Film > I fantastici quattro
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Autore: Artemis Black    16/01/2013    1 recensioni
"Io sono figlia del ghiaccio: pelle candida, capelli corvini e occhi di ghiaccio.
Il mio tocco può congelare la vita, preservarla o ucciderla.
Era un giorno qualsiasi della mia vita, quando tutto cambiò. Quando tutto si fece freddo e azzurro. [...]
Dicono che la vendetta non serve a niente. Si sbagliano, o almeno chi lo dice non ha mai passato un inferno come il mio. Non sanno che quando ti viene portato via tutto, la rabbia dentro di te cresce fino ad esplodere. Non sanno che quando si vede la paura, che si ha provato, riflettere negli occhi del vostro aguzzino, un brivido di euforia percorre il tuo corpo e ne nutre l’anima, lacerandola.
La vendetta serve a far capire chi ha vinto veramente."
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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ADDIO.


But I’ll never survive with Dead Memories in my heart.
Dead Visions in your Name.
Dead Fingers in my Veins.

 

 “Verrai affiancata da un agente per adesso, che ti aiuterà ad ambientarti e ti aiuterà nell’addestramento. Ah, eccolo! Evelyn ti presento l’agente Coulson.” Disse Fury.
Era un uomo sulla trentina, stempiato ma con un sorriso amichevole stampato sul viso. Era poco più alto di me e indossava un completo nero con cravatta azzurra.
“Puoi chiamarmi Phil.” Disse mentre mi stringeva la mano.
“E tu puoi chiamarmi Evy.” Dissi.
Mi fu affiancato per oltre un mese, nel quale imparai molte cose sullo SHIELD e lo cominciai a considerare la mia seconda casa.
Ogni agente dentro il dipartimento aveva una storia dietro di sé e spesso non era delle migliori. Molti erano orfani dei genitori, altri avevano commesso gravi sbagli e avevano infranto la legge, altri come me, avevano una nota rossa sul loro registro.
Natasha Romanoff era uno di questi: sapevo poco di lei, come lei sapeva poco di me. Era nata in Russia ed era stata spia della Mano, una setta di mercenari, fino a quando l’agente Clint Barton non la salvò, invece di ucciderla come gli era stato ordinato da Fury.
Ci fidavamo l’un l’altra. L’avevo conosciuta durante gli allenamenti serrati in palestra: era brava a menare ed era agile come una pantera. Più di una volta ci siamo allenate sul ring insieme e poi, quando Fury le ordinò di farmi da “maestra” ed insegnarmi le basi del mestiere da spia.
Oltre a Coulson, che mi impartiva lezioni di tecnologia avanzata e di burocrazia, Natasha mi insegnò a lavorare sul campo, in prima persona.
L’inverno era ormai prossimo alla fine come il mio addestramento: un mese e mezzo rinchiusa nella base operativa a prepararmi e finalmente ero pronta. Le uniche volte che uscivo dalla base era per andare a trovare mia nonna e per andare a dormire al Baxter Building.
Il rapporto con Reed e Sue migliorò, tanto da aver permesso loro di poter studiare il mio DNA e scoprire se le mie mutazioni potevano essere vagamente uguali alle loro.
Con Johnny invece, non c’era più alcun rapporto.
La sera rientravo e mi mettevo a dormire sul divano, mentre lui era già chiuso nella sua stanza. Anche se eravamo nello stesso edificio, non ci vedemmo per circa un mese.
All’inizio la presi molto male, poi repressi qualsiasi sentimento non richiesto, futile e imbarazzante: in poche parole, il mio cuore tornò ad essere protetto da una solida barriera.
 
“Agente Smith.” Mi salutò Natasha, entrando nello spogliatoio femminile.
“Agente Romanoff, oggi finalmente avrò la mia divisa.” Dissi, cercando di tenere un tono neutrale. Le sventolai la tuta davanti gli occhi. Le inarcò un sopracciglio e con gli angoli delle labbra mimò un sorriso.
“Bene! Fury ti vuole vedere sul ponte di comando.” Mi disse, prima di uscire.
Una volta indossata la tuta aderente, mi osservai allo specchio per qualche secondo. Se Natasha mostrava un fisico formoso e perfettamente modellato, il mio era asciutto e tonico come quello di una modella. Misi gli anfibi neri e poi, per dare un mio personale tocco, indossai la mia giacca di pelle rossa.
Uscii dallo spogliatoio dirigendomi sul ponte. Quando arrivai, c’erano gli agenti Coulson, Barton e Romanoff seduti attorno la scrivania e l’agente Hill in piedi affianco a Fury, intento a lavorare su uno schermo touch sulla scrivania.
“Agente Smith, ben arrivata. Si accomodi, ho delle importanti notizie da dare.” Mi disse Fury.
Coulson diede un’occhiata fugace al mio abbigliamento e mi annuì, orgoglioso del lavoro ben svolto con me.
Mi sedetti vicino Natasha e prestai attenzione a ciò che stava per dire Nick.
“Ci sono stati altri due avvistamenti in questo mese di burattini d’argilla, ma nessuno attacco alla popolazione. Hanno tenuto un profilo basso fino a scomparire dai nostri radar.” Disse.
“Burattini d’argilla?!” chiesi.
“Sono i mostri che ti hanno attaccato per ben due volte. Il professor Reed ha analizzato il loro DNA ed è saltato fuori che sono dei burattini d’argilla telecomandati da qualcuno.” Aggiunse.
“Ah…” sospirai.
Fury diede altre informazioni, ma la mia testa vagava altrove, riportandomi all’ultimo scontro con uno di quei burattini. Mi era sembrato che dicesse qualcosa, oltre ai ruggiti disumani. Un’imprecazioni a dir poco ortodossa e poi una frase, ma non riuscivo a ricordarla.
“Evelyn?” mi richiamò all’attenzione Fury.
“Ehm, si. Scusi, è che sto cercando di ricordare una cosa… uno di quei burattini, sembra assurdo, ma mi aveva detto qualcosa.” Dissi.
“Cosa?” chiese Barton curioso.
“Qualcosa come -Brutta puttana te la farò pagare.-” dissi.
“Mmm, wow.” Aggiunse Natasha.
Eppure io ricordavo di aver sentito anche altro, ma proprio non riuscivo a ricordarlo.
“Bene, questo è tutto per adesso. Potete andare, siate sempre reperibili! Mi raccomando.” Disse Fury prima di liquidarci.
Non avevo nessun incarico, mentre gli altri avevano altre mansioni da svolgere.
“Goditi quest’ultimo tempo libero, Smith!” mi disse Coulson, prima di andarsene.
Mi diressi verso la mia moto e me ne andai dal quartier generale. La mattinata la passai girovagando sulla costa, mangiando un panino in un chiosco vicino la spiaggia, poi mi diressi verso il Baxter Building. Erano le 17 quando arrivai, l’ora in cui erano tutti impegnati in qualcosa.
Momento perfetto per prendere le mie cose e andarmene. Sarei passata poi da Sue e Reed per avvertirli. Ci avevo pensato tutta la mattinata ed ero arrivata alla conclusione che in quella casa ero solo d’impiccio.
Parcheggiai la moto nel garage sotterraneo e salii con l'ascensore fino all'ultimo piano. Speravo di non incontrare Johnny, ed invece quando le porte dell'abitacolo si aprirono me lo ritrovai davanti... Avvinghiato ad una roscia alta e snella, con due gambe lunghissime ed un seno prosperoso mentre si scambiavano effusioni passionali. La situazione si presentava più imbarazzante di quello che mi sarei aspettata. Quando i due finalmente mi notarono, la roscia entrò nell'ascensore agitando la mano con le unghie laccate di nero per salutare Johnny. Lo sorpassai senza neanche degnarlo di uno sguardo ed andai in camera a prendere le mie cose più convinta che mai. Sul letto sembrava essere passato un uragano e la stessa cosa valeva per la stanza intera. Aprii il cassetto con le mie cose e poggiai lo zaino a terra e cominciai a riempirlo con i miei vestiti. Johnny si fermò sull'uscio con le braccia incrociate sul petto nudo.
"Te ne vai?" Mi chiese.
"No, metto i miei vestiti nello zaino perché mi va!" Risposi sarcastica.
Lui sbuffò e se ne andò.
Una volta finito di riporre i panni nello zaino, passai in bagno a prendere il mio spazzolino e il mio beauty case. Johnny riapparve in camera e mi si stagliò davanti, impedendomi di uscire dal bagno.
"Puoi rimanere, nessuno ti ha chiesto di andartene." Disse.
"Ma io mi sento di troppo, quindi me ne vado." Dissi, scansandolo per passare. In una frazione di secondo toccai la sua pelle nuda e un brivido mi percosse la schiena. Scossi la testa e tornai lucida e fredda.
Misi le ultime cose nello zaino e lo chiusi.
"Sei un'agente dello SHIELD adesso, me lo ha detto Reed." disse.
"Già..." Risposi.
"Mi spiace." Le sue parole arrivarono di botto, colpendomi in pieno e facendomi sgranare gli occhi. Mi alzai e lo guardai sbalordita.
"Sai cosa significa veramente la parola scusa?!" Gli chiesi " perché mi sembra che tu la usi come parola magica che mette tutto apposto in un secondo. Invece non è così! Dopo le scuse ci sono i fatti, cosa che tu ignori completamente!" Conclusi.
Il suo volto si indurì e si mise sulle difensive.
"E che dovrei fare? Mandarti un mazzo di rose? Portarti a cena fuori?" Mi urlò contro aprendo le braccia.
"Tu non sai cosa significa amare o prendersi cura di qualcuno!" Gli risposi urlando contro.
"Perché tu si? Non mi pare che tu ti sia presa cura dei tuoi amici!" Disse.
Non avrebbe dovuto dirlo. Mi sentii squarciare, sentivo ogni muscolo dolermi e le forze che mi mancavano. La sua faccia cambiò espressione quando si accorse di quello che aveva appena detto.
"Scusa io non avrei dovuto... Io..."
Alzai una mano in aria e mi voltai per prendere lo zaino, quando mi prese per un braccio e mi giró a se per baciarmi. Una lacrima solcò il mio viso e impregnò le labbra di entrambi.
Era un bacio  salato e doloroso come un coltello che si spinge in profondità per ferire ancora di più. Picchiai con i pugni sul suo petto, ma lui li prese tra le sue mani, placandomi. Eppure un impeto di rabbia mi diede la forza di respingerlo e buttarlo sul letto. Presi lo zaino e me ne andai sbattendo la porta dietro di me.
 
Spingevo la moto al massimo, sfrecciando tra le macchine e passando oltre ingorghi di automobili. Pensavo che l'adrenalina avrebbe assopito il dolore, che lo avrebbe anestetizzato invece sembrava ampliarlo. La rabbia e la frustrazione mi offuscavano la vista, tanto da impedirmi di vedere la strada.
Imboccai la strada per andare da mia nonna e per pico non presi una macchina. Scesi e mi lanciai contro la porta d'ingresso. Mi asciugai frettolosamente le lacrime ed entrai.
"Nonna! Nonna!" La chiamai a gran voce, ma in casa non c'era nessuno.
Probabilmente era a fare la spesa o magari era dalla vicina. Uscii fuori e bussai alla porta di Odette, una simpatica vecchietta con i capelli tutti bianchi mi aprì la porta. Mi disse che mia nonna non era da lei. Tornai a casa e cominciai seriamente a preoccuparmi.
Presi il telefono e la chiamai al suo cellulare, che aveva lasciato sul tavolino dell'ingresso. Strano, ogni volta che usciva lo portava con se.
Andai a controllare in camera sua e poi nel giardino sul retro. L'immondizia era ancora dentro i bidoni e il prato non era ancora stato tagliato. Qualcosa attirò la mia attenzione: vicino al cancelletto il prato era stato smussato e rivoltato e un qualcosa di marrone scuro lo impregnava. Mi avvicinai e mi accorsi con orrore che non era terra: era argilla.
Presi il telefono e chiamai all'istante Fury, mentre mi dirigevo velocemente alla moto.
"L'hanno presa!" Gli urlai.
"Chi hanno preso?" Mi chiese.
"Mia nonna! Hanno rapito mia nonna!" Gli urlai. Poi attaccai e saltai in moto.  Mi diressi dove la prima volta vidi uno di quei mostri, nel vicolo e poi nelle fognature, convinta che li ci fosse qualche tipo di ritrovo. Lasciai la moto e scesi frettolosamente nel tombino. Mi feci luce con una torcia e cominciai a perlustrare le fogne. L'unica cosa a cui pensavo in quel momento era mia nonna: dovevo trovarla, portarla al sicuro e uccidere quei mostri. Guardavo freneticamente a destra e sinistra, in cerca di qualcosa.
Il telefono non prendeva e la torcia cominciò a scaricarsi. Non mi sarei fermata per nulla al mondo e continuai a girovagare per le fogne di Manhattan. Trovai alcune tracce di argilla e le seguii. Mi addentravo sempre di più in quei cunicoli, fino a  quando notai una figura nascosta nell'ombra e scattai  in avanti: era uno di quei burattini.
Lo attaccai alle spalle e poi alla gola. Una stalattite di ghiaccio si formò rapidamente nella mia mano destra e con quella gli staccai completamente la testa con un taglio netto.
Proseguii in quella direzione, fino a ritrovarmi in un grande incrocio di cunicoli che ospitava all'incirca 10 di quei mostro d'argilla. Alla mia destra, in una parte rialzata del marciapiede, c'era un signore stempiato, con pochi capelli grigi e un camice bianco indossato sopra a dei jeans. Era di spalle e parlava a qualcuno, che io non riuscivo a vedere, rivolgendosi con uno sguardo paurosamente malefico e esaltato.
Uno dei mostri mi vide e il suo urlo gutturale riecheggiò in tutti i cunicoli. Quella specie di dottore pazzo si girò verso di me e mi guardò in modo sadico. Urlò qualcosa ai mostri e li vidi scagliarsi contro di me. Riuscii a premere il pulsante del dispositivo GPS di localizzazione appena in tempo. In poche parole avevo lanciato un segnale d'allarme allo SHIELD.
Scartai di lato schivando due mostri d’argilla e parai un colpo con lo scudo di ghiaccio. Il colpo era stato così forte da dovermi inginocchiare per reggere. Mi rialzai velocemente e scartai a destra per evitare un mega pugno da uno di quei mostri. Due stalattiti si formarono nelle mie mani e le usai come spade taglienti per allontanarli da me. Stavano per circondarmi quando un debole grido attirò la mia attenzione e riuscii a scappare dalle grinfie di quei burattini e raggiungere la parte sopra elevata. Con una bufera di ghiaccio scaturita dalle mie mani, allontanai il professore pazzo e mi voltai verso la persone con cui stava parlando: mia nonna.
“Nonna!” urlai disperata.
Mi lanciai accanto a lei e la tenni tra le mie braccia. I mostri si avvicinavano ma non mi importava.
Aveva visibili ferite sul volto e sulle braccia e anche qualche livido violaceo. Le lacrime cominciarono a pizzicarmi gli occhi.
“Nonna… Come stai?” le chiesi.
Lei tossì per poi sorridermi debolmente, mentre io sentivo il mondo cadermi sulle spalle. Non potevo perderla, era l’unica cosa che mi era rimasta. L’unico motivo per cui vivere.
“Evy, cara…” disse a bassa voce.
“Sshh nonna, ti porto via da qui!” le dissi mentre l’alzavo da terra per caricarmela sulle spalle.
“No… non ce la… faccio.” Disse con voce flebile.
“No, tu ce la fai! Sei forte!” le dissi accarezzandole la guancia.
Allontanai uno di quei mostri con una sferzata di schegge di ghiaccio. Vidi lo stupore negli occhi di mia nonna, ma non l’orrore che avevo visto in altre persone che mi avevano visto utilizzare i miei poteri.
“Tu sei forte. Ce la farai…” disse.
“Non dire così, non posso perderti. No!” dissi.
Le mie guance si stavano rigando di lacrime calde e sofferenti.
La tenni stretta a me e inspirai il suo profumo alla vaniglia, quello che mi era sempre piaciuto e che aleggiava in tutta la casa.
“No, no…” continuai a ripetere.
“Va bene così. Ricordati che ti voglio bene così come sei, mio piccolo tesoro.” Disse a fatica.
“Nonna! Anche io ti voglio bene…” dissi, tirando su con il naso.
Mi sentii prendere alle spalle ed essere trascinata lontano da mia nonna. Mi divincolai e cercai di liberarmi da quella morsa, ma niente. Era il professore e mi teneva stretta, con un braccio intorno al collo.
“Stronzetta, è quello che ti meriti!” mi disse a denti stretti.
Poi qualcosa accade.
Qualcosa che annebbiò la mia vista, che provocò un’ondata di lacrime miste ad una rabbia pura e violenta… si scatenò nel mio petto ed inondò tutto il mio corpo. Sentivo i miei muscoli tremare, i denti serrarsi e poi schiudersi per far uscire  l’urlo disperato di una ragazza ormai sola al mondo.
 
Un colpo di pistola.
Uno solo.
Ed una vita si spezzò.
Sentii il dottore mollarmi e urlare qualcosa ai suoi mostri, sentivo l’aria spostarsi accanto a me, probabilmente stavano arrivando gli agenti dello SHIELD e se la stavano dando a gambe.
Caddi sulle mie ginocchia mentre i miei occhi erano fissi nei suoi: si erano chiusi per sempre.
Le braccia a penzoloni con le mani chiuse a pugno, i sentimenti che abbandonavano la mia anima ormai a pezzi e il dolore così forte da non riuscire neanche ad esprimerlo attraverso le lacrime o qualche grido. Troppo dolore ti portava via qualsiasi espressione sul volto.
Sentii altri spari, riconobbi la figura di Fury stagliarsi affianco a me e poi andare verso mia nonna per sentire il suo polso. Si voltò verso di me e interdetto, scosse lievemente la testa.
Abbassai lo sguardo sulle mie ginocchia, poi mi alzai e mi avvicinai al corpo inerme. Le diedi un bacio, carico di sofferenza, sulla fronte poi arrancando con le gambe me ne andai. Vidi di sfuggita Barton cercare di avvicinarsi a me, ma Natasha lo trattenne.
Percorsi a ritroso le fognature e salii in superficie.
Era ormai buio e il tempo era peggiorato, tanto da piovere. Lasciai la moto lì dov’era e cominciai a camminare senza meta fino a quando non sentii un moto interiore che mi spinse a correre, correre fino a quando non mi avrebbero ceduto le gambe. E lo fecero: caddi a carponi sul molo di un porto, il fiato corto e il sudore che impregnava la mia fronte.
Le lacrime cominciarono a scorrere silenziose… poi gridai.
Cercai di ridare tutta la mia frustrazione, il mio dolore e la mia sofferenza.
Fino a rendermi conto che oramai ero sola al mondo.

 

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Buonasera :)
Non voglio commentare questo capitolo perchè semplicemente non ci cose da chiarire, ecco.
Una cosa vi chiedo, fatemi sapere se vi ha trasmesso qualcosa, se l'ho scritto bene. Quindi vi supplico di lasciare una recensione per quietare il mio animo che mi dice di aver fatto una cazzata.
La citazione è tratta da Dead Memories dei Slipknot.
A presto,
Artemis.

P.S: scusate per il ritardo! :S


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