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Autore: Wavy13    16/01/2013    2 recensioni
John, era, e poteva dirlo con sicurezza, il miglior uomo che avesse mai incontrato in tutta la sua vita, e a dire il vero non si capacitava di come nessuna donna l’avesse mai fatto suo.
Era questo uno dei motivi per cui detestava il genere femminile: le donne, e aveva potuto constatarlo dai diversi omicidi su cui aveva indagato, avevano una particolare tendenza a cercare individui violenti, insensibili ed egoisti, storie d’amore complicate e burrascose e finivano sempre per cacciarsi in situazioni difficili e contorte. Se ne chiese il motivo ma non seppe darsi una risposta.
Ma come facevano a non notare uno come John?
Questa volta, suo malgrado, tocca a Sherlock aiutare il suo coinquilino.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I cerotti, almeno.




Sherlock scaraventò con violenza la tazza sporca di tè nel lavandino. Era la terza che beveva, in un’ora. Lavorava su quel caso ormai da due giorni ininterrottamente e non riusciva a trovare uno sbocco. Anche i suoi cari cerotti alla nicotina parevano averlo abbandonato, nonostante ne avesse raddoppiato la dose, per sicurezza. Quel pomeriggio in particolare era stato sfiancante. Aveva pensato e ripensato alla scena del crimine, alle prove a loro disposizione e al cadavere per cinque ore buone. Gli tremavano le mani, aveva mal di testa e si sentiva terribilmente accaldato. Si tastò la fronte; completamente madida di sudore. Odiava ammetterlo ma aveva bisogno di una pausa; si sedette sulla poltrona per alcuni istanti, ma solo per svuotare la mente e prendere la rapida decisione di rialzarsi e di andare in bagno a sciacquarsi la faccia.

Girò il pomello e spinse la porta, che però picchiò contro qualcosa, producendo un sordo “tunc”. Sherlock avanzò con la testa nella stanza e osservò il pavimento dietro alla porta in cerca dell’ostacolo, trovando così un paio di  scarpe marroni da cui emergevano i due rispettivi calzini neri.Fu in quel momento che Sherlock ricordò di avere un coinquilino.
Gli capitava spesso di dimenticarsi di John quando era così preso dai suoi casi; inoltre il suo collega non era certo un individuo esuberante e indisponente, perciò non si faceva notare più di tanto. Immaginò che dopo tutto gli facesse piacere essere dimenticato qualche volta. Ma su questo non era poi tanto sicuro.

Riportato alla realtà dalle scarpe, Sherlock volse lo sguardo al resto del bagno, che fino ad allora aveva ignorato. John era appoggiato al muro di fronte allo specchio, a petto nudo - notò allora il maglione e la camicia abbandonati sul lavandino -  con lo sguardo fisso sulla propria immagine riflessa. Si chiese se l’avesse sentito entrare, ma le iridi blu di John non si erano staccate dallo specchio neppure per un istante, anche se ormai era chiaro che il suo sguardo malinconico non era rivolto alla superficie di vetro. I suoi occhi erano persi ne vuoto, intenti a contemplare qualcosa di molto lontano, sia da Sherlock che da tutta Londra.
Sherlock approfittò della sua distrazione per osservarlo meglio; si era infatti reso conto che quella era la prima volta da quando si erano conosciuti, che poteva vedere il suo corpo senza il filtro dei suoi abituali strati di camicie e maglioni. Non aveva un fisico particolarmente allenato, ma immaginò che questo fosse dovuto al suo lungo periodo di congedo dall’esercito, e per altro se n’era già accorto durante le loro sfrenate corse per le strade di Londra, quando il medico restava sempre indietro.  Ma il servizio militare aveva lasciato molti segni sul suo corpo, e Sherlock non poté non notarli: portava ancora al collo, quasi come una reliquia, il medaglione d’acciaio con inciso il proprio nome;  i bicipiti piuttosto sviluppati gli suggerirono l’immagine di John intento a portare barelle e uomini feriti; la pelle, a tratti ancora abbronzata, era incorniciata da diverse cicatrici, tra cui la più vistosa quella alla spalla, e qualche ematoma – che però riconducevano facilmente alle loro più recenti avventure - ; non poteva controllare le gambe, perché aveva ancora i jeans indosso, ma immaginò fossero nello stesso stato; i piedi, in particolare le dita presentavano qualche piccola area più rossa e qualche callo, in probabile memoria di numerose e fastidiose vesciche. Ciò che colpì di più Sherlock fu però il portamento dell’amico: il suo sguardo era triste e distante, ma nullo di ciò traspariva dal suo corpo: il petto alto e le spalle dritte trasmettevano un tale senso di fierezza e orgoglio che per qualche istante Sherlock ,seppur più alto di John, si sentì infinitamente più piccolo dell’amico.

“Che cosa stai facendo?”
La domanda pronunciata dalla bocca di Sherlock aveva assunto un tono vagamente meccanico che non rifletteva bene i suoi reali sentimenti. Era un po’ preoccupato per lui, anche se non lo ammetteva neppure a se stesso; del resto era una sensazione che non provava quasi mai, e quindi non avrebbe saputo interpretarla. Il suo coinquilino comunque costituiva un’eccezione; a pensarci bene, John era la più grande eccezione della sua vita.  Capiva bene anche lui, apatico cronico che se durante la sua esistenza doveva trattare qualcuno in modo diverso, come se fosse un suo pari, con umanità, tolleranza, comprensione e, perché no, gentilezza, quello era proprio John. Il suo coinquilino. Il suo assistente. Il suo unico migliore e insostituibile vero amico.

La risposta di John impiegò un po’ ad arrivare.
-Penso.-
-E questa è già una bella cosa.- Gentilezza, sì. Ma Sherlock rimane sempre Sherlock. John comunque lo ignorò e si perse ancora nei suoi pensieri.
-Non c’è nulla che mi renda più felice che saperti a riflettere su qualcosa. Tuttavia mi chiedo se sia il bagno il posto migliore per farlo. Perché proprio qui?-
-Ero venuto a fare la doccia, almeno mezz’ora fa. Ti avevo avvisato, ma del resto non mi aspetto che tu mi ascolti quando ti parlo.-
-Sono felice che tu abbia abbandonato questa pretesa.-  Rispose Sherlock non recependo il sarcasmo.
-Comunque, dato che credo sia mia dovere di amico chiedertelo, a che pensavi?-
Le labbra di John emisero un sospiro.
-A nulla…-
-Dubito che il nulla abbia potuto trattenerti davanti allo specchio per mezz’ora. Io personalmente mi stancherei di non pensare a niente già solo dopo un minuto.-
-Forse hai ragione.-
-Questo è certo. A che pensavi allora?-
-A me, alla mia vita.-
-Cosa intendi?-
-Sai com’è, mi stavo preparando per fare la doccia. Ma poi mi sono visto allo specchio e… beh mi sono chiesto che senso abbia.-
-Cosa?-
-Tutto! Io, la mia vita… è da quando ho rimesso il piede in Inghilterra che la mia vita… insomma, cosa sto facendo? Non ho genitori, ho una sorella che forse sarebbe meglio non esistesse, uno squallido lavoro in ambulatorio e… e non ho nessuno, una fidanzata, intendo. E dire che da ragazzo il mio più grande desiderio era quello di una famiglia. Sei tu in questo momento la cosa più simile che ho ad una famiglia… forse dovrei pensare da cristiano, ed essere grato per quello che ho… ma non ce la faccio. Ho sofferto troppo in vita mia per poi vedermi strappato via quel poco che avevo… o forse mi sbaglio e non ho mai avuto nulla. Per questo la guerra mi manca. Sul campo di battaglia, lì, mentre soccorri un ferito, capisci di essere importante, almeno per un istante, almeno per quella povera anima in fin di vita.-

Sherlock era turbato. Non aveva mai pensato che quell’ometto potesse avere così tanto dolore dentro. Ma ciò che lo faceva soffrire di più era non poterlo capire. Sentiva tutta la sua frustrazione ma non lo capiva davvero fino in fondo. Lui aveva deciso da sé di allontanare gli altri da se stesso, quindi la cosa non lo faceva soffrire. Ma John non aveva potuto scegliere.
-Non è vero che non sei importante. Tu per me sei importante, sei il miglior assistente che abbia mai avuto.-  John non mutò espressione. Sherlock capì di aver toccato le corde sbagliate.
-Beh, se il problema riguarda l’assenza di una relazione…- John deglutì. Quello era la corda giusta-… non mi pare irrimediabile. Voglio dire, non me ne intendo ma sento sempre dire “l’amore è dietro l’angolo” o idiozie simili, qualcosa vorrà dire! E comunque statisticamente sono davvero pochi coloro che alla fine della vita non sono riusciti a instaurare neppure un rapporto amoroso stabile. Per di più molti di quelli che non ci riescono hanno deciso spontaneamente di disinteressarsi alla famiglia. E poi – aggiunse, cercando le parole adatte - nonostante non sia molto ferrato in materia ritengo che molte donne ti troverebbero… attraente.- compì uno sforzo enorme per pronunciare le ultime parole. Non era proprio il tipo da simili melensaggini. Ma, lo sapeva, John era l’eccezione.
John non rispose, ma i suoi lineamenti si rilassarono. “Non è disperato. Ha solo bisogno che qualcuno ogni tanto sia accanto a lui per fargli coraggio. Forse sono questo per lui. Il bastone della sua vecchiaia. No, della sua vita. Almeno fino a quando non troverà qualcuno. Sì. Sono qui per questo. E finché ne avrà bisogno io ci sarò.”

-E comunque- sorrise –se il tuo problema è il fatto di non avere una fidanzata, non preoccuparti. Se resti qui in bagno seminudo ancora per un po’ la signora Hudson potrebbe entrare e innamorarsi di te all’istante!-
Scoppiarono entrambi in una fragorosa risata.
-Ahahah! Hai ragione! E quello sì sarebbe un problema!-
-Avanti! Fatti una doccia e vieni di là, non riesco a trovare un collegamento tra la vittima e l’assassino, devi darmi una mano.-
-D’accordo. Dammi tempo venti minuti.-
-Troppo. Massimo un quarto d’ora.-
John sospirò –Ok, come vuoi…-
Sherlock se ne andò chiudendo la porta, soddisfatto.
 
Ripensò alla discussione. All’ultima battuta. Lui l’aveva detta per tirare su di morale l’amico, ma si rendeva ora conto che era davvero convinto di ciò che gli aveva detto. Beh, certo non della signora Hudson, o quantomeno sperava che la freccia di Cupido con su scritto il nome di John non colpisse proprio lei, fra tutte le donne di Londra. Ma del resto era convinto. John, era, e poteva dirlo con sicurezza, il miglior uomo che avesse mai incontrato in tutta la sua vita, e a dire il vero non si capacitava di come nessuna donna l’avesse mai fatto suo. Era questo uno dei motivi per cui detestava il genere femminile: le donne, e aveva potuto constatarlo dai diversi omicidi su cui aveva indagato, avevano una particolare tendenza a cercare individui violenti, insensibili ed egoisti, storie d’amore complicate e burrascose e  finivano sempre per cacciarsi in situazioni difficili e contorte. Se ne chiese il motivo ma non seppe darsi una risposta. Ma come facevano a non notare uno come John? Eppure da un punto di vista femminile presentava diverse attrattive; era onesto, leale e coraggioso; anche fisicamente non era male, forse era un po’ bassino e con il naso un po’ lungo, ma quei luminosi occhi blu riparavano a ogni difetto. Sul vestiario conveniva forse calare un velo pietoso, – era sicuro che alcune delle sue notti in bianco fossero state dovute alla vista di quegli orribili pullover o a quei cardigan che amava tanto indossare il suo coinquilino – ma non era poi qualcosa di irrimediabile. Si stava davvero arrabbiando. Accidenti! Il suo amico meritava la migliore donna del mondo!
Ma poi il suo umore cambiò; ma che stava dicendo? Doveva solo ringraziare se una meretrice qualunque non gli aveva ancora portato via il suo migliore amico. Voleva averlo per sé ancora per un po’. Egoista? Forse, anzi sicuramente. Ma di amico vero in più di trent’anni di vita ne aveva trovato solo uno. Che durasse a lungo.
 
-John! Hai finito di fare la doccia? Ho bisogno di un tè e non si farà certo da solo! –
Ignorò il sonoro “VAFFANCULO” che si levò dal bagno e si mise a sedere sulla poltrona, per tornare a riflettere sul caso. Non prima però di aver preso la scatola dei cerotti alla nicotina e di essersene attaccati altri due sul braccio. L’importante in fondo è non perdere mai la fiducia. Almeno nei cerotti.
  
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