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Autore: La neve di aprile    04/08/2007    6 recensioni
~Aveva sempre creduto che non si potesse uccidere qualcuno solo parlandogli. Aveva riso quando, una sera, Slash gli aveva detto di sentirsi morire ogni volta che Perla si arrabbiava con lui. Come è possibile, gli aveva detto, che tu ti senta morire? Non ti ha mica pugnalato, ti ha solo parlato in fondo. Affondò il viso tra le mani, accucciandosi sul pavimento. Tutto d’un tratto gli mancava l’aria, ogni respiro gli sembrava andasse a vuoto, o portasse con se qualcosa di altamente infiammabile che esplodeva puntualmente nei suoi polmoni. Si sentiva come se stesse affogando, come se una mano invisibile lo stesse trascinando in un baratro di cui non vedeva la fine.
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Prima di lasciarvi alla storia, ci tengo a precisare un paio di cosine:
1] Steven Adler e Duff McKagan non sono di mia proprietà, così come non lo sono i Guns N' Roses e Mandy
2] Non è mia intenzione offendere nessuno: io amo i Guns, amo i Gunners originali e continuerò ad amarli spassionatamente fin tanto che avrò fiato in corpo.
3] Non scrivo a scopo di lucro. Sarebbe troppo bello se così fosse.

 

A Liz.
Che nonostante non ami i Guns

me l'ha gentilmente betata nel migliore dei modi.
Con tanto di adorabili commentini <3

 

 

 

Bury me (deep inside your heart)

 

 

 

Some say love it is a river that drowns the tender reed.
Some say love it is a razor that leaves your soul to bleed.
Some say love it is a hunger an endless aching need.
I say love it is a flower and you it's only seed.

 

 

 

Le sei del mattino.
Lei sei del mattino e nevicava, su New York. Grossi fiocchi di neve che cadevano leggeri da un cielo grigio, color ferro, duro e crudele come un pugno in pieno stomaco.

Steven chiuse gli occhi, la fronte posata contro il vetro della finestra, appannato dai suoi respiri. Sotto di lui, la strada si snodava lunga tra i grattacieli della city, simile a un enorme, sinuoso serpente d’asfalto, perdendosi in un orizzonte incredibilmente vicino a causa della neve che precipitava ormai da qualche ora e iniziava ad imbiancare le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi. Alle sue spalle, Duff si agitò nella penombra, avanzando d’un passo.

- Stevie, va... va tutto bene?- chiese il bassista, la voce ridotta ad un sussurro impercettibile.
Il batterista deglutì, irrigidendosi. L’impulso di voltarsi e aggredirlo, di riversargli addosso tutta la rabbia che improvvisamente gli montava dentro, ruggendo e ribollendo come un mare in tempesta, si fece incontrollabile, e per un attimo, un attimo soltanto, desiderò potersi abbandonare a quella corrente insidiosa e turbolenta. Ma non poteva. E, sopra ogni altra cosa, non voleva. Si voltò, stampandosi sulla faccia uno dei suoi soliti buffi sorrisi.

- Certo che sto bene, Duff!- esclamò, invocando silenziosamente l’aiuto di tutte le divinità e i santi che gli venivano in mente affinché la voce rimanesse salda – Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa che non va?-

Si morse la lingua, subito dopo aver pronunciato le ultime parole. Se le avesse urlate, probabilmente sarebbero state meno aggressive. Vide Duff arretrare impercettibilmente e finse di non sentire il suo cuore gridargli di alzarsi e fermarlo, tenerlo lì, stringerlo tra le sue braccia e non farlo andare via.

- Beh, non parli da un bel po’, pensavo che...- il bassista s’interruppe, chiudendo gli occhi e passandosi una mano tra i capelli, mentre un sospiro abbandonava le sue labbra socchiuse. Quelle stesse labbra che nemmeno un’ora prima aveva baciato e che lo avevano baciato. Si alzò in piedi, affondando le mani nelle tasche dei jeans che aveva raccattato dal pavimento, in un groviglio di vestiti tanto suoi, quanto del ragazzo biondo che continuava a fissarlo in silenzio, senza sapere se proseguire o se fermarsi lì. Un sorriso gli tese la bocca in una sorta di smorfia stanca, mentre scrollava le spalle.

- Scusa, colpa mia - mormorò il batterista, scrutando nella penombra per trovare gli occhi castani dell’altro – Sono talmente stanco che... - agitò una mano in aria, con noncuranza, e sorrise con più convinzione – Ma sono felice per te. E per Mandy. Davvero! Sono veramente felice per voi! - esclamò, allargando le braccia e avanzando d’un passo, bloccandosi non appena si rese conto di voler

E dopo averlo abbracciato, sarebbe riuscito a fermarsi lì? Probabilmente no. Lasciò ricadere le braccia, abbassando lo sguardo.

- Grazie, Stevie - disse Duff dopo una manciata di secondi che parvero ad entrambi eterni, rilassandosi in un sorriso – E’ importante per me che tu... - s’interruppe, guardando la fiamma di un accendino illuminare i lineamenti morbidi del ragazzo davanti a lui.
Il capo appena inclinato, gli occhi socchiusi. Trattenne il respiro, lasciando cadere il discorso.

- E’ tutto okay, davvero - lo rassicurò nuovamente il batterista, soffiando fuori una sottile nuvola di fumo e ostentando una tranquillità che non era sua – Quello di cui abbiamo veramente bisogno è una bella dormita! Da domani saremo impegnati da far schifo e tu avrai anche un matrimonio da organizzare. -

- Sì, hai ragione - Duff sorrise, giocando distrattamente con il polsino della camicia che indossava – Allora io... io vado - raggiunse la porta e, con la mano sulla maniglia, si fermò, come per aggiungere altro.
Steven era ancora fermo, al centro della stanza, la luce fredda del mattino lo avvolgeva in un alone biancastro, la sigaretta abbandonata tra le labbra, i capelli sciolti sulle spalle nude.

- Buona notte, Duff. -

Era un chiaro invito a lasciarlo solo.
Elegante, discreto, ma pur sempre una richiesta che doveva rispettare. In fondo, glielo doveva. Gli doveva molto di più, a dire il vero, ma non c’era molto che potesse fare in quel momento. Solo lascialo solo.

- Buona notte, Steven. - rispose gentilmente, uscendo dalla camera e chiudendosi la porta alle spalle.

Steven guardò la porta chiudersi come se non si trovasse nel suo corpo ma fosse uno spettatore esterno. Poteva sentire la propria fronte aggrottarsi, poteva sentire gli occhi pizzicare, poteva sentirli bruciare e riempirsi di lacrime, ma era come se non fosse lì. Quando era stata l’ultima volta che aveva pianto? Non lo ricordava nemmeno. La sigaretta si consumò fino al filtro senza che lui tirasse una sola volta, la cenere cadde ai suoi piedi in mucchietti scomposti e non se ne accorse.

Ho chiesto a Mandy di sposarmi. E lei ha accettato.

Aveva sempre creduto che non si potesse uccidere qualcuno solo parlandogli. Aveva riso quando, una sera, Slash gli aveva detto di sentirsi morire ogni volta che Perla si arrabbiava con lui. Come è possibile, gli aveva detto, che tu ti senta morire? Non ti ha mica pugnalato, ti ha solo parlato in fondo. Affondò il viso tra le mani, accucciandosi sul pavimento.
Tutto d’un tratto gli mancava l’aria, ogni respiro gli sembrava andasse a vuoto, o portasse con se qualcosa di altamente infiammabile che esplodeva puntualmente nei suoi polmoni. Si sentiva come se stesse affogando, come se una mano invisibile lo stesse trascinando in un baratro di cui non vedeva la fine.

Ho chiesto a Mandy di sposarmi. E lei ha accettato.

Lo aveva detto con un sorriso orgoglioso dipinto sul viso, gli occhi luminosi come stelle, quando ancora erano abbracciati, sotto le coperte. Teneva la testa appoggiata contro il suo petto, lo sentiva alzarsi e abbassarsi ad ogni respiro e si stava quasi addormendo, cullato dal quel dolce movimento continuo. Una doccia fredda sarebbe stata meno traumatica, una stilettata in pieno petto meno dolorosa.

Cosa gli stava succedendo?
Perché aveva persino paura di aprire gli occhi?
Cosa non voleva vedere?
La stanza, forse?
E cosa c’era nella stanza di tanto terribile da non poter esser visto?

Si accasciò a terra, premendo con forza le mani sul volto, fino a quando delle chiazze bianche iniziarono a volteggiare nel nero che lo attorniava. Solo allora le allontanò, affondandole nella moquette chiara e spingendo i palmi con forza contro il pavimento, il viso contratto in una smorfia e gli occhi ostinatamente serrati. Il cuore gli pulsava violentemente nelle orecchie, tanto che se non fosse stato distratto da quella fitta di pure dolore che non lo lasciava respirare avrebbe seriamente pensato stesse per scoppiare.

Ho chiesto a Mandy di sposarmi. E lei ha accettato.

Cadde di schiena a terra, un braccio sopra il viso. Il petto si alzava e si abbassava veloce, troppo veloce, ogni respiro era un rantolo che non portava aria con sé, solo una scia di dolore che non accennava ad esaurirsi. Rotolò su un fianco, mentre un singhiozzo gli saliva alla gola e lottava per esplodere in un lungo pianto, forse liberatorio, forse no. Si sentiva male al punto che avrebbe voluto gridare. Ma se avesse gridato l’avrebbero sentito. E questo avrebbe provocato domande che non era in grado di affrontare, il rivelare di verità troppo scomode, avrebbe provocato confronti che non avrebbe vinto, comportava... Duff. Implicazioni che non aveva mai pensato sorgessero quando tutto era iniziato, quando sembrava solo un gioco.

- ...fanculo - bisbigliò, forse rivolto al buio, forse alla neve, forse ai suoi sentimenti, forse a Duff, forse a se stesso – Vaffanculo, vaffanculo, VAFFANCULO! - esplose alla fine, in preda ad una disperazione che non aveva mai assaggiato prima di quel momento, dal sapore amaro al punto da fargli desiderare di poterlo vomitare fuori assieme al suo cuore. Tutto, pur di liberarsene.

Una lacrima gli scivolò lungo la guancia, schiantandosi sul pavimento, mentre fuori la neve continuava a cadere, sospinta di tanto in tanto in un vorticoso girotondo da qualche sferzata di vento.

  

*

 

Due giorni.
Due fottutissimi giorni.
Duff si appoggiò contro quell’unica parete che lo separava da Steven, chiudendo gli occhi. Era stanco, era nervoso. Mandy sembrava essere completamente incapace di parlare normalmente con lui se non strillando e saltellando da una parte all’altra, come un piccolo fastidioso grillo, e Axl, in preda ad uno dei suoi soliti deliri di onnipotenza aveva deciso che, anche se non erano tutti presente dovevano comunque e in ogni caso continuare a provare, indipendentemente dal fatto che Izzy fosse tornato a Los Angeles assieme alla sua ragazza per riprendere fiato e Slash fosse perennemente fatto al punto da non capire nemmeno da che parte prendere in mano una chitarra. E, come aveva ben presto scoperto, cantare con l’accompagnamento di un basso non era una cosa chissà quanto facile. Steven, invece, non si faceva vedere da due giorni, sostenendo di non stare tanto bene e di non voler attaccare niente a nessuno.

Balle.

Era stata la prima cosa che aveva pensato quando un offesissimo Slash gli aveva detto di esser stato cacciato dopo essersi offerto di preparargli un brodino di pollo e fargli compagnia. Steven non era tipo da lasciarsi fermare da un’inluenza o un raffreddore, lo aveva visto fare le cose più assurde con ben più di qualche linea di febbre. Tipo rotolarsi nella neve o buttarsi in un lago in piena notte, sempre con il sorriso stampato sul volto e la sconsideratezza di chi ha paura di diventare grande.

Tentò di accendersi una sigaretta, lottando contro l’accendino che non voleva saperne di far scattare quella scintilla che avrebbe poi liberato la fiamma. Click-click-click-click-click. Il bassista inspirò a fondo, cercando di restare calmo. Ma a che scopo? si chiese immobilizzandosi con un braccio a mezz’aria. Stava andando tutto una merda, poco da fare. Le prove, Axl, Mandy. Steven.

Perché andava tutto così male?
Perché stava tutto crollando come un castello di carte in mezzo ad un tifone?
Da dove spuntava, poi, quel tifone?

Un attimo prima tutto sembrava perfetto, ogni pezzo combaciava alla perfezione, tutto scorreva liscio, senza problemi. E ora ogni cosa era impazzita, non c’era nulla che andasse per il verso giusto, nulla a cui aggrapparsi in quel delirante naufragare nel mare del caos. A che scopo trattenere la rabbia? A che scopo togliere corda alla frustazione? Non aveva nulla da perdere, al fondo non poteva mancare poi molto.

Lanciò via l’accendino, scagliandolo contro un malcapitato tavolino che lo fece rimbalzare via, come una scheggia impazzito.

- Maledizione - ringhiò scivolando giù lungo la parete, affondando le mani tra i capelli – Maledizione, Steven! Maledizione a te! - non si rese nemmeno conto di essersi messo ad urlare – Dannazione! DANNAZIONE! - si alzò in piedi e colpì il muro con un calcio rabbioso, prima di sbatterci contro le mani chiuse a pugno. – Dannazione, razza di idiota! Dannazione a te, Steven! Lo so che mi senti, codardo, mi senti perfettamente! Esci di lì, maledizione, esci da quella fottutissima stanza! Fatti vedere, brutto stronzo, smettila di dartela a gambe dai problemi! -

S’interruppe un attimo, ascoltando solo un flebile e ovattato silenzio, aspettando un gesto, un suono, un pigolio, un singhiozzo, un insulto. Qualsiasi cosa. Con un ruggito che non aveva nulla di umano, colpì di nuovo la parete con i pugni, urlando a quel silenzio che minacciava di soffocarlo.

- SMETTILA DI SCAPPARE DA ME! -

Steven premette con forza le mani sulle orecchie, per non sentire le urla di Duff. 
Per quanto ci provasse, non riusciva ancora ad ascoltare la sua voce senza che un oceano di emozioni gli si agitasse in petto e lo lasciasse inerme, senza fiato e difese, di fronte all’enormità del problema. Si rannicchiò sul letto ormai sfatto da giorni, tirando il piumone fin sopra la testa e stringendo i denti per ignorare quell’istinto che lo avrebbe portato ad alzarsi, attraversare la stanza, aprire la porta e andare da lui. Non che non lo volesse, anzi. Avrebbe pagato pur di poter annullare ogni distanza tra se stesso e il bassista che continuava ad urlare e a tempestare il muro di colpi, ma semplicemente non poteva.

Il cuscino era ancora impregnato del suo profumo, lo aspirava con avide boccate affondando il volto nella federa bianca. Come se quel tenue odore potesse in un qualche modo rappresentare un legame tangibile tra loro due, qualcosa che andasse oltre il puro e semplice sesso. Ma non era stato solo semplice sesso. Non per Steven. Forse all’inizio, le prime volte. Ma ora non più. Ora no.

Chiuse gli occhi con più forza, sobbalzando ad un ennesimo urlo. Ogni parola, ogni sfumatura di quella voce, ogni colpo lo tramortivano, gli strappavano via un pezzo d’anima, cancellavano ogni minima difesa e facevano a brandelli i miseri muri che aveva eretto in fretta furia per non restare troppo ferito. Encomiabile quanto inutile sforzo. Era troppo tardi.

- Smettila... - gemette, la voce rotta da un pianto che tratteneva da quarantotto ore – Smettila, ti prego... basta Duff... basta... -

Non era innamorato.
Quello che provava per Duff andava ben oltre l’innamoramento, non si limitava ad essere quell’egoistico sentimento che si prova quando si è giovani e si vive l’ebrezza di qualcosa di nuovo, di fresco, di vero. Non lo voleva tutto per sé, non lo aveva mai voluto. Non sognava di passare ogni singolo istante della sua vita presente e futura al suo fianco, l’ultima cosa che desiderava era monopolizzarlo. Voleva solo il meglio per lui, voleva solo che fosse felice. Ad ogni costo, a qualsiasi prezzo. Voleva sapere che ogni qualvolta avesse aperto gli occhi la mattina, lo avrebbe fatto con un sorriso sul viso. Voleva che ogni singolo poro della sua pelle trasudasse gioia. Non importava con chi, non importava dove, non importava come.

Lo amava.

Lo amava con tutto se stesso, lo amava per come sbadigliava la mattina, lo amava per come rideva di una stupida battuta, per come si allungava pigramente sul letto per accendersi una sigaretta, per come si scompigliava i capelli, per il modo in cui toccava le corde del basso, con una delicatezza che rasentava quella che un uomo usa nei confronti di una donna. Amava il suono della sua voce, lo amava quando lo chiamava Stevie, lo amava quando si irritava, lo amava per come si irritava.

Lo amava e lo avrebbe amato per il semplice fatto che era Duff, una delle persone più straordinarie che avesse mai conosciuto.

Soffocò un singhiozzo, poggiando la schiena sulla parete contro cui era posato il letto, come se questo potesse portarlo, in un qualche modo, ad essere più vicino al bassista. Di più, non poteva fare. Un confronto avrebbe segnato la fine di tutto, non aveva dubbi a riguardo. Dell’amicizia, del rispetto, di qualsiasi tipo di rapporto ci fosse tra loro. E non voleva. Avrebbe preferito morire piuttosto che perdere ogni cosa. Meglio vivere nell’illusione di una pallida speranza che nella desolazione di una triste verità.

Per quanto potesse amarlo, per quanto potesse sognare che fosse felice, non aveva forse diritto anche lui ad un po’ di felicità? Era fermamente convinto che ad ogni uomo spettasse una fetta di felicità da consumare nel corso della vita. Che poi qualcuno la bruciasse tutta in un colpo solo o che ci fossero persone incapaci di coglierne il gusto zuccherino era un’altra storia: la fetta stava sempre lì, sempre disponibile, sempre in attesa. La sua felicità consisteva nel mantenere un’ombra di rapporto con Duff. Qualcosa che li legasse, qualcosa di esclusivamente suo e di nessun altro, qualcosa che lo rubasse a Mandy, anche solo per cinque minuti.

Avevano la musica, vero.
Avevano i Guns, ma li avevano anche Axl, Izzy e Slash.
Avevano la droga.

Ma chi mai poteva essere tanto idiota da esserne orgoglioso?
La droga li rendeva simili a bestie, in completa balia dei loro bisogni, di una fame di chimica velenosa che non si estingueva mai e li spingeva a lottare anche solo per mezza dose.

Avevano...

Steven si mise seduto, folgorato dalla consapevolezza che non avevano proprio niente.
Non c’era niente che li tenesse assieme.
Non un hobby, non una passione.
Nulla che li avvicinasse, a parte il sesso. Storse la bocca in una piega amara, mentre Duff colpiva di nuovo la parete con un pugno poco convinto.
Chissà se domani avrebbe avuto qualche livido, a forza di colpi.

Il sesso.

Quando era iniziata, non avrebbe scommesso neanche un penny sul fatto che un giorno si sarebbe trovato chiuso in una suite del Ritz di New York a scappare da tutto e tutti. Era un gioco, era un modo per combattere la noia. Una via di fuga dallo squallore delle tourné e dalla pesante routine che comportava. Un sistema come un altro per cancellare la solitudine, per darsi l’illusione di non essere completamente soli.

La prima volta che erano andati assieme era stato mesi prima. Avevano suonato in una piccola città nello Utah davanti a una folla urlante di ragazzi con le braccia e i visi bruciati dal sole, facce anonime che parlavano di tanta voglia di evadere. Al solito, dopo lo spettacolo si erano fatti da far schifo, mescolando alcol e droghe in terrificanti cocktail che avrebbero fatto impallidire gli abitueè dello Studio 54.

Lui, in particolare, aveva esagerato. Tra pillole, liquori e polverine bianche che continuava a confondere tra loro, era stato male al punto da crollare per terra in mezzo ad un corridoio vuoto, piegato in due dai conati e coperto di sudore gelido. Duff era capitato lì per caso e come lo aveva visto si era fiondato da lui, lo aveva sollevato di peso e se lo era portato in camera. Gli aveva tenuto la testa mentre vomitava, gli aveva accarezzato i capelli biondi e detto che sì, sarebbe andato tutto bene, che non sarebbe successo niente, che non era solo, che c’era lui e tutto si sarebbe sistemato.

Aveva veramente creduto che sarebbe morto, quella notte. Che l’overdose lo avrebbe stroncato a poco più di vent’anni. E invece no: la notte era scivolata via lentamente, portandosi dietro le sue paure e lasciandosi dietro solo i postumi di una terrificante notte brava. Aveva ripreso coscienza di sé solo all’alba, quando il cielo iniziava a schiarirsi ed era di un allucinante bianco sporco, privo di colori. Era raggomitolato contro Duff, quando aveva riaperto gli occhi.

Il bassista gli accarezzava i capelli con aria distratta, guardando la replica di una qualche orribile telenovela spagnola, senza nemmeno l’audio, sullo schermo una ragazza dai capelli neri e il trucco pesante si stava disperando per un amore perduto. Quando si era accorto che si era svegliato, gli aveva sorriso, senza smettere di sfiorargli i capelli, come fosse una cosa del tutto normale. I loro sguardi si erano incrociati per un attimo, mentre il batterista confidava che aveva avuto paura di morire. Duff aveva sorriso, chinandosi su di lui che continuava a tenere il viso posato all’altezza del suo stomaco, e lo aveva baciato. O meglio, aveva sfiorato appena le sue labbra, dolcemente, quasi una timida carezza, prima di sussurrargli che non lo avrebbe mai lasciato morire.

Era iniziato così, in una mattina come tante altre, dopo un festino come tanti altri, in un anonimo albergo nel bel mezzo di una anonima città persa nel nulla. A nessuno dei due era sembrato strano, anzi. Forse si erano pure chiesti perché non lo avessero mai fatto prima d’allora, forse semplicemente non avevano fatto altro che rinchiudere qualsiasi forma di pensieri dentro un cassetto per godere, anche per poco, di quello strano modo di sentirsi amati, protetti. Meno soli.

Steven trattenne la voglia di urlare, mentre di nuovo si sentiva attanagliare da quella orribile sensazione di soffocare e affogare nell’aria, come se si fosse trasformata in acqua. Boccheggiò, travolto dall’enormità dei sentimenti e dalla sua assoluta e totale incapacità di reagire. Cosa sarebbe successo, si chiese, se fosse andato davvero da Duff e gli avesse raccontato tutto? Sarebbe stato allontanato? Sarebbe cambiato qualcosa? Ci sarebbe stato il classico lieto fine da telenovela?

Però anche lasciare che le cose restassero in stallo in quel modo non era una soluzione. Erano pur sempre un gruppo, erano pur sempre agli inizi, e non avrebbe potuto continuare a nascondersi all’infinito in quella stanza d’albergo. La realtà avrebbe finito con l’acchiapparlo di nuovo, alla fine, e non ci sarebbe stato modo di sfuggirle perchè dalla realtà non si può scappare. Poteva provare ad evitarla, per un po’, ma non l’avrebbe mai sconfitta. Avrebbe sputato sangue, avrebbe vomitato l’anima, avrebbe prosciugato ogni singola fibra del suo essere ma sarebbe crollato, presto o tardi. Sarebbe caracollato al suolo e sarebbe rimasto lì, un mucchietto informe di ossa e carne rattoppati alla meno peggio da uno spirito ferito.

No, decisamente doveva fare qualcosa.
Quantomeno, doveva uscire da quella stanza.
Non aveva scelta.

Con un sospiro si mise a sedere, posando i piedi sulla moquette ormai sporca di cenere, birra e chissà cos’altro. Da due giorni respirava la stessa aria, da due giorni nessuno entrava in quel bozzolo scuro dove si era rinchiuso. Non aveva mangiato niente. Aveva bevuto, aveva fumato, aveva usato tutta la droga che aveva trovato, ma non aveva mai respirato l’aria fredda della metropoli imbiancata dalla neve.

La neve era qualcosa che lo rendeva felice, rimandandogli alla mente ricordi sbiaditi di un’infanzia neanche troppo lontana dove tutto era facile e bello, dove non c’erano autobus troppo affollati e troppo mal ridotti per arrivare a destinazione, dove non c’erano menager ingordi di soldi, dove se voleva suonare lo faceva perché ne aveva voglia e non perché stava scritto su un contratto da sette-otto cifre che doveva farlo in una data sera, a una data ora. E non aveva nessuna voglia di sentirsi felice, in quel momento, sebbene ne avesse un gran bisogno.

Indossò un maglione scuro, recuperato da un mucchio di vestiti ammassati in un angolo, dei jeans sdruciti e un paio di stivali neri. Si arruffò i capelli, accendendosi una sigaretta, come se la nicotina potesse dargli la forza di uscire da quella stanza e andare incontro all’uomo che l’aveva spinto a chiudersi lì dentro. Inspirò a fondo, gustando il sapore amaro del fumo riempirgli la bocca e i polmoni. Ascoltò senza dire una parola il soffice rimbombo in testa causato dalla carenza di ossigeno e il leggero stordimento immediatamente successivo. Un altro tiro, fermo immobile davanti alla porta chiusa. Un altro, con la mano sulla maniglia.

Poi, la luce soffusa del corridoio deserto

  

Duff sobbalzò, quando sentì la porta della sua stanza aprirsi.
Si voltò di scatto, con il nome del batterista sulla punta della lingua e un inspiegabile sollievo, subito soffocanto alla vista del viso affilato di Axl. Il cantante lo salutò con un cenno del capo, buttandosi su un divanetto miracolosamente sgombro.

- Hai una cicca? - domandò con voce annoiata, gli occhi verdi luccicanti come gemme.
Il bassista annuì, indicandogli un tavolino coperto da una vera e propria giungla di bottiglie di birra vuote dove, evidentemente, stava sepolto un pacchetto di sigarette.

- Stanno lì, - brontolò, tornando a fissare la neve che continuava a cadere – e fammi il favore di chiudere la porta. -

- Ehi, tranquillo! - protestò svogliatamente il front-man, soffiando le parole in una nuvola di fumo. Allungò le gambe magre davanti a sé, il capo abbandonato contro lo schienale, circondato da un’aureola di capelli rossicci – E poi, mica sono venuto solo. -

- Slash, chiudi quella cazzo di porta per favore. - disse allora il biondino, posando la fronte contro il vetro freddo.

La porta si chiuse dopo qualche attimo, dolcemente, senza esser sbattuta con forza.
Si voltò, sorpreso.

- E da quando chiudi le porte come un normale essere umano? - domandò, prima di mettere a fuoco la figura che stava ferma sulla soglia, le mani dietro la schiena saldamente chiuse sulla maniglia – Ti senti... - la voce gli mancò, mentre gli occhi azzurri di Steven ricambiavano la sua occhiata - ...male? - recuperò prontamente, mentre Axl continuava a fumare la sua sigaretta, incurante della scenetta.

- No, sto bene adesso - esordì il batterista, avventurandosi nella stanza e raggiungendo il cantante.
Esitò, prima di sedersi a sua volta.
L’ultima volta che era stato su quel divanetto era stato qualche giorno prima, con Duff.
E non avevano passato il tempo chiacchierando.
Cacciò indietro le lacrime e il nodo in gola, affondando nei cuscini.

- Ah. Il raffreddore se ne è andato quindi... -

- Così pare - Steven abbozzò un sorriso, tiratissimo sul volto pallido, e strappò di mano l’accendino ad Axl.
Non aveva mai avuto un così grande bisogno di nicotina in vita sua. Il cantante roteò gli occhi.

- Siete peggio di due fottutissimi pensionati che parlano del tempo, voi due - biascicò annoiato – Se non fosse che non c’è un cazzo di meglio da fare che stare qui, me ne andrei. -

- Nulla ti vieta di andartene sul serio, Axl. - sibilò Duff, tradendo una certa urgenza nella voce. D’un tratto, tutto quello che voleva era stare solo con Steven.
Sembrava dimagrito, il viso bianco come quello di un cadavere, le guance scavate e due borse scure sotto gli occhi, insolitamente opachi.
Lo guardò soffiare fuori una nuvola di fumo azzurrino, senza dire niente.

Calò un silenzio pesante, tangibile quanto la tensione che correva tra i due biondi, rendendo quasi elettrici i lunghi capelli del cantante che, più annoiato che altro, si alzò in piedi.

- E’ più divertente guardare Slash strafarsi, piuttosto che stare qui con voi due. - brontolò astioso, lasciando la stanza. Steven chiuse gli occhi, mentre la porta si chiudeva dietro il front-man, isolando lui e Duff dal resto del mondo. Rimase in silenzio.

- Allora? - domandò alla fine il bassista, dando le spalle alla finestra – Come stai? -

- Te l’ho già detto, sto bene. -

- Sei pallido, Stevie... - osservò aggrottando la fronte e sedendosi sul divanetto, accanto all’altro ragazzo, che scattò su come una molla – Non hai una bella cera. -

- Te l’ho detto, sono stato male. Si può sapere cosa diavolo hai? Sto bene. - fece qualche passo nella stanza, inquieto.
Era sicuro che se fosse rimasto troppo vicino a Duff non sarebbe riuscito a controllarsi. L’impulso di stringerlo e farsi stringere era qualcosa contro cui non riusciva a lottare, era perdente già in partenza. Meglio non rischiare, si disse tra un tiro e l’altro, fai finta che sia tutto a posto.

- Io non ho proprio niente, Steven. - ribatté piccato il bassista, parandoglisi davanti. Aggressivo.

- Non mi pare proprio. - quasi urlò, ricambiando il suo sguardo, nonostante si sentisse mancare davanti agli occhi color nocciola dell’altro, che avanzò d’un passo. Chiuse gli occhi, avvertendone chiaramente il profumo, un miscuglio di muschio e tabacco che ogni volta gli faceva girare la testa. Duff avanzò ancora. Lo colse una vertigine: portò una mano alla testa, arretrando d’un passo.

- Steven, che succede? -

- Niente! - sbottò, tenendo gli occhi chiusi e continuando ad indietreggiare. Gli tremavano le ginocchia e l’ultima cosa che voleva era cadere per terra davanti a lui e mostrare tutta la sua debolezza.

- Steven, sei bianco da far paura, siediti per favore... - Duff lo afferrò per un braccio e lo tirò verso il divanetto.
Non riesco nemmeno a liberarmi, pensò, mentre un gemito premeva contro la sua bocca chiusa per farsi sentire. Si accasciò tra i cuscini, mentre chiazze nere volteggiavano davanti al viso del bassista, nascondendone a tratti l’espressione preoccupata.

- Ti porto qualcosa? Acqua? Roba? Steven, cos’hai? STEVEN! -

Il batterista non rispose, mentre le macchie nere si allargavano come fossero acqua su una superficie piana, inghiottendo tutto il mondo, inclusa la voce spaventata del biondino e gli schiaffeggiava delicatamente le guance.

  

*

 

- Duff... -
- Eh. -
- Come sta? -
- Sta dormendo. -
- Dovresti riposare un po’ anche tu... -
- Solo quando si sarà svegliato. -
- Ma... -
- Niente ma, Mandy. Quando si sarà svegliato. -
- ... -
- E non guardarmi così, che non c’è motivo per quel cazzo di muso lungo. -
- ...d’accordo Duff. -

 

*

 

- Duff, vuoi un caffé? -
- No, grazie. -
- Vuoi qualcosa da mangiare? -
- No, grazie. -
- Vuoi che ti porti qualcosa da leggere? -
- No, grazie. -
- Posso fare qualcosa per te? -

Sparisci e non farti più vedere, grazie.


 

*

 

- Slash, ti prego parlaci tu! Non so più cosa fare, non mi ascolta, non mi parla. Se ne sta tutto il giorno seduto vicino a quel letto senza dire una parola... -
- Mandy, non... -
- Slash, per favore! Non capisco cosa diavolo gli sia preso tutto d’un tratto! -
- E’ preoccupato, tutto qui. Lascialo un po’ in pace, prova a capire come si sente.. è stanco, sotto pressione. Lo siamo tutti, cazzo. Dagli tregua, è meglio. -

  

*

 

- … sempre vicino a questo dannato letto, ma cosa cazzo significa?! Ho capito esser preoccupati, ho capito voler bene ad un amico, ho capito tutto, ma porca puttana Duff, stiamo per sposarci! Dovresti pensare un po’ anche a me, ti pare? -
- Mi stai dando dell’egoista, Mandy? -
- Sì, sei un egoista del cazzo! Non mi parli, non mi dici niente! Sono tredici ore filate che stai qui! Non sei mai uscito dalla stanza, neanche per andare in bagno! Quando io avevo la febbre tu sei salito sul palco senza farti problemi mentre per lui... -
- Porca puttana, ma ti rendi conto delle stronzate che stai dicendo? Tu avevi qualche linea di febbre ed eravamo nel bel mezzo della tourneé, lui è svenuto, è in un letto d’ospedale mezzo disidratato e non si è ancora svegliato, ha una cazzo di flebo che gli entra in un braccio e pagherei perché fosse l’ago di una fottuta siringa! Dio! Ma cosa cazzo hai per la testa, si può sapere? -
- Ma io sono la tua ragazza, Duff! Lui è solo un amico! -
- LUI E’ MOLTO DI PIU’, CAZZO! -

  

*

 

Quando Steven riaprì gli occhi era notte inoltrata.
La luce arancione dei lampioni cadeva obliqua nella stanza, tante lame che passavano oltre i vetri sporchi delle finestre per conficcarsi nelle lenzuola bianche cospargendole di ombre scure. Sbatté le palpebre, intontito. Il braccio destro era completamente intorpidito e qualcosa di soffice ne sfiorava la pelle. Si raddrizzò alla meno peggio, con una smorfia, sino a scorgere una testa bionda abbandonata sul suo avambraccio. Oro scuro, screziato di nocciola laddove le ciocche si ondulavano vicino al collo.

- ...Duff. - sussurrò, immobilizzandosi immediatamente.

Il bassista dormiva, completamente abbandonato sul suo braccio, una mano chiusa a pugno vicino al viso e l’altra abbandonata sulle lenzuola, aperta. Riusciva a intravedere le pieghe della pelle sul palmo della mano, le stesse che vi avevano inciso il suo destino, il suo fato. Vita, amore, salute. Tutto racchiuso in quelle righe del tutto casuali. Sorrise, posando il capo contro la testiera del letto, allungando una mano sino a sfiorare i capelli del ragazzo cullato da chissà quale sogno, una carezza che interruppe bruscamente, rendendosi conto dell’assurdità della situazione.

Cosa diavolo ci faceva Duff addormentato sul suo braccio?

Che diritto aveva, poi, di dormire sul suo braccio!
Ma soprattutto, per quale dannata ragione lui stava accarezzandogli i capelli come se tra loro fosse tutto a posto, come se non ci fossero questioni in sospeso e problemi accantonati per paura di un confronto?

Si morse le labbra, consapevole di dover svegliare Duff e interrompere quel contatto che si era instaurato probabilmente per caso tra loro due. Aveva un po’ il vago presentimento che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero potuto stare insieme con quella semplicità, con quello spontaneo abbandono che li aveva salvati dalla solitudine più di una volta. Era come se avvertisse nell’aria un profumo portatore di amare novità. Profumo di lacrime, profumo di rotture, profumo di sangue, di ferite, di spiriti vacillanti. L’aroma agrodolce dell’inevitabile gli riempì la bocca, mentre facendosi coraggio sfilò il braccio via da sotto il volto di Duff, che ricadde sul materasso e si svegliò di colpo. Il freddo, che prese il posto della calda guancia del ragazzo, gli mozzò il fiato in gola.

- Che cazzo... - iniziò a dire, ancora mezzo addormentato, prima di incrociare lo sguardo del bassista – Ohh! - sgranò appena gli occhi scuri, riconoscendolo. – Ciao.. - sussurrò quasi timidamente, prima di sbadigliare.

Steven non lasciò che la tenerezza suscitatagli dal biondino lo turbasse. Ricambiò appena il sorriso, accompagnandolo con un vago cenno del capo.

- Che ci fai qui? - chiese, riempiendo quell’infido silenzio che stava calando leggero come un velo – Non dovresti essere in albergo? -

- Ah ah - Duff scosse il capo, raddrizzandosi sulla schiena e stropicciandosi gli occhi con un gesto che gli aveva visto fare mille e più volte – Non potevo lasciarti qui da solo -

- E... - deglutì, facendosi forza – E Mandy? -

Finse di non cogliere l’ombra che era calata sul volto magro del bassista, mentre questi si alzava e raggiungeva la finestra, guardando la strada deserta lì sotto, fiume di asfalto nero chiazzato di bianco.

- Ha smesso di nevicare, sai? Questo pomeriggio. -

- Non hai risposto alla mia domanda. -

- Ho litigato con Mandy. Non so se sposarla sia una così buona idea, sai? -

Steven chiuse gli occhi, domandandosi se non fosse tutto un brutto scherzo della sua immaginazione, se non stesse sognando. Ma il flebile pizzicare della flebo infilata nel suo braccio era reale, così come la dura platica che premeva contro le sue scapole, poco sopra il cuscino.

- Cosa cazzo dici? - sbottò alla fine, abbassando lo sguardo.
Non era bravo a mentire, non lo era mai stato. E Duff lo sapeva. Ma adesso, adesso non doveva scoprire che in realtà non avrebbe voluto far altro che alzarsi in piedi, abbracciarlo e baciarlo fino a confondere i loro profumi, i loro sapori, i loro cuori in un unico grande mare di luce.

- Lei non capisce. Non ha fatto altro che starmi tra i piedi, chiedendomi se volessi qualcosa, se andasse tutto bene. E’ veramente innamorata di me, ma ci pensi? -

Il batterista non sorrise, seppure il suo cuore segretamente esultasse alla vista dell’aria indignata di Duff. Ma non doveva, non doveva. Non poteva. Aggrottò la fronte, invece di arcuare le labbra in un sorriso.

- Io penso che dovresti essere con lei, adesso, e non in questa stupida stanza. Tra l’altro, come cazzo sono finito in ospedale? -

- Come sarebbe a dire “dovresti essere con lei adesso”? Mi prendi in giro Stevie?! - il ragazzo si voltò di scatto, raggiungendo con due passi la sponda del letto.

- Dico solo che si suppone tu debba cogliere ogni singolo istante assieme a lei, dal momento che presto saremo di nuovo in giro per l’America in tour fino alle vostre... al vostro... sì, insomma, fino alla... alla cerimonia, ecco. -

- Ma Steven, io pensavo... -

- Non importa, non importa. - scosse il capo, come ad indicare che era una storia chiusa, un capitolo ormai da dimenticare – Sei ancora in tempo per recuperare. Vai in albergo, vai da Mandy. Non c’è ragione per te di stare qui, adesso. Sto bene, questa volta davvero. E immagino ci sia uno stuolo di adorabili biondine in uniforme pronte a farmi da crocerossine. - ammiccò, odiandosi per quando aveva appena detto.

- No. - secca, la negazione non lo sorprese più di tanto, così come non lo stupì la nota offesa che la faceva suonare ostile.
E non poteva biasimarlo, lui avrebbe reagito anche peggio se i ruoli fossero stati invertiti.

- Non essere stupido, va da lei. Sta per diventare tua moglie, no? -

- Io voglio stare con te! - Duff cadde in ginocchio sul pavimento, quasi supplicamente.

Perché, si chiese, guardando quel viso che tanto amava e che non gli avrebbe mai più sorriso come prima, deve essere così difficile? Perché non posso stare con lui? Perché le cose non possono restare così come sono? Sapeva perché.

Mandy.

I suoi folti capelli neri, gli occhi a mandorla blu notte, il sorriso dai denti un po’ storti ma luminoso come il sole. Duff, che lo ammettesse o meno, la amava. Più di quanto non amasse lui e, sebbene facesse male, troppo male accettarlo, era questa la realtà. Altrimenti non le avrebbe chiesto di sposarlo, altrimenti l’avrebbe lasciata e sarebbe rimasto sempre e solo con lui. Non lo aveva fatto e tanto bastava per porre un esplicito limite alla loro relazione, un limite che Steven non voleva più oltrepassare: compiere quel passo, a lungo andare, lo avrebbe logorato al punto da ucciderlo.

- Dannazione, ma cosa hai in testa? Segatura? - sbottò il batterista – Quando capirai che non è qui il tuo posto? Non c’è niente, NIENTE, che possa giustificare la tua presenza qui, nel cuore della notte. Non sono moribondo, non sono in coma. Sono sveglio, sto bene, probabilmente domani mi dimetteranno e tutto tornerà ad essere quello che deve essere. Sii sincero, se non fossi svenuto sotto il tuo naso, mentre discutevamo, non saresti qui. È il senso di colpa che ti tiene ancorato qua, nulla di più. Quindi fammi e fatti il favore di andartene, prima che Mandy capisca che razza di idiota sei! -

- MA IO TI AMO! - scattò Duff, ruggendo quella frase con l’ultimo slancio di un leone ferito, con la disperazione del gladiatore che sa di essere condannato a morte e si lancia in un ultimo tentativo di riscatto, correndo solo più vicino alla lama che reciderà la sua vita.

L’aria si cristallizzò, il tempo parve congelarsi in quell’istante. Non se l’aspettava, una cosa del genere, un colpo così basso. Una pugnalata dritta ai suoi sentimenti, una precisione chirurgica, nessun margine d’errore. Si sentì perso, al punto che permise al bassista di stringergli una mano e proseguire, mentre lui fissava il nulla come inebetito.

- Ti amo - continuò pacato – E voglio stare qui con te, non con Mandy. È per te che sono morto di paura, è per te che sono stato intrattabile per giorni. Stevie, io ti amo, devi credermi. Io... io non sono bravo con le parole. Le uso poco e mi fido anche meno, lo sai no? Ma ti giuro, ti giuro che è vero, che ti amo e che... -

- Basta. - flebile, la voce del batterista lo interruppe. Steven chiuse gli occhi, riordinando le idee – Lo so che mi ami, lo so. Ma non abbastanza. -

Gli occhi castani del bassista lo fissarono sconcertati.

- Cosa vuol dire “non abbastanza”? - chiese senza capire, ma ritraendosi impercettibilmente. Se qualcuno, un giorno, avesse chiesto a Steven quando la loro storia era finita, lui avrebbe detto che era stato nell’esatto istante in cui aveva pronunciato quelle due parole. Non abbastanza. Come se la quantità e la qualità fossero fondamentali.

- Vuol dire che non è abbastanza. Che ami Mandy più di quanto ami me, altrimenti non le avresti chiesto di sposarti e non me lo avresti detto con quel sorriso meraviglioso. - raccolse le mani in grembo, intrecciando le dita tra loro – Questo vuol dire. E va tutto bene, davvero, non devi preoccuparti per me, l’ho accettato quando me lo hai detto e lo accetto anche adesso come lo accetterò da domani in poi. Davvero, è tutto a posto. -

E adesso perché stava piangendo?

Perché le lacrime scivolavano lungo le sue guance, simili a grosse perle salate che sfioravano le sue labbra prima di impigliarsi sul mento e cadere giù, fino a colpire le mani strette tra loro?
Che motivo c’era?
Sapeva che sarebbe successo, l’aveva sempre saputo. Era, o quanto meno credeva di esserlo, preparato a quel momento. E, in ogni caso, era stato inevitabile, non avrebbe potuto farci nulla. Piangere era del tutto inutile.

Duff si alzò in piedi, smarrito tanto quanto lui. Non fece nulla per trattenerlo, lo guardò raggiungere la porta con le spalle curve e il viso adombrato, nascosto dai capelli.

- Non è tutto a posto, comunque, - disse prima di uscire dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle – Non riesci nemmeno a chiamarmi per nome, come può essere tutto a posto? -

Steven fissò la porta per qualche minuto, lottando con le lacrime e con la consapevolezza che ogni cosa sarebbe stata diversa, d’ora in poi. Niente sorrisi speciali, niente strette di mani fugaci in corridoi deserti, niente baci nasconsti dentro vecchi sottoscala polverosi. Niente chiacchierate a notte fonda fumando una sigaretta in due. Niente fughe in fast-food dimenticati dal mondo per mangiare patatine stantie e hamburger troppo cotti.

- Hai ragione, Duff. Non è per niente tutto a posto... - sussurrò alla stanza ormai vuota, con un filo di voce.

Fuori, un solitario fiocco di neve solcò l’aria gelida della notte, danzando in un coraggioso assolo, preludio di una nuova, gelida tempesta che avrebbe cancellato il mondo intero dietro la sua fitta cortina bianca.

 

*

 

Sei mesi dopo.

Steven si accoccola sul letto, a gambe incrociate. Chiude gli occhi, infilando l’ago della siringa nell’avambraccio e premendo il pollice contro lo stantuffo. Uno, due e tre. La droga entra in circolo tutto d’un colpo, espodendogli nel sangue e alterando le sue percezioni. I colori si attenuatono, le forme si allargarono sino a sfomarsi completamente in macchie confuse, e i suoni vengono soffocati da un invisibile imbottitura che lo avvolge in un confortevole abbraccio di oblio.

Va avanti a sigarette ed eroina da settimane, ormai. Dalla cerimonia, per essere precisi, da quel giorno soleggiato di maggio in cui Duff ha sposato Mandy, nonostante le incomprensioni e i litigi causati da quei tre giorni di neve fitta a New York.

Si accende una sigaretta, sfilando l’ago dalla carne e posando la siringa sul comodino. Gusta il sapore amaro del primo tiro, quello che preferisce, trattenendo il fumo nei polmoni fino a quando non li sente bruciare, prima di soffiarlo fuori in piccole nuvolette.

E’ stata una bella cerimonia, alla fine.

Molto romantica, piena di fiori bianchi e fiocchi di seta dalle lunghe code svolazzanti, sotto un cielo azzurro smalto screziato di macchie di zucchero filato. Nessun giornalista, solo amici e parenti. Non ricorda altro, però: alla prima occasione si è infilato un ago in braccio annaffiando la droga con litri di alcol. Tutto, pur di non vedere, di non sentire, di non lasciare che qualcuno potesse capire il suo reale stato d’animo. Fuori è stato tutto un sorriso, dentro si è sentito morire.

Spegne la sigaretta senza nemmeno averne fumata metà, distendendosi sul letto e incrociando le braccia dietro la testa. Socchiude gli occhi, ascolta il fruscio delle tende tirate davanti alla finestra aperta. L’aria fresca della notte invade la stanza, regalandole quel particolare profumo di fiori nonostante l’albergo si trovi nel cuore di Chicago. Un taxi strombazza in strada, sfrecciando veloce sull’asfalto, mentre in lontananza suona la sirena di un’ambulanza. Ma per Steven, l’aria profuma di fiori esattamente come quando, da piccolo, dormiva in un vecchio fienile d’estate, sotto le stelle.

Cullato da un dormiveglia di sonno, droga e alcol, quasi non s’accorge della porta che si apre silenziosamente e della figura magra che scivola nella stanza e gli si distende accanto fino a quando non si sente solleticare l’addome da una cascata di capelli biondi, mentre dita sottili armeggiano con la cintura dei suoi jeans.

- Sei venuto di nuovo. - sussurra senza aprire gli occhi.

- Ti sei fatto di nuov. o- è la risposta, soffocata da quella coltre di capelli che nascondono il viso affilato. Steven si mette seduto, affondando le mani in quella criniera color del sole per sollevare un volto che rivela ben presto due occhi scuri, smaliziati. Duff.

- E con questo? Non sono io che metto le corna a mia moglie con un tossico alcolizzato. - osserva senza colore il batterista, riavviando qualche ciocca dal volto del bassista.

- Touché! - ride sommessamente, avvicinandosi per sfiorargli le labbra in un bacio, continuando ad armeggiare con i suoi jeans, sino a slacciarglieli. Steven abbozza un sorriso languido, tornando a distendersi sul letto.

 

*

 

Certe volte Steven si chiede se le cose rimarranno sempre così. Se tutta la sua vita sentimentale si ridurrà a brevi notti di puro sesso quando Mandy non è nei paraggi, se non si sposerà e rimarrà incatenato a Duff per il resto dei suoi giorni, in preda ai suoi capricci e ai suoi desideri, vincolato da quell’amore che, ogni volta, gli impedisce di dirgli di no, dalla paura di vedere anche solo un grammo di dolore in quegli occhi scuri che ora lo guardano annebbiati dal piacere.

Certe volte passa ore intere a fantasticare su come avrebbe potuto esser stata la loro vita se in quel lunedì sera di tanto tempo fa non fossero andati a mangiare sushi, a Los Angeles, ma avessero preso il solito hot dog al Rainbow. Sarebbe stato tutto diverso? O sarebbe stato sempre uguale, la solita vecchia storia che non cambia mai con il passare del tempo e si fa sempre più crudele, giorno dopo giorno?

Certe volte odia Duff.

Lo odia come non ha mai odiato nessuno, scarica su di lui tutta la frustrazione di un amore che sarà sempre e solo un amore del crepuscolo, nascosto dietro ombre sempre più fitte, carico di segreti e parole che non saranno mai svelate ad anima viva, denso di una sofferenza cancellata da un manciata di ore felici. Lo odia per aver sposato Mandy, lo odia per averlo abbandonato e poi esser tornato quando ne aveva bisogno.

Certe volte, invece, odia se stesso.

Per non riuscire mai a dirgli di no, per essersi rassegnato, a poco più di vent’anni, ad una vita che lo prosciuga. Per essersi abbandonato al conforto di qualcosa che piano piano lo avvelena e lo distrugge, donandogli un oblio destinato a svanire prima o poi, fino alla prossima sorsata, fino alla prossima dose, fino alla prossima droga lanciata su un mercato ormai fondamentale per lui.

Altre volte è grato al cielo per aver incontrato una persona da poter amare spassionatamente, senza inibizioni, senza paure. Una persona a cui confidare briciole di sogni che nessun altro nemmeno si prenderebbe la briga di ascoltare. Grato di poter passare anche solo poche ore con lui, ascoltando il battito del suo cuore e il ritmo regolare del suo respiro che culla i suoi sogni.

E ci sono volte in cui questo è abbastanza.

 

 

It’s the heart afraid of breaking that never learns to dance.
It’s the dream afraid of waking that never takes the chance.
It’s the one who won’t be taken who cannot seem to give and the soul afraid of dying that never learns to live.
When the night has been too lonely and the road has been too long and you think that love is only for the lucky and the strong, just remember in the winter far beneath the bitter snows lies the seed that with the sun’s love in the spring becomes the rose.

 

Bette Midler, The rose.

 

 

 

 

FINE

   
 
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