volta con la pietra a vista e le pareti affrescate ravvivavano le stanze costantemente in penombra, illuminate soltanto dalla fievole luce che riusciva a oltrepassare le grate in ferro delle piccole finestre quadrate, avevano i colori sbiaditi e consumati dall'età, i contorni avevano smarrito la loro nitidezza e in qualche tratto mancavano di alcune parti, tuttavia le storie che essi narravano sembravano essere imperturbate dal logorio degli anni, i loro significati erano stampati con limpidezza e precisione su quelle superfici.


Ricordo le luci ad intermittenza, rosse, gialle e bianche, imbacuccavano gli alberi, perfino le siepi, antistanti l'entrata, vicino alla quale era stato posizionato un Babbo Natale di plastica a grandezza reale nella nuova versione di chaperon intabarrato in uno sgargiante smoking nero; a fargli compagnia ci sarebbe dovuto essere una pupazzo di neve, di cui si distinguevano ormai solo i resti di una carota, mangiucchiata, scommetto, da Ernesto, il bassotto della vicina di casa, un cappello di lana verde pisello, bucato, e tre bottoni di un blu scolorito sparsi a terra. Di quel pupazzo non ne rimaneva nulla se non un cumulo indefinito di neve, si era sciolto ed era troppo poco freddo affinché nevicasse di nuovo.

Fu uno dei pochi giorni di Natale in cui non nevicò, quello.

Sorrisi amaramente: il marasma di emozioni che avevo incollato addosso non mi faceva sentire poi tanto differente da un pupazzo di neve liquefatto il 25 di dicembre.


Ripensandoci, fu tutto sbagliato fin dal principio, fin dal momento in cui misi il naso fuori dalla porta e le mie pupille si posarono concitate sui vetri di una finestra che mi sembrava di non riconoscere più e un groppo mi occluse la gola, mentre le dita si aggrappavano disperatamente a lembi di pelle troppo lisci e perfetti per essere i suoi.

Come fu inopportuno e strano il senso di disagio che mi pervase non appena varcai la soglia dell'oratorio e incontrai gli occhi sorridenti di Italo, non ebbi neanche la forza di spostare lo sguardo per vedere se lui fosse lì accanto, magari con un pezzo di torrone in bocca e un flute di spumante in mano. Mi sentii assurdamente sporca, inquieta e mi vergognavo mentre delle mani non sue, leggere e delicate, facevano scorrere il cappotto nero sulle mie spalle scoperte, un sussurro appena udibile fuoriuscì da labbra troppo carnose per essere le sue, mi sfiorarono l'orecchio facendomi rabbrividire.

-Sei bellissima- dicevano.


Quell'anno avevo diciassette anni e avevo il ragazzo; si chiamava Luca.

Sei mesi erano trascorsi dalla prima volta che eravamo usciti, era più grande di me di un anno e mi veniva dietro da un po', mi comprava le rose, rosse. Mi costrinse Italo ad accettare il suo invito per un appuntamento, non volevo andarci, non mi agghindai come di solito faceva Martina, indossai dei jeans e un felpa comoda, non mi truccai ma riuscii comunque ad arrivare in ritardo. Mangiammo una pizza e mi offrì un gelato. Per la prima volta non pensai a lui, mi sentii libera, libera di muovermi, di respirare, di essere per un solo istante disattenta lasciandomi sfuggire i dettagli che solo il tempo avrebbe potuto farmi conoscere, libera di guardare oltre il vetro di una finestra e non avere paura di non trovarlo, il cuore non strippava nel petto, i muscoli non erano intirizziti e il cervello non pulsava nel cranio. Potevo avere tempo, per me, per vivere.

Non smisi di vedere Luca, anche se non era lui.

Credo di averlo sempre saputo, tuttavia soltanto quella sera ne presi realmente coscienza. Mi accorsi che la mia bocca, la mia lingua, faticavano a muoversi nel pronunciare un nome troppo corto, le mie orecchie non riconoscevano il suono della sua voce, sembrava essere così stridente e gracchiante, così stonata tanto da non capire il significato delle parole di cui era portavoce, mi resi conto del fervore con il quale ricercavo nei suoi occhi troppo marroni e troppo vivaci una nota triste, annebbiata e ghiacciata, le sue labbra, il suo viso, erano così perfettamente simmetrici, così intatti e armoniosi, i suoi lineamenti erano talmente angelici e rilassati da non sapere più chi avessi realmente davanti.

Sorrideva tanto, troppo, Luca mentre mi stringeva a sé e ballavamo con il sottofondo di una canzone natalizia. Distolsi lo sguardo dal suo volto incontrando in un battito di ciglia due iridi tristi, annebbiate, ghiacciate; pensai che avrei voluto le sue braccia intorno alla mia vita, che avrei voluto sentire la sua, di bocca, baciarmi la tempia, pensai che quel micidiale miscuglio di emozioni che lo inseguiva, fedele come solo un cane sa essere, fosse la seconda cosa più bella mai vista al mondo, la prima era la sua cicatrice, era lui, tanto da divenire impossibile da sopportare la sua vista.



Ricordo di aver sentito il tempo fermarsi, per una volta, quella sera. La nenia delle lancette non c'era più a rimembrarmi che fosse tutto sbagliato, che il momento per noi non era ancora arrivato e che, probabilmente, non ci sarebbe mai stato; non c'era più il tormentoso frastuono della consapevolezza di quanto tutto potesse essere ingiusto e di come, in realtà, noi, io e lui, fossimo impreparati e sprovveduti, ma soltanto quel silenzio tranquillizzante e ovattato di chi non aspettava altro da tempo, di chi era fermamente convinto che invece tutto era al suo posto e che non ci sarebbe stato istante migliore.

A volte, quando mi sembra che sia un po' più vicino, quando non rimane paralizzato lì, in un mondo che solo lui conosce, ma trova l'energia necessaria per tentare di allungare una gamba e camminare verso me chiedendomi di aspettarlo, percepisco ancora la sensazione serpeggiante dell'adrenalina scorrermi nelle vene, come quella sera, fluire, leggera e pungente, fino a che non avrà appestato ogni globulo rosso, finché non li avrà risucchiati tutti, una alla volta, corrodendomi per abbandonandomi, poi, con addosso un viluppo di eccitazione e terrore.

Ne distinsi la presenza ancor prima che si avvicinasse; nonostante avessi la bocca impiastrata da quel sapore dolciastro di uvetta e canditi che mi imbottiva le narici di un odore stucchevole e mieloso, riconobbi ugualmente l'inconfondibile olezzo di sigaretta, di quella sua.


Ricordo di aver avvertito la forza, necessaria a sostenermi, inghiottirsi in un vortice nero, obbligandomi ad appoggiarmi a quel tavolo adornato da mille decorazioni che faceva bella mostra di un buffet dalle più variegate prelibatezze, avevo stretto le dita tremule, come le foglie in autunno sugli alberi, attorno alla consistenza morbida e appiccicosa di una fetta di panettone che, lentamente, si sgretolava in mille briciole sopra la tovaglia, in bocca un intoppo nauseante, schifoso e zuccheroso che non voleva saperne di smuoversi mentre la vista appannata mi impediva di distinguere i colori appariscenti delle palle appese a quell'albero di Natale che avevo di fronte.


Ricordo di aver sentito l'impercettibile tremolio del tavolo sotto il peso del suo corpo, nella testa ho ancora ben impressa la straziante flemma con cui mi voltai a guardarlo, atterrita dall'agghiacciante possibilità che a un mio movimento più aspro e brusco potesse svanire; ricordo la sorpresa di averlo trovato più vicino di quanto mi fossi aspettata e la sensazione di essere sospesa tra realtà e sogno, in bilico, sul filo del rasoio in attesa che lui mi afferrasse le mani per poi buttarsi giù, con me, per vedere se lì sotto è bello così come dicono; ricordo la sua maglietta rossa e il mio vestito rosso unirci in un'unica macchia di vita, rimembro le sue braccia nude e conserte, la sagoma delle scapole e delle spalle, il movimento del pomo d'Adamo, la mascella spigolosa e indurita, le labbra in una riga dritta, lo scompiglio dei suoi capelli e l'impenetrabilità del suo sguardo; ricordo la linea e le tracce della sua cicatrice, il formicolio diffuso delle mie mani e il bruciore agli occhi le cui palpebre mi ostinavo a non abbassare.


Quella volta ci provai davvero a fare ciò che tanto Orazio andava dicendo in giro, tentai di cogliere quel silente momento sospeso in un tempo che non esisteva e che sarebbe stato solo nostro, giusto per noi che non sapevamo come stargli dietro, per noi, che lo aspettavamo e che non capivamo che ce ne sarebbe voluta un'altra, di vita, per averlo di nuovo.

Tuttavia ci misi tanto, troppo tempo. Sorrisi troppo tardi addolcendo lo sguardo e mossi le labbra per parlare quando ormai tutto aveva ripreso a scorrere veloce e il rumore di un tac-tic rimbombava già nel cranio rintronandolo.


Tac-tic, tac-tic, tac-tic: questa è stata fin da allora la sola ballata del nostro tempo, una cacofonia di un momento sbagliato.


Ricordo lo sbigottimento, il fallimento, il fastidio, l'irritazione e la preoccupazione, ricordo lo sguardo fisso su di lui, le mie iridi lucide e il contorcersi della sua cicatrice, ricordo l'odore di sigaretta, di quella sua, svanire, sostituito da una banale fragranza alla menta, ricordo due braccia troppo coperte e leggere avvolgermi, due mani troppo delicate e troppo poco ruvide e imperfette stringermi, ricordo i capelli solleticarmi il viso spinti dal respiro di un sussurro dai contorni indefiniti, ricordo il mio fiato e le mie parole sospesi, a mezz'aria, su per la gola, incastrati lì, tra le corde vocali, dove ancora indugiano nella speranza di prendere voce e forma, seppure stridente e scontata.


-Ciao Leonardo. Sono Bianca, la sorella di Italo-



E' l'eterna ripresa di una scena sospesa.


Mi sembra di essere di nuovo lì, davanti a quell'albero di Natale di cui non riesco a rimembrare il colore delle decorazioni, appoggiata a quel tavolo su cui ormai ristagnano i granelli putrefatti di uvetta e canditi, le mani sono ancora stomachevolmente appiccicose e la bocca è ancora imbevuta dello stesso sapore stucchevole. Da quella sera, non sono più stata in grado neanche di sentirne l'odore, del panettone, senza che mi nauseasse.

Mi pare di aver camminato all'indietro fino ad arrivare a cinque anni fa o, ancor peggio, di non essermi mai mossa, di aver indugiato accanto a lui in una straziante e innaturale condizione di tacita immobilità, non un movimento e non una parola; nessun lieve tocco di mani che si cercano e polpastrelli che si saggiano mentre le bocche sono impegnate ad articolare quelle frasi bloccate, mai dette, imprigionate, le cui grida, oramai, spremono furenti le corde vocali per risalire rapide la gola e librarsi nell'aria, oppure, magari, mentre sono semplicemente impegnate a fare altro, irrazionalmente e piacevolmente giusto, consce che, nella maggior parte dei casi, sono i gesti a saper parlare più di mille parole. Niente di niente, solo io e lui fermi, in attesa che la cantilena delle lancette se la fili di nuovo per lasciare spazio a un nuovo tempo, quello giusto per noi.


Mi appare tutto esattamente come ad allora: il luogo è lo stesso, la gente è sempre quella, come pure l'occasione. Ci sono ancora gli alberi e le siepi del cortile di ingresso infagottati di luci, Babbo Natale è lì, elegante nel suo smoking nero ti invita gentilmente ad entrare, c'è Ernesto, il cane della vicina, che zampetta per la sala alla ricerca di un'anima pia che dispensi un po' di coccole o magari qualcosa di più sostanzioso come un avanzo di carne, nell'aria il chiacchiericcio generale si confonde con le note delle solite canzoni natalizie ordinate in un sequenza che è sempre la stessa; c'è ancora mio padre che gira e rigira attorno al tavolo del buffet, in mano due piattini di plastica trasbordanti di dolci leccornie e sul volto un sorriso sornione e soddisfatto, mentre, dall'altra parte della sala, mia madre lo fulmina con lo sguardo pensando a quando gli farà consumare tutte quelle calorie costringendolo a sgobbare per casa; c'è ancora Italo che, giocoso e divertito, rincorre quel monello di Nico, il fratello di Martina, mentre quest'ultima è dispersa chissà dove con un damerino qualsiasi nella speranza che prima o poi Ito possa accorgersi della donna che è diventata, c'è ancora lui, ci sono ancora io, ci siamo ancora noi.


E me la sento addosso, di nuovo, sul collo, proprio appena sotto l'attaccatura dei capelli, l'etichetta di quel vestito rosso, sfrega e graffia la pelle irritandola, come pure quello stesso cerchietto nero, con una rosa rossa di lato, punge, indisponente e molesto, la cute e come quelle scarpe, rubate dall'armadio di mia madre, feriscono ancora ad ogni mio passo in avanti e ho il terrore di svegliarmi, domani, e di trovare, esattamente come ad allora, i medesimi segni imporporati e infiammati dietro al collo, di percepire la testa bruciare e scoppiare, di vedere il formarsi di due vesciche, gonfie e arrossate, ho il timore che possano fare più male, che possano ledere con più caparbietà e sicurezza marchiando senza pietà sulla mia pelle la cacofonia di un momento sbagliato; ho paura, almeno finché non è il tac-tic del nostro tempo a concederci un'altra chance: l'ossigeno intriso dell'aroma di sigaretta, di quella sua, scende voglioso nei polmoni, l'adrenalina scorre nelle vene impadronendosi del mio stesso sangue e in me, si infonde la delizia di una speranza nota, quella che non esista istante migliore di questo.


Credo che ogni singola, microscopica particella delle mie membra, ogni mio organo scalpitante, ogni mia fibra muscolare indolenzita, credo che la mia pelle, con loro, lo abbia cercato e mai trovato, che non ce lo abbia mai avuto addosso e penso che in realtà l'aspettasse esitante da sempre, il sapore di un calore così.

Di quello suo.

E' come sentire di essere a casa, qualunque essa sia, sentire di essere al tuo posto, quello giusto solo per te, lo vedrai accoglierti e afferrarti dopo un lungo viaggio, riscaldarti con un abbraccio quando ne avrai bisogno, guarirti e curarti con movimenti precisi e attenti delle mani, alleggerirti dai pesi di quei souvenir amari e sanguinolenti che ti porterai appresso, inevitabili doni del cammino disgraziato di una vita, amarti con le labbra e con il corpo quando sarà dalla solitudine che vorrai fuggire; è percepire lo scoppiettio rassicurante di un fuoco acceso intiepidirti mentre fuori nevica, è aver finalmente tra le dita ciò di cui hai avuto soltanto un piccolo e misero assaggio, tanto tempo fa, troppo tempo fa, in una piovosa sera d'estate in cui tuo fratello era un po' troppo alticcio e sul comodino avevi lasciato abbandonati Lizzy e il suo Mister Darcy mentre tu eri alla ricerca del tuo.


E' sentire la tua pelle formicolare e rabbrividire sotto il peso della sua, è avvertire l'aggrovigliarsi, l'avvilupparsi, il confondersi delle tue cellule con le sue in un miscuglio perfetto nella sua imperfezione, è la cadenza ritmata di due cuori che battono all'unisono.


Sono semplicemente le sue dita fredde strette attorno al mio polso. E' solo lui, sono solo io, siamo solo noi.


-Che sei venuta a fare qui?-

-Oh, ti sei improvvisamente ricordato chi sono-

-No, improvvisamente mi sono ricordato perché mi stai sul cazzo-

E' maledettamente difficile lasciarlo da parte quel calore, dimenticarlo e rilegarlo in un anfratto sicuro della tua memoria per rimuoverlo da lì e riprendertelo quando la vita ti ricorderà che sei sola e che non hai un corpo a cui stringerti, è faticoso riconquistare il respiro, permettere ai muscoli di contrarsi nuovamente, tentare di mantenere la calma mentre il cuore palpita scalmanato nel petto, alzare gli occhi da lì, da quella mano che si allaccia alla tua, e tornare alla realtà crivellando quella bolla d'illusoria speranza in cui ti eri inutilmente rifugiata.

E' doloroso avvertire l'adrenalina mollarti, interrompere la sua corsa nelle tue vene e svanire velocemente così com'era arrivata rimembrandoti che sciocca sognatrice sei stata soltanto per aver avuto fiducia fin dal momento in cui hai distinto il primo suo polpastrello sulla tua carne, per aver aspettato qualcosa di diverso da una scena già vista, da un deja-vu squallido e aspro, per aver sperato che, ora che era stato lui a cercarti, a volerti, a toccarti per primo, potesse donarti altre parole oltre agli insulti, magari un saluto o forse un sorriso, anche se fosse stato incerto, tirato e impacciato, sarebbe bastato ugualmente.

Che sciocca che sei: lui non sorride.

-Ah già, dimenticavo che non ti vado molto a genio- sospiri sarcastica voltandoti nella sua direzione e lo guardi, fissi quelle iridi tristi, annebbiate, ghiacciate, finché non è lui a volgersi altrove, i suoi occhi mirano e si alternano tra punti indefiniti della sala e ti sembra, di nuovo, che ti sfugga, che tutto appaia più triste, annebbiato e ghiacciato del solito.


-Che sei venuta a fare qui?- ribadisce con arroganza, come se non ricordasse che giorno sia oggi, come se non sapesse che la signora Marisa Viscardi, tua madre, trascina a forza sia te che Italo a questa stupida festa. Finge. Ancora. Ma non ti guarda.


-Mi piace il panettone- menti anche tu ora, come la più stupida delle bambinette che si diverte soddisfatta in un gioco di ripicche, tuttavia vuoi che, in qualche maligno e assurdo modo, lui sia con te, che le senta quelle briciole tra le sue dita, che si disgusti, che la sua pelle sia attaccaticcia come la tua, che si nausei come fai tu, che ricordi.


-Non ti è mai piaciuta questa festa- lo dice di botto, quasi senza farti finire di parlare, torna a osservarti un istante per poi filarsela nuovamente.

Non puoi impedire il magone che sale allo stomaco e la stretta che ti afferra la gola, perché mille sono i significati che sottintendono questa frase e, forse, alcuni sono quelli che vorresti sentirti dire, che stavi aspettando da una vita, che sono giusti per te, magari anche lui ti guarda, ti osserva e ti vede con i tuoi stessi occhi, magari conosce di te più di quanto tu possa immaginare o più probabilmente è la tua faccia ad essere così espressiva da rendere palese il tuo stato d'animo. Forse si o forse no. Forse. Nell'incertezza rilassi il viso e addolcisci i lineamenti.


-Ma il panettone si-

-Perché sei qui?-

-Non lo immagini? Sono qui per te- non sei titubante quando lo dici, le tue parole si articolano con facilità, scivolano con naturalezza sulla tua lingua, sulle tue labbra, decise e concitate, ebbre di un'impazienza violenta e di una determinazione sconcertante, come una fiumana impetuosa, precipitosa e avvolgente; non sei trepidante e nervosa, non hai paura di questo, di ciò che lui sa già e che fatica ad ammettere, non ti vergogni, non ti imbarazzi perché è inutile e così tanto stancante nascondersi che sei esausta, non eludi il suo sguardo, non ti allontani perché questa è la tua occasione, la nostra occasione, e non vuoi mancarla, nonostante tu sia ben consapevole che lui, alla fine, si tirerà indietro, che non lo scavalcherà, quel muro, che rimarrà lì a fissarti credendoti pazza, che non si sbloccherà e che, probabilmente, innalzerà un'altra fila di mattoni attorno a sé. Non hai paura, perché avresti dovuto parlargli prima, perché lo desideri e speri che, prima o poi, un'apertura per entrare, anche solo per stare al di là con lui, tu riesca a farla su quella parete che sembra così ardua da scalare, non hai paura perché la vedi e la senti, la sua mano che è scesa inconsciamente a stringere la tua. Non si muove da lì.

-Devi smetterla-

-Di fare cosa esattamente?-

-Lo sai-

-Lo farò quando avrai il coraggio di dirmelo guardandomi in faccia-

-Smettila- ti guarda, finalmente. Ma non ti vede.

Lo vedi tu, però. Forse ha ragione e dovresti finirla, forse sei solo la più infantile e scipita delle bambinette che si rifiuta di mollare il ciuccio, magari dovresti crescere un po' e trovarlo altrove, l'amore, forse sei solo una pazza, una squinternata, una squilibrata, una che per campare si deve nutrire di insensate fisse da babbea, magari non è come pensi, forse non lo conosci affatto, forse non hai capito un cazzo. Forse. Tuttavia, tu comunque lo vedi e lo senti.


Le sue dita ora ti stringono con più forza.


-Vorrei proprio capire quale sia il tuo problema-

-Sei tu, il mio problema. Voglio che te ne vada-

-Potrebbe succedere davvero, potresti pentirtene-

-Sono sicuro che non mi pentirò-

-Si certo, vorrei solo sapere il perché tu abbia così tanta paura di essere guardato da me-

-Non ne ho-

-Il perché tu abbia paura delle mie parole, di quello che potrei dirti-

-Ti ho detto che non ho paura-


-Sei bello, Leonardo- affermi con disinvoltura, senza desistere dal guardarlo -Lo saresti, anche se fossi la persona peggiore al mondo. Sei bello, per me-

Soltanto quando avverti le tue iridi offuscate bruciare per esserti sforzata a mantenere le palpebre aperte con l'intento di evitare di perderti ogni minima reazione del suo corpo, ogni più sottile tendine teso e irrigidito, ogni più piccolo movimento della sua mandibola, delle sue labbra, della sua cicatrice, solo quando ne hai contati a sufficienza, di battiti delle sue ciglia, soltanto ora che lui ti guarda, e forse ti vede, ti concedi di abbassare lo sguardo, di torturare un labbro con i denti, di far rimbombare i battiti del tuo cuore nel cervello, di percepire lo stomaco contrarsi, l'esofago incendiarsi e la pelle sudare, solo ora permetti al tuo corpo di accorgersi di quanto sia ridotta la distanza che vi separa, soltanto ora lasci che il tuo respiro acceleri e che le tue narici si ubriachino, si inebrino dell'olezzo di sigaretta, di quella sua, fuso all'aroma di canditi e uvetta in un'unione assuefacente.


Solo ora concedi ai tuoi occhi di spostarsi sulle vostre mani, sull'incastro assurdamente perfetto di quelle due dita, le vostre, le nostre, dita. L'indice e il medio.

Vorresti trovare il coraggio di muoverti, di sbloccarti, di piantare ancora le pupille su di lui, di farti più vicina, di stringere con più forza quel dito con il tuo, di accoglierlo, di avvolgerlo, di custodirlo, di amarlo, di fargli assaporare il tuo calore, vorresti vederlo perché non sei certa che abbia compreso, non sei sicura che possa aver afferrato il significato che hai celato dietro alla banalità e alla mediocrità di un'insipida parola.

Vorresti, vuoi e lo fai, ti smuovi, ti animi ma quando è troppo tardi, quando, come quella sera, il tac-tic del vostro, nostro tempo, era già in agguato per colpirti alle spalle con i suoi rintocchi cacofonici, lo fai quando ormai ci sono due braccia sconosciute e anonime a circondare il suo corpo, quando è la voce stridula di una qualsiasi a riempire l'aria, quando lui già non ti vede più, quando oramai lui ha deciso di rompere il vostro, nostro, intreccio, il sottile filamento di due vite cacofoniche.


L'essenziale è provare a fare in modo di avere sempre qualcosa in cui credi
da inseguire
per non restare a piedi.
L'essenziale è riuscire a dare forma anche a quello che ti sembra assurdo
e se pensi al futuro
non tutto è perduto.




Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c'è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo.




Just one second, please...

Salve, salvino belle donne! Rieccomi con un capitolo che mi sembra più delirante del solito, ma capitemi, è tra lo studio, lo studio e ancora lo studio (chi già fa l'università ed sotto il periodo degli esami può capirmi) mi sono rimbecillita del tutto. Non è che prima fossi sana, e forse l'avrete anche dedotto dai commenti che lascio ogni volta, ma tant'è! Che vuoi farci, mia madre e mio padre ci hanno messo tutto il loro impegno per tirarmi su come si deve, ma non è servito a nulla. Sono stata forse adottata?

Ma soprattutto, perché mi perdo in queste fesserie ogni volta?

Bando alle ciance e ciance alle bande, da questo capitolo diciamo che si inizia a delineare un po' di più il personaggio di Leo e forse potrete iniziare ad immaginare i motivi che lo spingono ad essere così com'è, a non sopportare Bianca poi così tanto. Ci sono anche i primi passi tra i due e da qui in avanti ovviamente sarà un crescendo, hanno bisogno di imparare a conoscersi per davvero.

Probabilmente il prossimo capitolo si farà attendere un pochino più del solito perché ho poco tempo per scrivere, perché è importante e quindi lo voglio fare bene.

Non smetterò di ringraziare coloro che recensiscono ( soprattutto quella bricconcella di Lis, che mi fa le sorprese e che mi fa ridere come una scema per tutto il giorno... Lis, vero, che questo delirio di commento è anche colpa tua?!) , che hanno inserita la storia tra le preferite, seguite e ricordate e quelle che mi dedicano tempo anche solo leggendo.

Un bacio donzelle,

Fal

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Falling_for_you