Quella sera, dopo aver finito di studiare e saltellare per la casa in preda ad un’incontenibile frenesia, Chiara si era piazzata sul suo letto a fissare il soffitto, spegnendo la luce e mettendo la sua stazione radio preferita in sottofondo, come faceva sempre ,quando era felice. Sentiva il cuore in gola ogni volta che pensava a cos’era successo quella mattina e la strana sensazione di stretta allo stomaco l’aveva accompagnata per tutta la giornata, mentre studiava letteratura inglese e si lavava i denti dopo cena, persino mentre sua madre le intimava per la terza volta di sistemare la camera. Era come se qualcosa nella sua testa, qualcosa di terribilmente opprimente, l’avesse appena abbandonata e le emozioni che in quegli anni aveva gelosamente tenuto per sé fossero esplose tutte nell’istante di quel bacio. Prese una boccata d’aria fresca,accostandosi alla finestra aperta, e represse a stento un sorriso, mordendosi le labbra per non scoppiare in una di quelle risatine tremendamente melense. Credeva che tutto quello che le sue amiche dicessero sull’amore, quelle belle sensazioni che tutte le adolescenti tanto agognavano, non fossero altro che stupidi clichè triti e ritriti in tutti i romanzetti rosa che si rispettino. Ma no, mentre si portava le mani dietro la nuca e assumeva una delle espressioni più beate in volto, stendendosi sul letto, pensò che forse qualcosa di vero c’era. Gettò un’occhiata al cielo stellato che si intravedeva per un pezzo dalla finestra, limpido e rassicurante come a promettere una bella stagione, e si rilassò al suono di una canzone d’amore degli anni sessanta. L’atmosfera era perfetta, così rarefatta e irreale che a Chiara sembrò di non essere più la stessa persona di quella mattina. Come se quella parte di se stessa, quella ansiosa e calcolata, quella maniaca del controllo e stacanovista, sempre segretamente triste e sola, fosse solo un ricordo. Si sentiva incredibilmente viva, con la pelle delle gambe e braccia lasciata scoperta dai pantaloncini lievemente carezzata dal vento e le dita che ancora le formicolavano per l’elettricità trasmessale dalle labbra di Roberta. Dopo il bacio, si erano guardate e la riccia l’aveva salutata con un sorriso così luminoso e dolce in volto, che se mai aveva avuto dei dubbi sulla moralità o meno della cosa, Chiara li aveva totalmente rimossi.
-Spegni lo stereo, darlin’, è tardi-
Margaret aprì delicatamente la porta della sua stanza, per poi sederle accanto. Chiara le rivolse un sorrisino e, senza protestare, si alzò per spegnere l’impianto stereo.
-Caspita, devo essere particolarmente convincente oggi per farti andare a dormire prima dell’una di notte- ridacchiò la madre, fissandola con uno scintillio consapevole negli occhi. Chiara sperò che non avesse notato il suo improvviso cambiamento d’umore.
-… oppure devi essere tu particolarmente malleabile. Ti vedo bene- continuò la donna, battendo una mano sul suo letto, invitandola a sedersi vicino a lei.
- Sto bene, si- ammise Chiara con una smorfia adorabile, arricciando il naso per non scoppiare in una risatina isterica. Margaret le rivolse uno sguardo interrogativo.
- Qualche novità?-
- Come al solito, mamma, solo… adoro la primavera, è una bellissima stagione. E’ la rinascita della natura, persino le stelle sembrano più luminose- sospirò quasi estatica, fissando assorta le stelle fuori dalla finestra.
- Lo so, lo dici ogni anno. E poi di solito mi racconti quel mito, quello di Proserpina- le fece notare Margaret, fissando anch’ella il cielo blu notte.
- Ma quel mito è molto triste, mamma. Quest’anno voglio raccontartene un altro- mormorò Chiara, ricordando che ogni volta che aveva narrato con passione il mito di Proserpina a sua madre non aveva potuto fare a meno di pensare di assomigliarle. Presa prigioniera e trascinata nella parte sua più buia e fredda, rapitrice di sé stessa, lontana dal calore degli altri, come la figlia di Demetra presa prigioniera da Ade.
- E quale vuoi raccontarmi?-
- Il mito di Andromeda- sorrise Chiara.
- Andromeda? Quella salvata da Perseo?-
- Si, mamma, proprio lei-
- Su, vai allora, ti ascolto- la esortò sua madre, accomodandosi meglio sul letto. Chiara prese un po’ di fiato, per poi cominciare col suo racconto, con voce fluida e melodiosa.
- Andromeda era una principessa, figlia dei sovrani dell’Etiopia. Sua madre, per aver osato dire che lei era più seducente persino delle Nereidi, incappò nell’ira di Poseidone, che mandò sulle coste dell’Etiopia un terribile mostro per vendicare l’onore delle sue figlie. Il re consultò l’oracolo di Ammone, in cerca di un modo per sconfiggere la terribile creatura marina, ma il dio gli disse che l’unica via era quella di sacrificare la sua bella figlia vergine, Andromeda. Rassegnata, la triste principessa fu incatenata su uno scoglio in attesa di essere divorata, ma proprio quando stava per perdere tutte le speranze e gettarsi nella più nera disperazione, arrivò Perseo- quasi sospirò l’ultima parte, sorridendo impercettibilmente.
- E cosa successe? Su, non fermarti sul più bello, sembri incantata- la prese in giro sua madre, punzecchiandola. Era bello stare così, insieme con sua madre, senza tensioni, come quando era bambina e invece di farsi raccontare le fiabe, preferiva leggerle lei a Margaret.
- Perseo aveva capito che c’era un altro modo per
sconfiggere il mostro, la testa della Gorgone Medusa. Si dice addirittura che in un primo momento scambiò Andromeda
per una statua di marmo, tanto era inerme. Ma il vento che le scompigliava i
capelli e le calde lacrime che le scorrevano sulle guance gli rivelarono la sua
natura umana. Perseo le chiese come si chiamasse, perché fosse lì incatenata.
Andromeda, completamente diversa dalla sua vanitosa madre, neanche gli rispose
e anche se l'attendeva una morte orribile fra le fauci bavose del mostro,
avrebbe preferito nascondere il viso tra le mani,se non le avesse avute
incatenate a quella roccia. Ma Perseo uccise la creatura senza remore,
pietrificandola, salvò la fanciulla e la portò via al sicuro, fra le sue
braccia- concluse con un’alzata di spalle, come se il finale fosse scontato. Margaret
fece una risatina.
- E’ un bel mito,
come mai lo hai scelto?-
-Perché ha un
lieto fine e al contrario di quello che può sembrare è molto attuale-
- Attuale? Vuoi
dirmi che tuo padre potrebbe incatenarti ad uno scoglio pur di non vedere il
paese in balia di orribili mostri marini, darlin’?-
sghignazzò la donna, riprendendo un po’ di quello spirito giovanile che le
arrossò le gote, facendola assomigliare ancora di più alla figlia.
- Beh, gli scogli
possono essere metafore, così come le catene. E anche il mostro potrebbe
esserlo. Siamo incatenati, soli, nelle nostre paure e all’improvviso ci accorgiamo
che c’è qualcuno a cui importiamo- spiegò Chiara, non senza arrossire allo
sguardo indagatore della madre.
- Indagherò, dear, non temere… verrò a sapere
perché stasera hai un’aria così trasognata- dichiarò Margaret, alzandosi dal
letto e raggiungendo la porta. L’orologio portava quasi mezzanotte e mezza.
- Buonanotte
mamma- la salutò Chiara.
-Good night, love- si sentì rispondere
dal corridoio.
Si rigettò a peso
morto sul letto, ma sentendo qualcosa di spigoloso sotto la schiena si alzò
infastidita, individuando il suo cellulare. Fece per poggiarlo sul comodino,
quando si accorse di aver ricevuto un messaggio. Guardò il nome del mittente
col cuore in gola e lo visualizzò, con le dita tremanti. “E’ stata una giornata fantastica. Non importa se ho dovuto studiare
fino ad ora per recuperare quel po’ di biologia che dirò domani al prof. Ho
pensato a questa mattina continuamente.” lesse una, due, tre volte, finché
non imparò quasi a memoria ciascuna parola. Pensò che doveva rispondere, ma le
dita le tremavano troppo anche per premere i tasti del touch screen. Deglutì,
con la voce di Roberta che ripeteva quelle frasi a ripetizione nel cervello.
“Ci ho pensato continuamente anche io. Mia
madre non la smetteva di prendermi in giro per la mia faccia, devo avere avuto
quel sorrisetto scemo tutto il tempo” digitò. La risposta arrivò dopo
nemmeno cinque minuti.
“Adoro quel sorrisetto” recitava l’ultimo
sms di Roberta e Chiara pensò che in quel momento sarebbe anche potuta morire
per autocombustione. Almeno sarebbe morta felice.
“Smettila di farmi arrossire, lo sai quanto
lo odio” inviò il secondo messaggio. Posò il cellulare fra le coperte,
tirando un sospiro. L’avrebbe fatta impazzire da come le batteva il cuore.
“Adoro anche quando arrossisci. A domattina,
sogni d’oro” le scrisse Roberta, con una piccola faccina sorridente. Chiara
rispose e, quasi crollando dal sonno, immerse il viso fra le lenzuola, con
l’incontenibile desiderio che fosse già mattina.
***
- Su, Chiara,
alzati, sono le otto- urlò Margaret dal piano di sotto, sospettando che la
figlia fosse in ritardo perché la sera prima aveva fatto decisamente tardi.
L’aveva sentita ticchettare sul suo cellulare fino a quasi l’una, ma non aveva
voluto infierire. C’era qualcosa di particolarmente losco sotto e, ne era
convinta, pensava si trattasse di Riccardo. Quel ragazzo era sempre piaciuto a
sua figlia. Chiara si trascinò borbottando in inglese qualcosa giù per le
scale, quando era nervosa o arrabbiata le capitava spesso di imprecare nell’altra
lingua madre. Quando entrò in cucina, sistemandosi la t-shirt a maniche corte
che si era infilata nel tragitto, sua madre la rimbeccò per l’ennesimo ritardo.
Sbuffò forte e si sedette al tavolo, afferrando in malo modo la caraffa del
caffé.
-Qualche
interrogazione?- le domandò Margaret, mentre cercava le chiavi della macchina
per poter andare al lavoro. La rossa alzò le spalle.
- Solo fisica, ma
tanto lo sai che
- Allora in bocca
al lupo- le sorrise, dandole un bacio sulla guancia e uscendo di casa.
Chiara raccattò
assonnata le sue cose, la notte prima era rimasta sveglia a pensare fino a
quasi le due, e poi si diresse verso il giardino, masticando ancora gli ultimi
bocconi della colazione. Uscì canticchiando sottovoce alcune parole di “She loves you” dei Beatles.
Era leggermente
in ritardo e pensò bene di cominciare a correre, anche perché l’irrefrenabile
frenesia di arrivare a scuola per vedere Roberta vinceva di molto la sua
stanchezza fisica. Mentre zigzagava confusamente nel traffico del Corso,
saltellando quasi da un lato all’altro della strada per non essere investita
dalle macchine ed evitando con una graziosa giravolta di sbattere contro il
tronco di un albero ai lati del marciapiede, si sentiva come in un film.
Continuò a canticchiare sotto voce fino a scuola, stringendosi le cinghie dello
zaino con le mani formicolanti, sensazione a cui negli ultimi giorni aveva
fatto abitudine. Salì in fretta le scale dell’istituto, sperando che la classe
fosse vuota e che Roberta avesse avuto la sua stessa idea di arrivare prima.
Aveva un disperato bisogno di stare con lei. Da sole. O non avrebbe saputo come
fare a sopravvivere per le cinque ore successive, accontentandosi di fissarla
dall’altro capo della classe, attenta a non farsi notare da nessuno. Aveva tante
cose da dirle, anche se in realtà si erano viste solo la mattina prima! Ma era
questo il bello con Roberta, Chiara aveva l’impressione di avere sempre qualcosa
da dirle e per una spesso silenziosa come lei, era tutto dire. Aprì la porta
della II E, tirando un sospiro di sollievo quando constatò di essere la prima
quella mattina. Si sedette, irrequieta, sperando che non entrasse prima Carmen.
Aveva paura che in quella sorta di frenesia amorosa le avrebbe confessato tutto
e non poteva assolutamente permetterselo. Così prese un libro dalla borsa,
questa volta aveva portato con sé “Il
giovane Holden” di J. D. Salinger, e cominciò a sfogliarlo distrattamente.
Al quarto rigo che leggeva, sentì la porta scricchiolare, doveva ricordare al
bidello di oliare i cardini perché era davvero un rumore fastidioso, e alzò
improvvisamente la testa. A quanto pareva, Roberta aveva davvero avuto la sua
stessa idea.
- Ciao- mormorò
sorpresa, arrossendo sotto lo sguardo liquido della riccia. Quella le si
avvicinò, poggiando frettolosamente lo zaino sul suo banco dall’altro lato
dell’aula. Si sedette sul bordo del banco di Chiara, facendole segno di
spostarsi per farle spazio.
- Ciao a te- le
sussurrò, facendo per poggiare la fronte contro la sua, ma si bloccò di colpo,
rivolgendo un paio di occhiate preoccupate dalla porta.
- Tranquilla, non
c’è nessuno- la tranquillizzò Chiara, prendendole una mano. Incredibile come la
sua timidezza fosse svanita. Non era mai stata tipo da manifestazioni d’
affetto, eppure, con Roberta lì di fronte, la necessità di sentirla vicina era
tale da vincere anche questo suo limite. Aveva le mani fredde, nonostante fosse
metà maggio, così le sfregò fra le sue. Rassicurata, Roberta le diede un veloce
bacio sulla guancia. Arrossirono entrambe come due ragazzine delle elementari.
- Sei nervosa per
biologia?- le domandò Chiara, vedendola un po’ tesa. O forse era perché aveva
paura che qualcuno avrebbe potuto vederle?
Roberta fece di
si con la testa, brontolando sconfitta che la sera prima aveva studiato fino
quasi all’una. Poggiò la testa sulla sua spalla, sfregando il suo naso contro
il collo di Chiara.
-Così mi fai il
solletico- ridacchiò la rossa, dandole
uno schiaffetto sul braccio.
-Dimenticavo che
sei la solita manesca- borbottò fintamente offesa Roberta, intrecciando una
mano nei suoi capelli rossi. Chiara avrebbe voluto baciarla, ma aveva il vago
presentimento che non le avrebbe fatto piacere, non in un luogo così esposto,
dove tutti gli studenti del classico potevano osservarle e trarre la giusta
conclusione che fra loro c’era qualcosa. Cosa ci fosse esattamente fra di loro
non sapeva dirlo nemmeno Chiara, se doveva essere sincera. E quel margine di
indeterminatezza, quella sensazione di fluttuare al di sopra di qualunque
etichetta faceva sentire Chiara così libera, come i boccioli appena spuntatati
sui rami dei peschi, finalmente aperti ad un mondo del tutto nuovo.
- Che c’è?- le sussurrò Roberta, accennandole una carezza
su una guancia. Era incredibile persino come si accorgesse di ogni suo più
piccolo cambiamento d’umore.
- Nulla, è che…
sai, è strano perché ci siamo viste solo ieri mattina, ma… mi sei mancata-
rispose imbarazzata la rossa, sentendo le punte delle orecchie arroventarsi. Roberta
le rivolse un sorrisino.
- Anche a me. Lo
trovo strano, ma credo dovremmo farci l’abitudine- sospirò. La porta della
classe cigolò di nuovo, annunciando l’arrivo di qualcuno. Roberta scese
immediatamente dal banco e si fiondò il più lontano possibile da Chiara, senza
voltarsi.
- ‘Giorno-
biascicò Ivan, letteralmente trascinandosi al suo banchetto e mollando lì sopra
lo zaino coi suoi soliti modi. Non sembrava averle notate, nero com’era nella
sua disperazione per la sua imminente interrogazione in filosofia.
-Buon giorno!-
esclamò euforica Chiara, intavolando con lui una fitta conversazione su quanto
fosse stata difficile l’ultima versione di latino, nella speranza che il suo
amico più perspicace non notasse il rossore che ancora le bruciava il viso.
Quando suonò la
campanella delle otto e mezza, tutta la classe era già al completo e dai banchi
si levava un mormorio eccitato. C’era chi era felice perché quel giorno avrebbe
sostenuto la sua ultima interrogazione, chi invece era disperato perché aveva
paura di prendere per il quarto anno consecutivo il debito in greco e persino
chi, come Sabrina, canticchiava allegramente un motivetto di chissà quale
canzone rock. In quel baccano Chiara gettò lo sguardo oltre la spalla di
Carmen, verso la parte più lontana dell’aula, sorridendo a Roberta. La scuola
stava per finire. L’atmosfera era davvero delle migliori.
***
- Della Corte,
su, tocca a te, facciamocela quest’interrogazione e togliamoci il pensiero-
sbuffò il vecchio professore Abbatelli, sudante nella sua polo marrone, con la
fronte calva imperlata di goccioline e gli occhialoni appannati. Chiara vide
Roberta alzarsi con decisione e avanzare a testa alza verso la lavagna.
-Io dico che
anche questa volta fa scena muta- ridacchiò Sabrina al suo orecchio,
giocherellando con uno dei suoi numerosi piercing alle orecchie. Chiara si
stizzò, sentendosi profondamente offesa, come se il commento maligno le fosse
stato rivolto direttamente.
- Ma per favore-
disse, zittendola. Sabrina la guardò stranita, ma poi alzò le spalle,
probabilmente pensando che Chiara era nervosa per chissà quale oscuro motivo.
- Cominciamo con
la respirazione cellulare?- chiese Abbatelli, con un sorrisino degno del più
incallito dei sadici. Chiara sbiancò.
-Che stronzo, lo sa benissimo che la
respirazione cellulare è programma di primo quadrimestre- sibilò, attenta a non
farsi sentire. Al contrario di quello che poteva sembrare, Abbatelli non era
per niente sordo, anzi. Roberta però non sembrò scomporsi, si limitò a
guardarsi annoiata le unghie, prendere fiato e cominciare ad esporre le tre
fasi principali del processo di respirazione cellulare. Abbatelli, dopo lo
shock di aver sentito tutti quei paroloni uscire dalla bocca della stupida Della Corte, si riprese,
passando senza remore direttamente alla struttura ossea del cranio umano.
- Ma è pazzo? Le
sta chiedendo tutto il programma!-
protestò ancora indignata Chiara, contorcendosi le mani sotto al banco. Roberta
riprese ad esporre ciò che le era stato richiesto, con
qualche piccola esitazione, ma senza mai sbagliare.
- Caspiterina,
questa ha studiato sul serio- borbottò contrariato Ivan al suo fianco, ora
letteralmente incazzato nero perché
la sua interrogazione di filosofia gli aveva fruttato solo un misero sei e
insofferente del fatto che a qualcun altro la buona sorte stesse sorridendo.
-
Evidentemente- sorrise di sottecchi
Chiara, fissando intensamente il profilo delle labbra di Roberta, che si
muovevano ritmicamente. Non sapeva assolutamente cosa stesse esponendo ora,
anche se in biologia era una delle più brave, il suo lucidalabbra color
ciliegia la distraeva troppo.
Sentì qualcuno
colpirla con una penna alla schiena e a malincuore fu costretta a staccarsi da
quella visione per voltarsi verso Carmen.
- Che vuoi?-
- Non è che le
dai ripetizioni? Da quando siamo tornate a Vienna ha raggiunto quasi ovunque la
sufficienza e ora si sta decisamente superando- ridacchiò Carmen, sottolineando
di nuovo quando fosse inetta Roberta a scuola.
-No, ha
semplicemente studiato e non dovreste tutti trattarla come se fosse l’ultima
stupida di questo pianeta- esclamò, sentendo di nuovo la rabbia montarle al
petto. Si girò senza nemmeno replicare alla sua risatina, stringendo i pugni.
Abbatelli aveva tentato un’ultima volta di far cadere Roberta in una delle sue
domande a trabocchetto, ma quando quella gli aveva elencato correttamente tutte
le varie malattie genetiche legate alla sovrabbondanza o meno di cromosomi,
aveva lasciato andare con uno sbuffo l’idea di metterle un altro quattro e
l’aveva mandata a posto con sette meno.
- Si meritava di
più, gli ha detto praticamente mezzo programma!- questa volta Chiara borbottò
con troppo impeto, così che l’Abbatelli la sentì e la minacciò di abbassarle il
nove in biologia se solo si azzardava a fare un altro commento.
Roberta nel
frattempo era tornata al suo banco trionfante, con mezza classe che la fissava
in preda al dubbio che avesse fatto uso di sostanze dopanti. La campanella
suonò dopo pochi minuti, giusto in tempo perché quell’acido del professore
assegnasse l’ultimo capitolo sulla clonazione e si lamentasse di quanto fossero
più fastidiosi del solito e non riuscissero a stare fermi nemmeno con quel
caldo torrido. Chiara, bofonchiando qualche altra osservazione poco carina sul
suo conto, uscì dalla classe con lo zaino in spalla, raggiungendo Ivan.
- Che fissi?- le
domandò il ragazzo dai capelli cespugliosi, fissando anche lui attonito la
porta dell’aula come se potesse uscirne chissà quale mostro mitologico. Chiara
abbassò immediatamente lo sguardo sulle sue scarpe, arrossendo per la
milionesima volta quella mattina.
- Io…
mmh...nulla- alzò le spalle.
- Sei
particolarmente strana, Chiara Torri, in questo periodo. E con strana intendo
particolarmente felice, perennemente rossa come un peperone e decisamente
troppo sorridente rispetto alla media- dichiarò solenne Ivan, giocherellando
con le frange della sua fedele sciarpa di cotone multicolore. Chiara gli diede
una gomitata sulle costole, per poi abbracciarlo ridendo.
- E tu, Ivan
Vaiani, decisamente troppo ficcanaso-
- Sarà, ma
continuo a dire che secondo me c’è qualcosa sotto. Andiamo, pensavo che fra noi
due ci fosse una bella amicizia, perché non mi dici nulla?- piagnucolò per
finta Ivan, mentre si dirigevano a passo lento verso le scale.
- Lo sai che sei
uno dei miei migliori amici-
- Ecco, vedi?
Intendo questo. Sei troppo più affettuosa del solito- sogghignò il ragazzo.
- Forse c’è
qualcosa sotto, o forse no… ti lascio il beneficio del dubbio- proclamò Chiara,
fermandosi sulla soglia dell’entrata del “Giulio
Cesare”.
- Sei proprio
crudele! Questa me la segno, continuerò a romperti finché non ti caverò di
bocca qualcosa, giuro!- e con queste
parole Ivan si avviò a piedi verso la fermata del pullman, con le cuffiette
ermeticamente attaccate al condotto auricolare.
Carmen e Sabrina
erano uscite in tutta fretta dall’aula, salutandoli senza nemmeno essersi
fermate a chiacchierare, una con la scusa di aver ancora metà programma di
matematica da recuperare e di non poter perdere nemmeno un minuto della
giornata, l’altra con quella che facesse troppo caldo per starsene lì a
bighellonare.
Chiara si
appoggiò al solito muretto che dava nel cortile interno dell’istituto e passò
in rassegna a tutti gli studenti che si riversavano confusamente in strada.
Riuscì a scorgere Roberta solo dopo qualche minuto, che chiacchierava, sembrava
non proprio serenamente, con Vanessa e Angela dall’altra parte del marciapiede.
La vide gesticolare nervosamente e asciugarsi con sdegno il sudore dalla
fronte, poi le altre due le lanciarono un’occhiata poco amichevole e si
diressero nella direzione opposta. Incontrò quasi subito il suo sguardo, come
se fossero sincronizzate e, accertatasi che
- Eccoti- le
mormorò subito Roberta, con aria mesta.
- E’ successo
qualcosa?- le domandò, affiancandola mentre raggiungevano il parcheggio
adiacente.
- Io… in realtà
si. Sai, Vanessa e Angela non hanno preso bene la rottura con Massimo e
cominciano a sospettare qualcosa della nostra… amicizia- pronunciò quell’ultima parola fissando Chiara dritta
negli occhi.
“Ecco, ora mi
dice di dimenticare tutto. Era troppo bello per essere vero” pensò sconsolata
la rossa. E invece Roberta le indicò un’auto nera, modello Mini Cooper,
leggermente fuori mano, ma nel complesso molto più lucente e lustra di tutte le
altre.
- Su, sali, ti
porto a fare un giro-
Chiara tossì
forte, quasi stava per strozzarsi.
- Un giro…
aspetta,quella è la tua macchina?-
- Esattamente,
quindi ora… vuoi concedermi l’onore di essere la mia prima passeggera? A parte
l’istruttore di guida e mia madre, ovvio- ridacchiò la riccia, col viso
illuminato dal forte sole di maggio, che metteva in evidenza le piccole
lentiggini sul suo naso.
- Se proprio
insiste- concesse con finta sufficienza
Chiara, lasciandosi aprire lo sportello.
- Insisto,
insisto. Dove la porto, signorina?- le chiese una volta in macchina, lanciando
lo zaino sui sedili posteriori. Si rivolsero un sorriso e poi Chiara le fece un
gesto con la mano, invitandola a non mettere ancora in moto.
- Che c’è? Giuro
che guido bene, faccio attraversare le vecchiette ai semafori e non oltrepasso
i quaranta chilometri orari- alzò le mani Roberta. Chiara scoppiò in una
fragorosa risata.
- Posso
immaginarlo ma, vedi… mi sei mancata davvero tanto- si giustificò con
un’espressione sorniona, per poi accarezzarle una guancia con la mano e
allungare il collo per raggiungere le sue labbra. Si baciarono lentamente,
incoraggiate dal fatto che i finestrini dell’auto fossero oscurati, e Chiara
ebbe la conferma che baciare Roberta era la cosa più elettrizzante e al
contempo naturale del mondo. Approfondì quel contatto, senza neanche
rifletterci, cominciando a tracciare cerchi invisibili sul suo collo niveo con
le dita. Roberta rispose con un mugolio.
- Ora sai che
anche io soffro il solletico- esalò staccandosi, ancora affannata per il bacio.
Chiara affermò che da quel momento in poi sarebbe stata ricattabile e, mentre
la riccia metteva in moto, accese la radio, aumentando il volume quando sentì
che la canzone era proprio “It’s time”
dei Imagine Dragons, che adorava.
- Ti accompagno a
casa?-
- Mamma è di
turno oggi a pranzo e papà non tornerà prima delle sei…- cominciò Chiara, per
poi essere incitata dal sorrisino che si era fatto strada sul volto di Roberta.
-… quindi
possiamo pranzare insieme e magari festeggiare per il mio primo sette meno in
biologia?- domandò speranzosa l’altra. La rossa annuì calorosamente, affermando
che non poteva avere idea migliore.
- Potremmo andare
a prenderci una pizza al chiosco del parco e farci una passeggiata…- propose
Chiara.
-E chiosco sia-
acconsentì Roberta, guidando fino al parco e gettando, di tanto in tanto,
occhiatine divertite alla rossa, che canticchiava frasi sconnesse come “Now don’t you understand?”, battendo i
piedi a ritmo. Aprirono i finestrini e si lasciarono scompigliare i capelli
dalla piacevole brezza, con l’odore di fiori di campo ad avvolgere l’abitacolo.
Quando si accomodarono su una delle panchine del parco, una delle più nascoste
dalle fronde, dopo aver mangiato in tutta fretta la loro pizza per paura di
essere viste, si abbandonarono ad una risata liberatoria.
- Stendiamoci sul
prato!- urlò eccitata Chiara, trascinandosi dietro una Roberta oramai stanca e
appesantita dalla stressante giornata scolastica.
- Come vuoi, ma
smettila di utilizzare il tuo ascendente su di me a tuo vantaggio- borbottò
sfinita Roberta, abbandonandosi sull’erba fresca con lei.
- Ho un
ascendente su di te?- domandò divertita la rossa, invitandola a poggiare la
testa contro il suo grembo.
- Decisamente-
sospirò Roberta, rilassata dalle mani di Chiara che accarezzavano serenamente i
suoi capelli.
Dopo un paio di
minuti in silenzio, Chiara si decise a tirare fuori quel rospo che la
tormentava dalla sera precedente.
- Posso farti una
domanda?-
- Quello che
vuoi- sussurrò Roberta. Aveva chiuso gli occhi e arricciato le labbra in modo
adorabile a tutte quelle attenzioni.
-Noi, insomma…
cosa siamo?-
A quella domanda
Chiara la sentì irrigidirsi e tirarsi su con la schiena, per poterla guardare
negli occhi. Temette di aver detto qualcosa di sbagliato.
- Tu mi piaci… e
tanto anche. Hai fatto bene a farmi questa domanda, perché io sono così
vigliacca che non avrei saputo dirti queste cose altrimenti. Mi piaci. Non
ricordo esattamente da quando, se devo essere sincera…- cominciò esitante
Roberta, toccandosi i capelli e tirandosi le ginocchia al petto. La camicetta
bianca che indossava e i jeans chiari, uniti alla sua pelle diafana e ai fili
di erba intrecciati ai suoi capelli, la facevano assomigliare ad una di quelle
ninfe dei laghi di cui tanto Chiara aveva letto nei miti greco romani.
-… Il fatto che
tu sia una ragazza, ecco… per me è stato destabilizzante all’inizio. Ho avuto
una paura matta per gli ultimi nove mesi, ti evitavo e ti deridevo per
dimenticarmi che effetto piacevole tu mi facessi- raccontò con voce amara, come
se fosse persa in chissà quale passato remoto, buio e poco piacevole al
ricordo. Le fece cenno di continuare.
- Quando mi
guardavi, con gli occhi pieni di disappunto, quando ti offendevo o ti mettevo
in ridicolo davanti a Vanessa, il cuore mi si riempiva di odio verso me stessa.
“Sei una vigliacca” mi dicevo, “non hai né la forza di negare né di combattere
per quello che vuoi”. So solo uniformarmi, è questa la dura verità. Ho così
paura di loro che faccio di tutto per compiacerli. Mi hanno in pugno, Chiara.
Se avessero cominciato a sospettare di me sarebbe stata la mia fine. Sono
debole. Per questo ho colto al volo l’occasione che mi ha offerto Massimo, per
far credere a tutti che stessi bene. Ma non era così. Più lo baciavo, più
nasceva in me il dubbio di come sarebbe stato baciare te. E mi odiavo-
confessò, puntando lo sguardo ora spento sulle sue ballerine, strappando con
nervosismo dei fili d’erba dal terreno. Chiara rimase in silenzio, capì che si
trattava di una confessione molto importante. Si sentì lusingata che Roberta
riponesse tanta fiducia in lei. Le accarezzò lievemente il braccio, spronandola
a continuare.
-Io… non riesco
ancora a crederci che… insomma, che tu mi ricambi. Non sai quante volte ti ho
osservato, di nascosto, dal mio banco. Forse mi piaci dal quinto ginnasio, ma
non ne sono sicura. Quell’anno ti eri schiarita i capelli, ricordi? Li avevi quasi
color sabbia. Quando tornammo dalle vacanze estive, forse fu allora che ti
notai davvero. Ma avevo quindici anni e molta paura. Cominciai a pensare che tu
fossi incredibilmente carina e poi, non so… una volta ,durante l’ora di
inglese, cominciasti a discutere con la prof di “Cime Tempestose”. Avevi un’espressione così appassionata, così viva
che mi colpì il contrasto con la mia sensazione di essere amorfa. Mi hai
affascinata- alzò le spalle Roberta, riprendendo fiato per continuare quel
racconto.
- Ma è inutile
negare che il mio comportamento in questi anni è stato controproducente. Ho cominciato
a bere, a fumare, a uscire con un ragazzo dopo un altro, perché mi sentivo
sola, usata e… sola. Vanessa… beh, c’è stato un periodo in cui forse siamo
state davvero amiche, ma una volta in quel giro, Chiara, non puoi più uscirne.
E’ un circolo vizioso. Vedi che a qualcuno interessi e fai di tutto per
rimanere sulla cresta dell’onda. Mentre l’unica opinione che mi interessava era
la tua. Poi hai cominciato a frequentare quel ragazzo, Alessio, e allora ho
capito che era meglio dimenticarmi di qualunque cosa avessi mai provato per te.
Non sono mai riuscita a dargli un nome, ma qualunque cosa fosse quest’anno, in
gita, è tornata- concluse, questa volta guardandola con un’intensità quasi
magnetica.
- Perché non me
ne hai mai parlato?- domandò attonita Chiara, cercando la sua mano per
stringerla. Era diventato un gesto indispensabile.
Roberta fece una
smorfia rassegnata, sbattendo furiosamente le palpebre.
- Avevo paura che
fosse sbagliato. Non eravamo nemmeno amiche, ti umiliavo davanti a tutti… che
diritto avevo di dirti che mi piacevi così tanto da ossessionarmi!?- chiese
retoricamente, con gli occhi quasi lucidi. Chiara le si avvicinò e le strinse
le braccia attorno al busto, poggiando con un sospiro la guancia sulla sua
spalla.
- Non importa,
ora lo so. E posso dirti che per me è lo stesso. Non so come diavolo sia
successo, perché sul serio… è avvenuto tutto troppo in fretta. Un giorno