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Autore: shebelievesinLarry    16/01/2013    3 recensioni
[Larry]
Harry Styles è costretto a trasferirsi con sua madre a Doncaster. Lì deve iniziare il secondo anno di università, ma non vuole: i cambiamenti lo intimoriscono, anzi, lo terrorizzano. Capiterà nella classe di Niall, ragazzo espansivo e divertente, di Liam, ragazzo intelligente e simpatico, e di Louis, nipote della segretaria della scuola, che però è diverso dagli altri, in molti sensi, soprattutto in un senso in particolare.
Dal testo:
Louis si asciugò delicatamente le mani affusolate con un fazzoletto, poi me ne porse una, che io prontamente strinsi. Era fredda, probabilmente perché se l’era sciacquata con l’acqua ghiacciata.
«Piacere, Louis» disse, puntando i suoi occhi azzurri nei miei, quasi prepotentemente.
“Lo so”, volevo rispondergli, ma mi morsi il labbro inferiore per evitare di dire sciocchezze.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~mio angolino~
Ciao gente! :) Inauguro questo mio account (in teoria ne avrei un altro, ma fa schifo, quindi eww, meglio lasciarlo marcire) con questa storia, che personalmente è quella che sento più mia. Non so come spiegarvi, è una cosa strana. Conoscendomi, potrei anche di punto in bianco non continuarla più e non concluderla – spesso il blocco dello scritto mi coglie impreparata, lo odio – ma spero vivamente che con questa long non accada.
Esatto, è una long, quindi sarà lunga e infinitamente complicata da scrivere! In ogni parola che ho scritto c’è un sacco di lavoro dietro, ergo, per piacere, apprezzate il mio sforzo. ç___ç
Oggi sono super felice e lo devo al mio Nicola che amo con tutto il cuore, ok? Ok. Quindi grazie, Enkidu mio (dietro questo suo soprannome idiota c’è una lunga storia e non so neanche perché mi ostino a chiamarlo così, ma vabbè). ♥♥
E ci sono anche un sacco di altre persone che dovrei ringraziare perché mi sopportano sempre, e un giorno le ringrazierò tutte.
Passando un attimo al capitolo: è abbastanza lungo e noioso e non accade nulla di che – a parte alla fine che si scoprirà un dettaglio importantissimo per lo sviluppo della storia... e lo scoprirete solo leggendo! – ma gli altri capitoli saranno più interessanti, ovviamente. Perciò, stay tuned!
Ringrazio già in anticipo tutti quelli che leggeranno questa... cosa. Non volevo neanche pubblicarla, ma Giulia mi ha convinto, quindi ringraziate lei. (Giulia, comunque ti lovvo tanto ♥)
E... niente, premetto che non so come funzionano le università inglesi né tutto il resto – d’altronde non sono inglese, sob – quindi perdonatemi gli eventuali errori.
Ci si sente al prossimo capitolo! Mi farebbe molto piacere se recensireste questo qui, giusto per farmi sapere se devo continuare o se devo darmi all’ippica (con Nicola). Se vedo che non piace a nessuno è ovvio che non continuo (e magari mi do davvero all’ippica). ç_ç
Ho parlato anche troppo.
Alla prossima, pueri. ♥

 

 

 

 I CAPITOLO

 

 

Harry

 

 

 

Se c’era una cosa che proprio non sopportavo, tra le tante, era dover traslocare. Richiedeva molto tempo e molta fatica; era un vero e proprio stress.
Tra l’altro, vedere la casa, un tempo piena di oggetti e vivace, ora vuota, mi metteva un’angoscia terribile.
Mentre toglievo i libri dagli scaffali e li sistemavo negli scatoloni, una cuffia mi sfuggì e, sbuffando, la risistemai dentro l’orecchio. Il sole mi arrivava proprio dritto in faccia attraverso la finestra, dandomi fastidio, ma non mi mossi da lì; al contrario, continuai a mettere i libri negli scatoloni, gesto che ormai ripetevo da quasi un’ora e che mi stava spezzando la schiena. Ma prima finivo meglio era, giusto?
Io e mia mamma Anne ci stavamo trasferendo da Holmes Chapel a Doncaster. Dopo aver cacciato mio padre di casa, mia madre aveva deciso di andare via da qui, perché questo posto le rievocava troppi ricordi dolorosi. Testuali parole.
Sapevo che i miei genitori prima o poi avrebbero divorziato, dato che era da mesi che non facevano altri che litigare pesantemente, giorno e notte, solo che non pensavo che lo facessero così presto. Era stato un duro colpo per me. Nonostante in fondo desiderassi che divorziassero, per non dover più subire le urla di entrambi e i pianti notturni di mia mamma, stavo soffrendo davvero tanto. Non solo a causa del divorzio e del trasferimento, ma anche a causa della distanza che, presto, mi avrebbe tenuto lontano da mio padre. Ero davvero molto legato a lui, più di quanto avrei creduto di essere. Anche se amavo mia mamma da morire, avevo bisogno di una figura paterna al mio fianco, che mi avrebbe accompagnato, giorno dopo giorno, durante la mia vita. Avevo ormai ventuno anni, ma ero legato ai miei genitori come se loro fossero i miei migliori amici.
«Tesoro, hai finito con i libri e le altre cose?»
Una voce femminile insicura mi riscosse dai miei pensieri. Tolsi una cuffietta dall’orecchio. Non mi sforzai neanche di fare un sorriso, mi limitai a scuotere la testa.
«Allora quando hai finito, avvisami, ho bisogno del tuo aiuto, di là» continuò mia madre.
«Ok» risposi solamente, per poi rimettermi la cuffietta e darle le spalle, per continuare il mio lavoro.
La sentii sospirare e chiudere la porta.
Il divorzio dei miei genitori mi aveva fatto diventare freddo e distaccato, persino con la persona che più amavo al mondo, quella che mi aveva donato la vita. Ero consapevole del ragazzo gelido che stavo diventando, ma non riuscivo a fare nulla per fermare questo mio cambiamento. E forse non volevo neanche fermarlo.
La storia del trasferimento, poi, aveva contribuito a farmi chiudere ancora di più in me stesso. Era la seconda volta in tutta la mia vita che cambiavo città e casa in cui abitare. La prima volta ci trasferimmo da Londra a Holmes Chapel, perché Londra era troppo frenetica e caotica e a mia mamma non piaceva molto. E poi pioveva sempre, il che causava spesso disagi.
Il trasferimento, all’epoca, non era stato molto traumatico; io avevo appena cinque anni, non capivo granché. Soprattutto non capivo perché mia sorella Gemma, che era più grande di me, soffrisse così tanto all’idea di lasciare i suoi amici e le sue amiche. Con la mente di allora, pensavo che non sarebbe stato un grande problema, perché se ne sarebbe fatta degli altri, di amici. Ovunque ci sono persone disposte a conoscerti e a farti sentire desiderato e a tuo agio.
Ora, invece, la comprendevo perfettamente. Avevo vissuto a Holmes Chapel per ben sedici anni, mi ero fatto un sacco di amici. E, sapendo che non li avrei più rivisti, stavo male. Soprattutto soffrivo all’idea di dover abbandonare il mio migliore amico Nick, con cui avevo condiviso tantissimi momenti. Era la persona di cui mi fidavo di più in assoluto.
E così sfogavo la mia tristezza ascoltando musica tutto il giorno e isolandomi dal resto del mondo.
Non volevo più parlare con nessuno, neanche con mia sorella. Lei era fresca come una rosa, perché tanto abitava col suo fidanzato perfetto ed ero io che dovevo trasferirmi e lasciare la città in cui ero cresciuto e dove avevo passato la mia infanzia e la mia adolescenza. Certo, pure lei si era intristita alla notizia dell’imminente divorzio, ma essa le scivolò addosso come l’acqua: in fondo, a lei cosa cambiava se i nostri genitori stavano insieme oppure no? Ero io che dovevo studiare con il sottofondo delle urla dei miei genitori. Ormai lei aveva intrapreso un’altra strada, diversa dalla nostra, diversa soprattutto dalla mia.
Perché io, in fondo, avevo ancora bisogno di lei e dei suoi consigli. Avevo bisogno di qualcuno che mi stesse accanto nei momenti di necessità e non. Qualcuno che non fosse la musica.
Gemma, fin da quando eravamo piccoli, era stata la mia ancora di salvezza. Per qualsiasi cosa era lì per me, mi aiutava in tutto. Quando ero triste, quando avevo paura di qualcosa, quando mi sembrava di non riuscire più ad andare avanti, lei c’era.
Ma John, il suo fidanzato, l’aveva portata via da me.
Non mi era mai stato molto simpatico, a dir la verità. Poi aveva raggiunto il limite quando aveva proposto a mia sorella di andare a vivere insieme e lei aveva accettato.
Era successo qualche anno prima: quando lo venni a sapere, era come se il mondo mi fosse crollato addosso. Gemma era contentissima e mi aveva abbracciato con le lacrime agli occhi, ridendo come solo lei sapeva fare, ma io non riuscivo a essere felice per lei.
Cosa ne sarebbe stato di me? Non avrei più avuto nessuno a cui aggrapparmi quando brancolavo nel mondo buio e losco dell’incertezza e dell’insicurezza.
«Harry», mi sussurrò allora, vedendomi in quello stato di coma momentaneo «potrai chiamarmi tutte le volte che vuoi. Non c’è motivo di essere triste. Il nostro rapporto non cambierà.»
Sarebbe cambiato eccome, invece. Chi avrei abbracciato la notte, durante un forte temporale? Chi mi avrebbe fatto le coccole mentre tremavo di paura?
Perché solo lei sapeva quanto i temporali mi intimorissero. Solo a lei lo avevo rivelato. Solo lei sapeva, in realtà, quanto io fossi fragile.
Quelle erano piccole cose, ma che per me facevano la differenza.
Ovviamente, però, eravamo lo stesso molto legati. Non ci sentivamo o vedevamo spesso, dato che lei era molto impegnata, ma ogni volta per me era sempre un piacere vederla oppure sentire la sua voce rassicurante per telefono. Alla fine, non potevo avercela con lei, anche se mi aveva abbandonato in balia dei miei dubbi e dei miei tentennamenti, tempo fa.
Depositai l’ultimo libro nello scatolone, posai il mio iPod sulla scrivania – priva di scartoffie e insipida – e uscii dalla camera, per aiutare mia mamma, come mi aveva chiesto di fare.
La trovai in camera sua, in piedi sulla scala, intenta a provare a prendere qualcosa in alto sull’armadio.
«Serve aiuto?» chiesi, passandomi stancamente una mano sulla fronte, per scostare via i ricci ribelli.
Lei si girò per guardarmi e mi sorrise riconoscente.
«Oh, sì, grazie. Tu che sei molto più alto di me sicuramente riuscirai a prendere quel borsone che c’è lì sopra», indicò un punto indefinito sopra l’armadio, dopodiché scese dalla scala e ci salii io.
Dopo aver messo piede sull’ultimo scalino, intravidi il borsone, lo afferrai e lo diedi a mia mamma.
«Ti ringrazio» disse, mentre scendevo dalla scala. Io mi limitai a fare spallucce.
«I libri li hai messi tutti negli scatoloni?» mi domandò poi.
Annuii. «Mi mancano solo i vestiti e con la mia roba ho finito.»
«Devi essere molto stanco, presumo» mi sorrise dolcemente, inclinando un po’ la testa di lato.
Non risposi. Sì, lo ero, ero molto stanco. Avevo solo voglia di dormire e di stare a letto per sempre.
Ma poi pensai a mia mamma: anche lei doveva essere stanchissima. Si vedeva anche solo dalle profonde occhiaie che le cerchiavano gli occhi azzurri, un tempo vispi.
«Che ne dici di fare una pausa e di mangiare qualcosa? È quasi l’una del pomeriggio... ordiniamo cinese?» aggiunse un po’ incerta, sorridendomi.
«Certo» affermai, ricambiando il sorriso.
Se io stavo soffrendo così tanto, allora lei quanto stava soffrendo?


**


Dopo aver mangiato, ci rimettemmo subito al lavoro. C’erano ancora un sacco di cose da sistemare, e il camion dei traslochi sarebbe arrivato alle quattro del pomeriggio.
Era triste vedere la casa priva di ogni cosa e soprattutto priva della presenza di mio padre. Lui era un po’ il giullare della situazione: aveva un grande senso dell’umorismo e sapeva far ridere tutti.
Mi chiedevo quale fosse il motivo del divorzio.
Comunque non potevo giudicare, dato che non sapevo com’erano andati realmente i fatti e forse mai lo avrei saputo. Conoscevo mia mamma: mi nascondeva le cose per far sì che io non mi preoccupassi troppo. Non condividevo quel suo modo di fare, ma lei era fatta così e io dovevo farmene una ragione.
Aprii le ante del mio armadio e fui investito dal buon odore dell’ammorbidente che usava mia madre per profumare i vestiti.
Sistemai accuratamente tutti i jeans, i maglioni e le magliette varie dentro la valigia che avevo preso. Cercai di piegarli bene, così poi, una volta arrivati nella nostra casa a Doncaster, avrei avuto un po’ meno lavoro da fare.
Trovare un appartamento là non era stato tanto difficile. Ci avevamo messo relativamente poco. All’inizio, in realtà, avevamo optato per trasferirci a Manchester, ma le case costavano troppo e noi non potevamo permettercele.
«Prova a cercare tra gli annunci a Doncaster» mi aveva suggerito mamma, e così avevo fatto, trovando un appartamento semplice ma provvisto di tutto e situato in una posizione comoda per gli spostamenti. Era anche abbastanza vicino ad un college, che io ovviamente avrei frequentato.
Finii di mettere a posto tutti i miei vestiti nella valigia quando ormai erano le due e mezzo. La musica mi aveva tenuto compagnia dalla mattina, infatti l’iPod era scarico. Lo misi subito a caricare: non avrei resistito a lungo senza.
«Ehi tesoro, che ne dici di darmi una mano?» chiese mia madre, vedendomi arrivare in soggiorno. Era intenta a lavare i vetri del balcone. «Dobbiamo lasciare la casa pulita e non ho avuto molto tempo per pulirla. Puoi passare l’aspirapolvere?»
Fece come mi aveva detto, poi pulii in lungo e in largo la mia camera e quella dei miei genitori.
Alle quattro in punto avevamo finito tutto e poco dopo arrivò puntuale il camion, che caricò tutti gli scatoloni e qualche mobile che dovevamo portarci perché nell’altra casa non c’era.
Misi i bagagli nell’auto, mentre mia mamma firmava alcuni fogli. Mi girai per guardare la mia casa: da fuori sembrava uguale a prima, ma dentro era miserabilmente vuota. Mi sarebbe mancata, così come mi sarebbe mancata Holmes Chapel, che mi aveva visto crescere. Ma soprattutto mi sarebbero mancati i miei amici, che avevo salutato tutti il giorno prima. E mi sarebbe mancato Nick.
Stavo chiudendo un capitolo della mia vita e ne stavo aprendo un altro. Mi avrebbe portato buone cose?
Mi sedetti al posto del passeggero, aspettando che mia madre smettesse di parlare con il camionista. Quando finì, si posizionò sul sedile del guidatore e lanciò uno sguardo triste alla casa, che poi spostò su di me.
«Allora», disse, cercando di sorridere «sei pronto?»
Sospirai e annuii, non molto convinto.
«Non ci metteremo molto ad arrivare. Massimo un’ora e mezza» mi avvisò, allacciandosi la cintura di sicurezza e mettendo in moto la macchina. «Se vuoi puoi dormire, ti vedo stravolto.»
«Sono solo un po’ stanco. Sopravvivrò.»
«Peccato che tu non abbia la patente, se no facevo guidare te» rise leggermente e io sorrisi, guardando fuori dal finestrino. Era strano ma allo stesso tempo bello sentirla ridere, dopo tutte le notti che aveva passato e che passava ancora a piangere e a disperarsi.
Osservai per l’ultima volta i paesaggi di Holmes Chapel, ricordando i giorni in cui giocavo e correvo spensierato in quei prati, con i miei amici. Oppure quando Gemma mi portava al parco per stare un po’ all’aria aperta, quando eravamo piccoli, quieti, innocenti. Oppure, ancora, quando in quello stesso parco avevo avuto il mio primo appuntamento con la mia prima e ultima ragazza.
Non mi vergognavo a dire di aver avuto solo una fidanzata in tutta la mia vita, nonostante avessi già ventuno anni e, vedendomi, tutti pensavano che avessi una fila infinita di ragazze che mi facevano la corte. In effetti sì, un po’ di ragazze a cui piacevo c’erano, ma, a parte Allyson, la mia unica ragazza, nessuna di loro mi interessava davvero. E non mi definivo né gay né etero. D’altronde il mio migliore amico era omosessuale. Semplicemente odiavo le etichette.

Le etichette si mettono sui prodotti in scatola, non sulle persone.

Questa era una delle mie frasi preferite. Quanta verità.
Mentre pensavo a queste cose, constatai che il silenzio che c’era in macchina era opprimente, così accesi la radio, sperando che non desse fastidio a mia madre. Chiusi gli occhi cercando di riposarmi un po’ e, quando li riaprii, circa un’ora dopo, eravamo già arrivati a Doncaster.
«Manca ancora molto?» domandai.
«Giusto cinque minuti» rispose Anne, sbadigliando.
La guardai con tenerezza. Nonostante tutto ciò che era successo, provava a dimostrarsi forte. Ciò che non ero io. Io ero tutto tranne che forte o tenace. Al contrario, ero fragile come un vaso di terra cotta, insicuro come un bambino durante il suo primo giorno di scuola. Da chi avevo ereditato questi difetti?

 

Quando la macchina imboccò il vialetto della nostra nuova casa, non potei fare a meno di pensare a quanto fosse piccola rispetto a quella di Holmes Chapel.
“Adesso mi aspettano come minimo altre due ore di lavoro” pensai afflitto, scendendo dall’auto.
Non ero in vena di fare nulla, nemmeno di camminare. Volevo solo rintanarmi sotto le coperte e dormire all’infinito.
Entrai nell’appartamento e mi guardai un po’ in giro: sembrava davvero accogliente e i mobili non mancavano, se non un paio. Tutto sommato non era male e, anche se non mi fosse piaciuta, sarebbe dovuta piacermi per forza, poiché sarebbe stata la mia casa per i prossimi anni. O meglio, mesi. Tra i miei piani futuri c’era anche quello di andare ad abitare il più presto possibile da solo, così da non essere più d’impiccio a mia madre e diventare più autonomo.
L’unico problema era che quel cambiamento stava avendo un effetto negativo su di me. Lo avvertivo come un qualcosa di sfavorevole, che andava contro la mia routine. Ero abituato a fare tutti i giorni le stesse azioni, invece adesso dovevo modificare le mie abitudini e introdurne delle altre.
Le novità mi spaventavano.
«Che te ne pare della casa?» chiese mia madre, mettendosi di fianco a me.
«È carina» risposi, senza bilanciarmi troppo. «A te piace?»
«Sì, ma ci sarebbe qualche lavoretto da fare per renderla ancora più confortevole. Va beh, non importa, ci penseremo in futuro. Hai voglia di sistemare un po’ della roba che abbiamo messo dentro gli scatoloni?»
No, non ne avevo per niente voglia. In fondo avevamo tutto l’inizio di settembre per mettere a posto ogni cosa, prima che io cominciassi la scuola e lei il lavoro; per quel giorno avevamo faticato abbastanza entrambi.
«Mamma, devi riposare.»
La guardai con attenzione. Nei suoi occhi potevo leggere tutta la stanchezza e lo stress che aveva accumulato in quei lunghi giorni.
«Hai ragione. Per stasera lasciamo tutto in disordine, non importa.»
Nei giorni seguenti, riuscimmo, non con poche difficoltà, a togliere di mezzo quegli ingombranti scatoloni dove tenevamo i nostri oggetti. I vestiti li sistemammo nei nostri rispettivi armadi. Uscimmo parecchie volte, soprattutto per andare al supermercato e per girare un po’ la città. Anche se la maggior parte di queste volte la mia voglia di uscire era pari a zero.
Mi ci volle qualche notte per abituarmi a dormire nel mio nuovo letto. Il materasso mi sembrava così scomodo rispetto a quello che avevo prima e facevo fatica ad addormentarmi.
E, purtroppo, ancora mi capitava di sentire mia mamma piangere. Ogni volta mi sentivo impotente: non sapevo che fare. Andare lì da lei e confortarla oppure fare finta di nulla? Fino a qualche tempo applicavo la seconda opzione, ma un giorno mi decisi ad alzarmi dal letto nel bel mezzo della notte e ad entrare silenziosamente in camera sua. Appena lei sentì i miei passi leggeri, trattenne il respiro; potei capirlo solo perché non singhiozzava più, dato che era avvolta nell’oscurità e non riuscivo a vederla bene.
«Harry?» sussurrò con voce rotta.
«Sono io, mamma.»
Così dicendo m’infilai nel suo letto, come facevo con Gemma durante i temporali, e la strinsi forte a me. Lei all’inizio s’irrigidì un po’, ma poi si lasciò andare completamente.
«Scusami. Non volevo che mi vedessi in queste condizioni» mormorò affranta.
«Tranquilla. Va tutto bene. Ci sono io con te, ok?»
La sentii sorridere e stringermi a sua volta, riconoscente, e non parlammo più per il resto della nottata. Semplicemente, ci lasciammo cullare dai nostri respiri finché non ci addormentammo entrambi.

 

I giorni prima dell’inizio dell’università passarono anche fin troppo veloci, per i miei gusti. La mia voglia di iniziare a studiare di nuovo era pari a zero. Soprattutto, però, non avevo voglia di stringere nuove amicizie. E non volevo essere oggetto di gossip e pettegolezzi vari, come succede a tutte le persone che si trasferiscono e cambiano scuola.
Provai in tutti i modi a convincere mia madre a farmi rimanere a casa, almeno i primi giorni. Ma lei mi aveva risposto:«Darai una cattiva impressione di te fin da subito. E poi prolungherai soltanto l’agonia». In fondo aveva ragione, così la ascoltai. La mattina del 10 settembre alle sette ero già sveglio; avevo dormito poco a causa dell’ansia e dell’agitazione, così mi ritrovai a fare colazione circa due ore prima dell’inizio delle lezioni. Mia mamma mi raggiunse in cucina sbadigliando.
«Già pimpante alle sette della mattina?» chiese, mentre si sedeva stancamente su una sedia.
«Pimpante mica tanto… mi son dovuto fare due caffè, anche se sai che non ne vado matto.»
«Non hai dormito?»
«Sì, ma poco. Vuoi anche tu un caffè?»
«Preferirei del tè, grazie.»
Mentre glielo preparavo, mi domandò:«Sai già come funziona la tua nuova scuola?»
«A dir la verità, non proprio. Dovrò informarmi in segreteria.»
Lei annuì, assorta nei suoi pensieri.
«E tu? Sei pronta per il tuo nuovo lavoro?»
«Non mi entusiasma molto l’idea di lavorare come cameriera in un ristorante, ma non mi lamento.»
Una sua amica, Michelle, che abitava lì a Doncaster per nostra fortuna, le aveva offerto di lavorare nel suo ristorante e lei, non avendo trovato nient’altro, fu costretta ad accettare.
«Se non fosse stato per Michelle a quest’ora non avresti trovato un’occupazione e avremmo i soldi a malapena per mangiare» osservai, porgendole una tazza di tè fumante.
Sospirò.
«Lo so, Harry, ma spero di riuscire a trovare qualcosa di più... serio.»
«Potrei provare a cercare un lavoro io. Per me.»
«No, è meglio se studi. I soldi non sono un grande problema, alla fine anche tuo... padre ci aiuta economicamente. Poco, ma ci aiuta.»
Non potei non notare la pausa che fece prima di pronunciare la parola “padre”. Si capiva che per lei quella era ancora una ferita aperta.
«Comunque, vuoi che ti accompagni io a scuola, per oggi?»
«No, non importa. Tanto è qui vicino, non ci vorrà molto per arrivare. Ma grazie lo stesso» risposi, sciacquando la tazzina dove avevo bevuto i due caffè e mettendola in lavastoviglie.
«Vado a vestirmi» annunciai poi, dirigendomi verso camera mia.
Quando vi entrai, mi chiusi la porta alle spalle. Prima di decidere come mi sarei vestito, mi sdraiai sul letto, strofinandomi gli occhi, assonnato. Quella sarebbe stata una lunga ed estenuante giornata, me lo sentivo.
Dopo un po’ mi alzai e aprii l’armadio. Era indeciso su cosa mettermi. Passò qualche minuto prima che afferrassi un paio di jeans e una maglietta bianca con una scollatura a V. Una cosa molto semplice, nulla di così eccentrico. D’altronde non volevo far colpo su nessuno e volevo passare il più possibile inosservato.
Passai il resto del tempo rimasto a guardare la televisione. Alle otto e mezzo mia mamma uscì per raggiungere il ristorante in cui avrebbe lavorato, dopo avermi dato un bacio sulla guancia e avermi augurato buona fortuna. Io invece lasciai la casa alle nove meno un quarto, con uno zaino pressoché vuoto sulle spalle e le cuffie dell’iPod dentro le orecchie.
Giunsi a scuola pochi minuti in anticipo; alcuni ragazzi erano già lì e ridevano e scherzavano tra loro, raccontandosi gli ultimi avvenimenti e abbracciandosi calorosamente dato che non si erano visti per tutta l’estate.
Se non mi fossi trasferito, a quest’ora sarei stato davanti al college che frequentavo a Holmes Chapel a comportarmi con i miei amici e con i miei compagni di classe esattamente come si stavano comportando loro in quel momento.
Attraversai il cortile guardandomi in giro, cercando però di non dare troppo nell’occhio. Entrai nell’edificio e perlustrai ogni centimetro di quel posto alla ricerca della segreteria, che trovai facilmente.
Arrivai allo sportello, dove mi accolse un’impiegata dagli occhi azzurri sulla quarantina, che sorrideva.
«Buongiorno» dissi, sorridendo a mia volta quasi automaticamente: il suo sorriso era contagioso. Come potesse esserlo proprio in quel momento, non lo sapevo. D’altronde era un lunedì, il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive...
«Buongiorno a te, caro. Serve aiuto?»
«Sì, sono nuovo di qui.»
«Come ti chiami?»
«Harry Styles.»
Mentre lo dicevo, prese un enorme fascicolo e la campanella suonò. Un’orda di ragazzi mi passò dietro.
«Sai già in che classe sei?»
«Seconda C.»
Il suo sorriso si espanse ancora di più. «Oh, la classe di mio nipote Louis.»
Non sapevo cosa rispondere, così stetti in silenzio.
«Allora, Harry... la tua classe è al primo piano. Appena sali le scale entri nel corridoio che c’è alla tua sinistra, lo percorri fino in fondo e lì la troverai. Preferisci che ti accompagni oppure hai capito?»
«No, credo di aver capito. Al massimo, se dovessi aver bisogno, verrò da lei. Grazie per l’aiuto!»
«Non ci sono problemi. Spero che tu possa fare amicizia con mio nipote, è davvero un bravo ragazzo.»
Le sorrisi e mi allontanai. C’era un qualcosa nella sua voce, mentre diceva quell’ultima frase, che non mi convinceva, ma che non riuscivo ad identificare.
Scossi la testa e mi sistemai i ricci, salendo le scale. Feci come mi aveva detto lei, addentrandomi nel corridoio a sinistra. Lessi da lontano “2ª C” ed entrai in classe.
Appena misi piede lì dentro, tutti gli sguardi furono rivolti verso di me. Mi sentivo in soggezione, così abbassai lo sguardo e mi sedetti sul primo posto che trovai libero. Era vicino a un ragazzo biondo, che sembrava avere un’aria simpatica.
«Oh, ciao» mi disse, evidentemente sorpreso di vedermi.
«Ciao» risposi imbarazzato.
«Sei nuovo? Non ti ho mai visto in giro e non ci hanno mai detto che sarebbe arrivato un nuovo compagno.»
«Ehm, io... sì...»
A salvarmi da quella scomoda conversazione, fu l’entrata della professoressa.
Tutti si misero ai propri posti, mentre l’anziana donna poggiava le sue cianfrusaglie sulla cattedra.
«Buongiorno, ragazzi.»
Qualcuno ricambiò il saluto, qualcun altro continuò invece a chiacchierare.
«Passate bene le vacanze?»
Perdemmo cinque minuti a parlare di com’era andata l’estate e, in tutto questo lasso di tempo, la professoressa non sembrava essersi ancora accorta di me.
Poi aprì il registro per fare l’appello.
«Oh, qui leggo che abbiamo un nuovo arrivato. Harry Styles» osservò, cercandomi con lo sguardo.
Nuovo arrivato. Odiavo quel soprannome che sicuramente mi avrebbero affibbiato per un bel po’ di tempo, prima che si abituassero alla mia presenza.
Più di venticinque teste si girarono verso di me, e avrei voluto solo sotterrarmi.
«Da dove vieni, Harry?» mi chiese l’anziana donna, sorridendo docilmente.
«Da Holmes Chapel» risposi, piuttosto a bassa voce.
«Bella Holmes Chapel, ci sono stata parecchie volte. Da quanto tempo sei qui?»
Mi stava facendo troppe domane, e la cosa mi innervosiva.
«Da poche settimane.»
«Bene, suppongo che tu non conosca questa scuola. Visto che sei seduto vicino al nostro caro Niall, direi che lui ti può fare da guida. Dico bene, Niall?»
Il biondino sorrise e annuì energicamente, alzandomi il pollice verso l’alto.
Intanto gli sguardi su di me si facevano sempre più insistenti e io non riuscivo ad essere completamente a mio agio.
La professoressa fece l’appello e, memore delle parole della segretaria, stetti attento per vedere se c’era qualcuno che si chiamava Louis.
«Louis Tomlinson» chiamò quasi alla fine dell’appello, e mi girai verso di lui.
Fui sorpreso nello scoprire che il ragazzo in questione era su una sedia a rotelle. Capii che era lui il nipote della segretaria perché avevano gli stessi occhi azzurri e lo stesso sorriso smagliante e contagioso.

  
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