Hai lasciato il segno.
Cammino
tra la gente.
Mi
scanso, prudentemente, dalle persone che mi passano accanto, evitando
ogni possibile contatto. Non voglio che mi tocchino, nessuno mi deve
toccare.
Strizzo
gli occhi e guardo l'asfalto girgio del marciapiede che scivola sotto
i miei piedi traballanti.
Sono
stanca, ho sonno e ho freddo.
Mi
stringo nel mio cappotto primaverile.
Fuori
il sole splende, caldo e ristoratore in questa giornata d'Aprile, ma
io non ne sento il beneficio.
Il mio
freddo è dentro, è nelle ossa, nelle viscere.
Nell'anima.
Dovrei
piangere. Piangere fa bene, dicono. Ma le lacrime non hanno la forza
di scendere, anche loro sfinite. O forse non ne ho più, le
ho
esaurite, terminate.
Ho già
pianto cosi tante volte, così troppe volte.
Mi
schiaccio il cappello sul volto e mi nascondo dietro occhiali scuri.
Invisibile.
Voglio
sparire. Sparire in mezzo alla folla, inghiottita dall'asfalto,
inghiottita dal cielo azzurro che si intravvede tra le case e i
palazzi.
Mi fa
male tutto. E forse dovrei mangiare, ma lo stomaco è chiuso,
non
penso di poter ingoiare nulla di solido.
Raggiungo
casa ed entro.
Non
alzo le tapparelle, la semioscurità mi isola. Mi concede il
mio
spazio.
Bevo
un po' d'acqua. Faccio fatica a deglutire e le mie mani tremano
troppo, non riesco a tenere in mano il bicchiere. Non riesco a
centrare la bocca e l'acqua, per le convulsioni della mia mano,
esonda dai lati.
Lo
poso, chiudo gli occhi e cerco di fare un respiro profondo, senza
grande successo. Una smorfia di dolore mi dipinge il viso,
deformandolo. Il torace mi fa un male cane.
Svuoto
la mente, non voglio pensare. Non posso pensare. Altrimenti mi torna
tutto davanti agl'occhi .. ritorna tutto, come un incubo indelebile.
Il
telefono squilla e sobbalzo dalla sorpresa. Non rispondo. Lascio che
suoni.
Poi il
trillio termina e il silenzio cala, domina, opaco, ovattato, pesante.
Decido
di farmi la doccia, per lavare via le cose che mi sono rimaste
addoso, troppe per elencarle. Troppo spaventose per nominarle.
Apro
l'acqua calda e preparo l'occorente. In poco tempo il bagno si
riempie di quel vapore invitante e intimo, tipico di una temperatura
elevata.
Mi
spoglio lentamente. Faccio attenzione ad ogni movimento.
Tolgo
il maglione e la camicia, rimanendo in reggiseno. La mia carnagione
lattea sembra aver inghiottito la luna tanto è chiara.
Mi
sbottono i pantaloni e li calcio via senza troppa energia, dopo aver
gettato lontano le scarpe da ginnastica. Slego i capelli e li lascio
ricadere, lunghi e bruni, sulle spalle bianche.
Mi
fermo ad osservarmi.
Sotto
gli occhi ho le occhiaie, di stanchezza, di pianti non fatti, di urla
taciute. L'occhio destro è circondato da un alone violaceo.
Lo
accarezzo piano e, appena lo sfioro, mi duole.
La
guancia sinistra ha un rossore strano, con una forma indistinta.
Il
collo è graffiato, tre solchi rossi risaltano sulla mia
pelle
perlacea.
Il
reggiseno è rotto. Una spallina è stata strappata.
La
gabbia toracica si intravvede sotto la pelle, la mia forma fisica
mostra gli addominali e le costole.
Un
altro alone nero ricopre tutto il lato sinistro del mio copro.
Le
ginocchia sono arrossate e ho altri aloni scuri sulle gambe.
I
polsi hanno i sengi di strattonamenti e di lividi.
Guardo
con macelato disinteresse il braccialetto dell'ospedale. Prendo un
paio di forbicine e lo taglio. I sengi intorno al polso, ora, sono
più evidenti.
Segni
indelebili di un amore perduto, un amore malato.
Si,
hai lasciato il sengo su di me, dentro di me. Ora, sarai soddisfatto.
Il
bagno è saturo di vapore, ma io resto a fissarmi davanti
allo
specchio, fantasma di me stessa.
Chiudo gli occhi e vago nel nulla.
Mia
madre diceva sempre che quando avevo paura, bastava che chiudessi gli
occhi e pensassi alle cose belle e tutto spariva. Ci sto provando
mamma, ma le cose belle si sono nascoste, le cose belle sono state
cancellate da quelle cattive, dal buio denso.
E il
buio mi trova sempre. Mi trova sempre, mamma.
Porta
un nome che ho amato, che ho sognato di poter pronuciare. Porta nome
di chi aveva promesso con così tanto ardore, di amarmi e
proteggermi.
Il
buio delle parole pregne d'odio che traboccano dai lati delle labbra
che con tanta passione mi baciavano. E la cosa che fa male, davvero,
è che quelle stesse labbra mi baciano ancora, e mi riempiono
di
scuse e mi promettono tante cose, ancora. Ancora.
Una
lacrime solitaria scende sulla mia guancia arrossata.
Entro
in doccia e lascio che l'acqua mi scorra addosso, che provi a lavare
via il disgusto.
Sono
così stanca. Stanca di lottare una guerra che ho
già perso e che
perdo ogni volta. Stanca di provare a difendermi, stanca di provare
stanchezza.
Inerme,
lascio che l'acqua provi a scaldarmi, ma il calore non arriva. Non
arriva mai.
Denuncialo,
mi hanno detto. E l'ho fatto.
Ma lui
è tornato.
Torna
sempre.
E dopo
avermi massacrato per ore, dopo aver distrutto ogni bel ricordo, dopo
aver gettato fango sull'amore che aveva declamato, che aveva
costruito, che aveva donato, torna con parole dolci con regali e con
scuse vane, vuote. Vuote come me.
Non
posso vincere. Lui ha tutto, mi ha sempre.
All'inizio
urlavo, piangevo, gridavo, imploravo. Ora non ne ho la forza e ne ho
capito l'inutilità.
Lascio
che si sfoghi, lascio che faccia ciò che deve fare. Non ha
senso,
ormai, combattere.
Lui
vince sempre.
Le sue
belle mani che mi hanno così tante volte accarezzato,
consolato,
amato, sono le stesse che mi hanno denigrato, schiaffeggiato,
derubato della mia dignità, del rispetto.
Me
l'avevano detto di stare attenta, che lui era un tipo strano, un po'
iroso. Ma io me n'ero innamorata, quando quel giorno ci siamo
incotrati in quel bel locale. Quando mi sorridieva e mi riepiva di
complimenti.
Ho
ceduto alle sue lusinghe, alle sue promesse di bei sogni, ma ora i
sogni han lasciato il posto all'amara verità di una prigione
senza
via d'uscita. Una prigione fatta di rose e schiaffi.
Mi
accascio sul fondo della doccia, mi siedo sul marmo freddo. Mi
abbraccio le gambe, anche se quel movimento mi provoca fitte dolorose
ovunque.
Lascio
che il tempo si dilati, scandito dalle goccie che cadono dai miei
capelli che mi coprono la fronte.
Chiudi
gli occhi e pensa alle cose belle.
Nella
mia memoria non ne trovo, vedo solo un gran buio.
Forse
è arrivato il momento di farla finita.
Ci
sarebbe un modo per far smettere tutto, per far smettere
l'umiliazione, il disgusto, il dolore, le lacrime e la sofferenza. Un
modo.
Dopo
quattro anni di questo tormento, voglio solo che tutto cessi. Ora.
Adesso.
Mi
alzo, precaria sulle mie gambe molli.
Mi
avvolgo intorno al corpo martoriato, l'accappatoio morbido, che
stride con la ruvidezza della mia pelle e delle mie emozioni.
Mi
guardo di nuovo allo specchio, concetrandomi sugl'occhi chiari,
sfiniti, sfibrati, spenti.
È
davvero questo quello che voglio?
È
l'unico modo. Non c'è scelta. Voglio che tutto questo smetta.
Non
sono adatta a questa vita. Ho le ossa fragili, i nervi istabili. Il
cuore troppo piccolo.
La mia
esistenza è basata su scuse e insulti.
Basta!
Ora basta!
Mi
vesto lentamente, troppo lentamente.
Il
ticchettio dell'orologio è inquietante. E il tempo sembra
essersi
fermato, o aver rallentato di colpo.
Mi
friziono delicatamente i capelli, li pettino e li lego.
Apro
l'antina dell'armadietto dei medicinali, prendo un antidolorifico.
Vado
in stanza e sistemo le mie cose. Preparo la valigia con tutto
ciò
che possiedo.
Quante
volte sono scappata da questa casa, da questa città. Mi ha
sempre
trovato. Mi ha sempre riportato al punto di partenza.
Ma
questa volta sarà diverso.
Mi
accosto alla cassettiera e guardo la borsetta che è
appoggiata,
innocua, sopra di esso.
La
serrratura della porta di ingresso scatta.
-Amore,
sono tornato. Ascolta, scusami per ieri sera. Davvero, lo sai che ti
amo. - Silenzio.
Chiudo
gli occhi.
Le
solite scuse. Le solite parole.
-Amore.. Lo sai che io senza di te sono perso.- Lo sento camminare per la casa, cercandomi.
Prendo
la borsetta e la apro. Tiro fuori il suo contenuto terrificate.
La
bile mi sale nell'esofago.
La
pistola di contrabbando, una Beretta calibro 9, luccica spaventosa,
tra le mie mani tremanti.
Lo
sento entrare nella stanza. -Eccoti, finalmente! - Appoggia qualcosa
sul letto, deve essere l'ennesimo mazzo di rose. -Non ti trovavo.
Vuoi farmi spaventare.- Sento il suo sorriso sarcastico che gli
increspa le labbra. L'odore di sudore e cenere, mi arriva alle
narici.
Nascondo
l'arma all'altezza della vita.
Lui mi
abbraccia da dietro.-Amore mio, scusami. Lo sai che ti amo
immensamente.-
Un'altra
lacrima scappa al mio controllo.
Mi
giro stretta nel suo abbraccio senza staccarmi da lui.
Non si
accorge di nulla.
Lo
guardo e gli faccio un sorriso tirato, mentre i suoi occhi adoranti
mi guardano.
Mi
accarezza il viso. Si abbassa e preme le sue labbra contro le mie. Le
sue labbra ruvide. Le sue labbra dannate.
Schiaccio
la canna della pistola sul suo stomaco e premo il grilletto, mentre
ora piango senza trattenermi.
Il
rumore è assordante. I suoi occhi sono sconvoltegenti.
Oscenemente
aperti.
Si
scosta da me, traballando sui suoi piedi. Sorpreso e dolorante.
Ora,
il suo sguardo è pieno d'odio. Bascica qualcosa, ma fa
fatica a
parlare.
Infine,
mentre il sangue comincia ad uscire dalla ferita, riesco a senire un
“Puttana” bisbigliato.
Poi
cade per terra e io lascio andare l'arma maledetta, che mi
terrorizza, mentre i sighiozzi mi sconquassano il corpo.
Piango,
urlo, piango. Sono so se per la liberazione o la disperazione.
Il
dolore che sento in mezzo al petto è peggio di qualunque
sofferenza
che avevo mai provato.
Un
pungo intorno al cuore e il respiro spezzato e pensante.
Cado
sulle ginocchia, le gambe mi hanno ceduto.
Mi
trascino verso di lui, mentre sento i suoi ultimi spasmi e il
gorgoglio della trachea invasa dal sangue.
Guarda
il sofitto e si preme la mano sulla ferita, mentre il sangue sgorga e
imbratta il pavimento.
Piango, piango ancora.
Lo
raggiungo e gli accarezzo il volto, quel volto che ho così
tanto
amato. Disperatamente e maledettamente amato. Prendo il cordless e
compongo il numero della polizia.
Sono
lacerata dal dolore e dal rammarico. Dilaniata dalla sofferenza di
aver ammazzato il mio unico amore. La mia ragione di vita e la mia
ragione di morte.
Dovevo
farlo. Mi avresti ammazzato, amore mio. E ci sei andato così
vicino,
ultimamente.
Perdonami.
Al telefono la receptionist della polizia ha risposto e mi pone domande a cui non rispondo.
Il suo
respiro è sempre più irregolare.
Gli
bacio le labbra tanto adorate.
-Ti
amo anche io.- Bisbiglio.
Sorride.
Si, l'amore mio sorride.
E poi
chiude gli occhi e spira.
Libero.
Libera.
Liberi.