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Autore: Blusshi    19/01/2013    2 recensioni
Estratto dal capitolo 1~
Kate- la fronte inondata di sudore- spingeva e gridava; percepiva i movimenti del bambino che si faceva strada nel canale del parto. Si augurò che andasse tutto bene e che finisse in fretta; si sentiva come una bambina spaventata anche se ormai, a venticinque anni e con due gemelli in arrivo più che imminente, una bambina non era più.
Sapeva che quella nascita stava presentando complicazioni: i dottori le stavano dicendo che il primo dei due bambini non riusciva a uscire e che di conseguenza l’altro stava soffrendo.
Ho fatto una scelta originale, narrando la storia dei due protagonisti a partire da un punto che in genere non viene scelto. Spero, davvero, di non doverla pagare troppo cara questa mia originalità :) ~ Blusshi
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: 17, 18, Altri, Dr. Gelo, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La notizia della fine della minaccia-Creatura si era sparsa tanto velocemente quanto quella delle morti misteriose al nord, poco più di un mese prima.
La popolazione dell’intero Paese era di nuovo tranquilla e nessuno riusciva a spiegarsi come mai le vittime della Creatura fossero tornate miracolosamente in vita.
Come al solito, niente di tutto questo riusciva a toccare Kate.
Se Alice e Eric erano morti, lei non era stata lì con loro. Cosa poteva contare tutto il resto?
Kate si sentiva ormai vicina al fondo, al niente che tanto temeva. Non riusciva più a sorridere alle persone care, non riusciva più a versare una lacrima o a sorridere per i fatti che le accadevano intorno.
Entro poco tempo sarebbe stato febbraio; se ci fossero ancora stati, Alice e Eric avrebbero compiuto ventun anni.
Natale era appena passato ed era riuscito miracolosamente a strapparle un mezzo sorriso triste. Gli amici, sua sorella e i suoi genitori –che pure sentivano fortissima la mancanza dei due gemelli- avevano fatto di tutto per lei.
Ogni tanto aveva dei momenti in cui si sentiva meno peggio, in cui aveva voglia di vederli, di uscire, di farsi più bella di quanto non fosse già, nonostante la depressione le avesse spento gli occhi.
Quel giorno era uno di quei momenti e a Kate venne voglia di fare un giro al centro commerciale.
Le era ben noto, Alice ci andava sempre. Tutte le volte tornava con vagonate di roba più o meno comprata.
“Sei ancora capace di essere guardabile…anche se hai già 46 anni mia cara…” Kate contemplò la sua immagine nello specchio, diede un ultimo colpo di mascara, una spazzolata ai capelli corti e biondi.
Le era dispiaciuto tagliarli e tingerseli, ma non le piacevano quelli bianchi che specialmente negli ultimi anni le erano spuntati in sovrannumero.
“Ormai non ho più l’età per i capelli neri e lunghi” aveva detto al parrucchiere.
 
 
 
Dovevano trovarsi a sud. Non più il paesaggio montano che circondava il laboratorio del dottor Gelo, piuttosto prati e campi.
“Siamo molto lontani dalla costa…dove siamo finiti?”
17 e 18 avevano abbandonato il loro prato fiorito e avevano volato per una ventina di minuti verso una città di medie dimensioni.
“Non lo so, 17, ma quella città non ti sembra familiare?”
18 guardava dall’alto le strade, le case e i palazzi e le sembrava che li avessi già visti molte altre volte.
“17…dimmi che questa è la città in cui abitavamo prima…” mormorò, mentre si sentiva ancora commossa.
“Tu dici? Beh, sembra piena di macchine! Scendiamo”.
I gemelli atterrarono silenziosamente sul tetto piano di un enorme edificio rettangolare. Gli occhi di 17 brillavano: davanti a lui si estendeva uno sterminato esercito di automobili, di ogni genere e tipo. Un parcheggio.
18 continuava a guardarsi intorno pensosa. La nebbia che le avviluppava il cervello era persistente, ma fu come se le venne inflitto un duro colpo quando la ragazza volò un attimo giù dal tetto per leggere una mastodontica insegna a neon: “Lo riconosco! È il centro commerciale che mi piaceva di più! Quello dove avevo preso gli anfibi, te li ricordi?”
17 ci pensò su un attimo e rispose di sì, gettando occhiate fugaci alle auto davanti a lui.
“Dai entriamo?”
Poco dopo i gemelli erano immersi nel vociare chiassoso del centro commerciale.
“Questi sì che sono vestiti!”
Nessuno riusciva ad accorgersi di 18 che, veloce come un lampo, afferrava dagli scaffali quello che più le piaceva infilandolo in una borsa. Si era persino accollata il compito di prendere dei vestiti nuovi anche per lui.
“Certe abitudini sono dure a morire, vero?” 17 guardò la sorella e si mise a ridere “anche prima avevi sempre una borsa stile Mary Poppins”.
“Hai ragione, me lo ricordo anch’io” sorrise lei “solo una cosa: chi è Mary Poppins?”
17 strabuzzò gli occhi e la fissò, scandalizzato: “Come chi è Mary Poppins?! Quella che aveva il potere di riordinare le stanze con uno schiocco di dita e che metteva tutto –anche le lampade da pavimento- in una borsa! Nostra mamma ci cantava sempre la canzone quando eravamo piccoli”.
“Tu ti ricordi di nostra mamma?” questa volta fu lei a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite.
“Certo che no. Però mi ricordo questo particolare; mi accompagni a prendere da mangiare?”
18 iniziò a scartabellare una pila di top paillettati: “Non mi ricordo di Mary Poppins. E comunque una che ha  solo quel tipo di potere è sfigata”.
 
 17 non sopportava sua sorella: l’aveva accontentata, l’aveva accompagnata a fare man bassa in buona parte dei negozi di trucchi, vestiti e roba da donna che c’erano lì dentro; l’aveva costretto a cambiarsi, consegnandoli i vestiti che gli aveva preso poco prima.  Adesso era già 10 minuti che lui aspettava su una panchina, perchélei doveva andare a fare la pipì.
“Che palle…”
Il ragazzo guardava alternamente le proprie scarpe e la gente che usciva da una porta di vetro che si apriva e si chiudeva alla sua destra. Al di là si vedevano delle donne sedute mentre altre le pettinavano.
Ogni tanto 17 guardava dentro , osservando divertito tutte quelle signore coi capelli bagnati, gonfi a riccioli o nascosti da caschi che sembravano aggeggi da astronauti.
Si girò e si accorse del suo riflesso in uno degli specchi e rimase a guardarlo. Fu così che vide che anche la donna di fronte a quello specchio lo stava guardando.
“Wow, sembra 18” pensò, guardandole di sfuggita il viso splendido, i capelli biondo platino. Poi si tolse la cuffia che sua sorella gli aveva calcato in testa.
La donna continuava a guardarlo…No, lo stava fissando!  Prima aveva alzato lo sguardo sul riflesso nello specchio, poi si era voltata e gli aveva inchiodato addosso i suoi occhi.
17 non si prese il tempo di notare che aveva degli occhi di ghiaccio che erano uno spettacolo, come i suoi.
Si sentì prendere da un’agitazione strana, infondata, come se si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Qualcosa gli diceva che doveva andarsene di lì.
Si alzò di scatto e corse via, proprio mentre la donna abbandonava di corsa la poltrona per gettarsi sulla porta.
 
“Adesso tornerò da 17, poverino, mi starà aspettando…” 
18 era appena uscita dal bagno: girò l’angolo e vide suo fratello che le veniva incontro, camminando con passo nervosamente spedito.
Senza proferir parola 17 l’afferrò violentemente per un braccio e la condusse velocemente verso l’uscita sul tetto.
“17? Cosa ti è preso? Non volevi da mangiare?”
Lui non le rispose, impegnato com’era a cercare istericamente con lo sguardo un’auto nel mucchio indistinto del parcheggio.
18 lo seguì , visibilmente irritata.
Il ragazzo indugiò vicino ad un SUV nero opaco. Ne studiò ammirato la cromatura e poi senza preavviso affondò il pugno nel vetro del finestrino e tolse il blocco portiere.
18 trasalì; si avvicinò all’auto e rimase a guardare suo fratello che armeggiava con i cavetti elettrici: : “Oh! 17! Ma che diavolo ti prende?”
“Sali” mugugnò lui senza guardarla in faccia.
18 obbedì, interdetta, prendendo posto accanto al gemello, che mise in moto il SUV e uscì dal parcheggio facendo un chiasso assurdo e investendo in pieno una sventurata auto parcheggiata sulla sua strada.
 
 
 
Quel pomeriggio Kate aveva deciso di andare al centro commerciale a farsi una messa in piega.
Andare dal parrucchiere la rilassava, non aveva bisogno di ritoccare il colore e un’oretta di relax era quello di cui aveva bisogno.
Il centro commerciale era pieno di gente e mentre la parrucchiera la pettinava, dallo specchio la vedeva passare come una fiumana.
Dallo specchio vedeva benissimo anche la gente seduta sulla panchina a riposarsi.
 C’era un nonno che mangiava il gelato in compagnia della sua nipotina, c’era una ragazza che scriveva al cellulare e una coppia di islamici; ma quello che aveva immediatamente attirato la sua attenzione era stato un ragazzo.
Fuori faceva freddo, anche se lì dentro si stava bene non era certo stagione per andare in giro come lui: aveva le braccia nude e una cuffia in testa, portava  jeans neri e scarpe da tennis, la maglia quasi smanicata era bianca.
Sembrava annoiato, continuava a battere i piedi sul pavimento e teneva le braccia vigorose incrociate sul petto; era bellissimo.
Kate non aveva una bella visuale da lì, ma se n’era ben accorta; aveva un bel profilo, dei lineamenti raffinati.
Quasi le sembrava Eric.
Alzò le spalle, tanto ormai credeva di vedere Eric e Alice dappertutto.
Continuava a guardarlo, fantasticando su quanto le sarebbe piaciuto che quel bel ragazzo fosse stato suo figlio.
Siccome continuava a fissarlo attraverso lo specchio, vide anche che si era tolto la cuffia.
Ci rimase di sasso, le nocche delle sue mani sbiancarono quando Kate afferrò i braccioli della poltrona, col sudore freddo. Anche lui la stava fissando.
“Eric…” mormorò, alzandosi dalla poltrona e correndo più veloce che poteva verso l’uscita del salone “Eric!”
Ma nello stesso istante in cui Kate aveva raggiunto la porta il ragazzo si era già dileguato.
 
“Era mio figlio, lo posso giurare!” Kate battè le mani sulla scrivania del colonnello “ne sono sicura, credetemi, quello era Eric: l’ho visto con i miei occhi!”
Kate si era ripresa a fatica da quell’apparizione al centro commerciale, ma appena le era stato possibile era subito andata alla centrale di polizia. Il colonnello aveva fatto chiamare la squadra di polizia e i detective che si stavano ancora occupando del caso gemelli.
Il colonnello cliccò col mouse e sul desktop del suo computer apparve una foto, che mostrò a Kate: “Ecco, questa è una foto di suo figlio, risale all’epoca della scomparsa. Sicura che fosse veramente lui, signora?”
Kate rimase davanti allo schermo come imbambolata, guardando ossessivamente ogni particolare dell’immagine: “Non è cambiato di una virgola…”
“Come scusi?”
“Non è cambiato…l’Eric che ho visto io è totalmente identico a quello della foto…”
Il detective si sedette di fronte a lei: “Signora…quando Eric è scomparso aveva diciotto anni se non mi sbaglio, giusto?”
“Sì. È esatto”.
“E adesso, stando a quello che ci ha detto lei, è vivo e ne avrebbe ventuno”.
Kate annuì. Che razza di domanda era? Non era capace di fare diciotto più tre?
Il detective sospirò costernato: “Mi dispiace, signora, ma non penso davvero che il ragazzo che lei ha visto fosse lui. Sa com’è, anche se ormai a quell’età non si cambia più tanto, è impossibile non cambiare di una virgola dai diciotto ai ventun anni. Mi corregga”.
“Ma era lui! Ne sono sicura!” si difese Kate, anche se effettivamente il ragionamento del detective filava.
Era vero, non era di certo come passare dai quindici ai diciotto…ma effettivamente non era possibile.
Eric era perfettamente uguale a come se lo ricordava, tranne ovviamente per i vestiti.
A Kate scoppiava la testa: come avrebbe potuto sbagliarsi?
Avrebbe potuto farlo su qualsiasi cosa, ma non su suo figlio. E Alice? In teoria, avrebbe dovuto esserci anche lei: e di sicuro c’era.
Però, col passare delle ore, Kate si rendeva sempre più conto della sua componente emotiva, che di sicuro giocava in prima fila in tutta quella faccenda: possibile che quel bellissimo ragazzo dai lunghi capelli neri –così uguali ai suoi di prima- fosse stato solamente un’allucinazione?
 
 
I gemelli avevano trovato riparo in un edificio in rovina in piena campagna. Dove andare? Non avevano nessun posto a cui far ritorno.
In quella specie di rustico avevano trovato pentole, sacchi di coperte, quattro brande, il tutto in una stanza in buono stato, col tetto ancora integro.
18 stava diventando isterica. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo a suo fratello. Da quando l’aveva prepotentemente portata via dal centro commerciale non le aveva più rivolto la parola. Lei gli parlava ma lui non reagiva.
Appena avevano trovato il casolare si era installato su una delle brande e lì era rimasto, rannicchiato e con la faccia rivolta al muro.
Ormai era già da tre giorni che era così.
18 aveva fatto di tutto, aveva persino provato a dargli del cibo; aveva concluso che se non reagiva nemmeno a quella sollecitazione, doveva essere proprio grave.
“Su, 17, che hai?” gli diceva, sedendosi al suo fianco e accarezzandogli i capelli “qualcuno ti ha fatto qualcosa che non va? Stai male?”
Tutto quello che ne ricavava era qualche mugolio e un raggomitolarsi ancora più stretto.
18 si stava preoccupando che c’entrasse qualcosa con la sua parte cibernetica: magari qualche processore che gli era andato in tilt l’aveva fatto diventare catalettico, o magari era scarico…
 “Ma perché mi viene da pensare una cosa del genere? Non siamo mica computer! Siamo cyborg sofisticatissimi, cioè esseri umani imbottiti di circuiti e reattori” pensava costernata fra sé. Poi si convinse che lui stesse continuamente pensando alla sua rossa e perciò fosse depresso.
Si annoiava, per cui parlava con 17 anche se sapeva che non le avrebbe risposto: “Strano…perché in un posto così abbandonato c’è una stanza ristrutturata e abitabile come questa? Secondo te?”
Un pomeriggio la noia fu così forte che 18 non ce la fece più; salutò 17 che continuava a dormire sulla branda.
“Finalmente mi faccio un po’ di shopping, con calma. E ci vado in volo”.
Le ore passavano e ad un certo punto 17 udì dei passi lontani rimbombare su per le scale che conducevano alla stanzetta ammobiliata. Anche se era praticamente in catalessi, il suo udito sopraffino gli consentì di accorgersene; tuttavia continuò beatamente a ignorare tutto, anche quando un quartetto di uomini comparve rumorosamente nella stanza e senza complimenti lo accerchiò.
“Ehi, tu” esordì uno, cominciando a pitoccarlo con forza “come ci sei entrato qui? Vattene subito!”
17, acciambellato sulla branda, non si mosse né li degnò di un’occhiata.
“Ma chi è?” disse un altro.
Il primo continuava a toccacciarlo insistentemente: “Ma roba da matti! Ehi topo di fogna, alzati di qui!”
Alzò la voce e gli assestò un pugno fra le scapole. 17 non reagì.
“O ti alzi subito o ti ammazziamo” ringhiò un terzo, facendo cioccare sul pavimento qualcosa di metallico.
“Balle! Lo ammazziamo subito!” il primo che era entrato diede una spallata a quello con la mazza di metallo, gliela strappò di mano e la fece sibilare in direzione della testa di 17.
Con sorprendente rapidità  il ragazzo si alzò in piedi e la bloccò con una mano, lasciando di stucco l’uomo.
“Ma è un ragazzo!” si stupì il quarto.
17 gettò uno sguardo piatto e veloce al gruppetto: erano in quattro, come pensava.
Sembravano banditi, erano di mezz’età e portavano abiti di pelle borchiati, anfibi e varie armi come catene, coltelli, sbarre e mazze metalliche; uno teneva un fucile e tutti avevano il volto crivellato di piercing, una barba caprina e il cranio rasato.
“Fate schifo” pensava 17.
Quello con la mazza era rimasto interdetto, ma si riscosse presto e cercò di togliergliela dalla presa.
Lui sorrise cattivo e tirando leggermente gliela strappò di mano.
“Ma tu guarda ‘sto stronzo!” sogghignò confuso un altro bandito, caricando il fucile e sparando.
Aveva mirato dritto all’occhio destro, ma si sentì le ginocchia tremare quando il proiettile si spiaccicò come burro sulla cornea dell’androide.
17 sbatté innocentemente le palpebre; con elegante ferocia si fiondò sul primo che gli capitò a tiro, con una mano sola lo afferrò per la giacca e lo lanciò giù dal balcone della stanza; l’ululo cupo del bandito si prolungò fino a venire rimpiazzato da un tonfo e da un crash udibile solo dall’orecchio finissimo del giovane.
“Tu sei pazzo!” urlò quello col fucile, scaricando a più non posso tutti i colpi, mentre gli altri tentavano di corrergli addosso. 17 alzò un braccio e colpì uno dei due con un raggio fotonico.
Il bandito sparava e 17 si avvicinava, traendo dalla fondina la sua pistola: “Ti prego…non spararmi!” supplicò l’uomo, gettando a terra il fucile svuotato e alzando le mani.
“Ehi” 17 schiuse le labbra in un sorriso spietato “scusa caprone, tu hai sparato per primo” mise la canna della pistola in cima alla sua testa “ora è il mio turno”.
Quello che era stato colpito dal fascio di energia rantolava e si contorceva per terra.
“Tanto è comunque morto” 17 ebbe la compassione di finirlo con un colpo di pistola.
L’ultimo rimasto tremava, in mano stringeva ancora la catena.
“Va’ via” gli intimò, monocorde.
 
17 si sentiva bene.
Ci volevano proprio quei quattro bifolchi! Gli avevano dato una sferzata di adrenalina, si sentiva di nuovo in sé.
“Così questo era un covo di banditi…ecco perché…” diede un rapido sguardo alla stanza: c’erano ovunque frammenti metallici di proiettile, c’erano due cadaveri; aveva avuto la tentazione di colpire anche l’ultimo, ma aveva già giocato abbastanza.
“Non voglio che mia sorella lo sappia e si preoccupi…” alzò le spalle e in un lampo incenerì i resti dei due banditi.
Poi saltò giù dal balcone, dove giaceva il primo che aveva ammazzato.
“Bleah…”  la caduta era stata notevole e il cranio dell’uomo si era aperto come un uovo sull’acciottolato della stradina, schizzando roba qua e là con un effetto aerografo che dava il voltastomaco a 17, per cui si affrettò a distruggere anche l’ultima traccia di quel macello.
“Non avendo più niente da fare si distese di nuovo sulla branda e aspettò pazientemente il ritorno di 18.
 
Quant’era bello avere dei poteri? Non era mai stata di mano così lesta in vita sua.
Questa sì che si poteva chiamare razzia, si disse 18 soddisfatta, quando ritornò al casolare carica come una bestia da soma. Il bello era che nessuno se ne era accorto.
“Ma quanto sono stupidi, quanto sono stupidi…” 18 rideva da sola, pensando a quanto i sensi degli umani fossero primitivi.
“Sono qui!” trillò, buttando giù la porta della stanzina e lanciandoci dentro tutto.
“Ciao, 18”
Si sorprese a trovare suo fratello seduto sulla branda e ancora in possesso della parola: “Ciao 17, come stai? Ti ho portato da mangiare, contento?”
La più contenta era lei, però: riusciva sempre a ottenere quello che voleva, nel bene e nel male.
Aveva vinto lei contro l’apatia di suo fratello, ora sembrava quello di sempre: aveva accettato felicemente le cose che gli aveva portato, rispondeva a tono, lo sentì anche fare un rutto e ringraziarla di essere stata così gentile.
“Figurati, sto diventando una guardiana di maiale…adesso però dimmi perché facevi così” disse lei seria “volevi battere il guru indiano che è rimasto per chissà quanto immobile sotto un albero?”
Lui non le rispose e lei gli porse la bottiglia da cui stava bevendo: “In vodka veritas”.
“Non c’è bisogno della vodka” 17 le si avvicinò, il bel viso angosciato “dobbiamo tornare in città…penso che dovrei rivedere una persona”.
   
 
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