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Autore: Kiyara    20/01/2013    2 recensioni
Ve lo ricordate il vostro primo giorno di prima media? Quello in cui eravate nervosi, non conoscevate nessuno o peggio ancora conoscevate tutti, e avete avuto l'impressione di dovervi confrontare con un universo sconosciuto e terrificante? No? Io si. Siete curiosi di scoprire come vengono affrontate le accoglienze nelle scuole medie milanesi? Qualunque sia la risposta, cliccate sul titolo e leggete, non dovreste pentirvene. E poi potrete pure rispondermi nelle recensioni ;)
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mio primo giorno di medie fu in una mattina col cielo bianco, o forse è a me che piace ricordarlo così. C’erano entrambi i miei genitori. Lo spoglio cortile della scuola era gremito di gente: genitori, ragazzini e ragazzine che avevano passato la loro prima estate senza compiti dall’avvento delle elementari, delle ragazze che con quei visi e quei corpi passavano per liceali. C’erano Mirco, Emma, Ilaria ed Elisa, amici di una mia amica che a pelle m’ispiravano la diffidenza più totale e che evitavo, pur sapendo che in realtà erano simpaticissimi; era colpa della scuola da cui provenivano: era un posto come un altro, ma quelli che ci andavano se la tiravano da morire come se fossero iscritti in chissà quale istituto famoso.
La mattina in metrò avevo fatto le foto per l’abbonamento mensile. Ce le ho ancora: avevo i capelli tagliati cortissimi, sullo stile di Samantha Carter, personaggio della mia serie TV preferita; indossavo una maglietta rosa con un foro cucito a forma di goccia e chiuso da un bottoncino sulla clavicola. Il resto è affidato alla mia memoria: dei pantaloni, chissà quali, delle scarpe, forse di tela, o magari dei sandali. Bigiotteria o eventuale – e improbabile – trucco sono avvolti nell’oscurità.
Fecero entrare il gruppo di adulti e ragazzi. Passammo dall’atrio, che era bianco e luminoso, tutto il contrario della mia scuola elementare privata. Entrammo in palestra e ci disponemmo lungo le due pareti laterali e quella più corta in fondo, gli adulti dietro e i ragazzi davanti, su richiesta di qualcuno. Io ricordo solo il preside di preciso, ma c’erano anche diversi insegnanti, uno per ogni classe, anche se io non lo sapevo ancora e difatti non mi venne in mente di contarli per sapere quanti saremmo stati.
So che osservai i miei compagni di scuola, ma non ricordo cosa provai vedendoli. Pensai agli studenti di seconda e di terza che erano già in classe da un paio d’ore, probabilmente neanche pensavano al brusio creato dai nuovi arrivati in palestra. Attorno a me vedevo quelle ragazze robuste che sembravano più grandi, alla mia destra, poco lontano, c’erano Mirco e le ragazze; e sempre alla mia destra stava un ragazzone biondo dall’aspetto inconfondibilmente tedesco accompagnato da una donna con una massa di ricci arancioni. Non ci potevo credere, quando si dice che il mondo è piccolo! Martin era stato nella mia classe alle elementari, ma l’aveva lasciata (beato lui) in seconda o in terza. E ora eccola là, nella mia stessa scuola ad aspettare di venire assegnato a una classe! Mi rivolse un sorriso incerto, un po’ imbarazzato dalla rimpatriata inattesa; io lo salutai allegra, apparentemente sicura: una delle mie ultime conquiste era infatti riuscire a dissimulare la timidezza, abilità che avrei sviluppato ulteriormente in seguito.
Il preside fece un lungo discorso, di quelli che avrebbe replicato regolarmente negli anni a venire, per esempio agli spettacoli di Natale o di fine anno (che si sarebbero tenuti anch’essi in palestra), costringendo la nostra eccezionale prof di musica a fare il giro dietro la nostra fila disposta a semicerchio sussurrandoci di sederci. Non era la prima volta che sentivo la sua voce; i miei genitori erano stati all’open-day, l’avevano registrato mentre parlava e me l’avevano fatto sentire: prometteva di essere prolisso anche allora. Come dicevo, il preside parlò a lungo e disse anche delle cose sensate ma, ironia della sorte, non ne ricordo neanche una.
Chiamarono le classi. Sapevo che Mirco e le ragazze avrebbero fatto francese di seconda lingua, come me, così speravo di non finire con loro. Non appena tutti i compagni di una stessa classe si erano radunati al centro della palestra, risuonava un applauso. Avevo la costante paura di non sentire il mio nome quando l’avrebbero detto. Ogni volta che qualcuno si univa a una classe osservavo incuriosita, chiedendomi se sarebbe stato mio compagno e ogni volta che stava per essere chiamato il prossimo mi lasciavo prendere dall’ansia, convinta che sarei stata io.
Mi sbagliavo. La palestra si svuotò lentamente. Mirco e le ragazze finirono insieme nella F. Chiamarono il primo nome della 1°G, poi ne chiamarono altri. Il sesto ero io, ma ancora non lo sapevo perché non avevo contato e lo avrei scoperto molto dopo. Finirono l’appello e non mi accorsi che eravamo l’ultima classe finché i genitori non fecero il consueto applauso e sentì mia madre dire divertita: < Ci applaudiamo da soli > o qualcosa del genere.
Salimmo su fino all’ultimo piano, la nostra classe era la prima a destra, vicina alle scale. Mi sedetti a un banco vuoto, largo, lungo e bianco, lungo la parete della porta e aspettai che qualcuno si sedesse vicino a me. Dopo un po’ arrivò una ragazzina minuta coi capello scuri che io ricordo vestita di bianco, ma non escludo possa essere un ricordo distorto; mi si sedette a fianco senza dire una parola. Non so come, i nostri sguardi s’incrociarono e le rivolsi il mio sorriso dai molteplici significati, perché non sapevo che altro fare. Doveva essere una cosa carina perché lei sembrava molto più a disagio di me, e poi volevo salutare senza presentarmi: nella confusione creata dagli altri che prendevano posto, non avrei capito il suo nome e lei avrebbe sicuramente capito che mi chiamavo ‘Elisa’, cosa che ci tenevo a evitare perché il mio nome è già abbastanza brutto senza doverci aggiungere una lettera superflua. Un giorno di seconda superiore, mentre andavamo in metro verso il nostro liceo, mi disse che l’aveva preso per un sorriso falso (“Ma guarda questa!”, pensò) e ne fui sconvolta: negli anni avevo ripetuto quel sorriso migliaia di volte e il significato peggiore che aveva avuto era stato “non so che dire”.
Non ricordo quando scoprii il suo nome, forse all’appello – ed eravamo distanti, il mio cognome inizia per ‘Bo’ e il suo per ‘Lo’ – oppure più tardi in bagno, o alla fine della scuola. Comunque è Alice.
A un certo punto ci sentimmo chiamare. Voltandoci vedemmo sedute dietro di noi due ragazze che già si conoscevano, erano amiche. Quella che ci aveva chiamate era Valeria, una ‘secchiona buona’ molto agitata in puro stile Hermione Granger; l’altra era Bianca, studiosissima anche lei ma di poche, pochissime parole.
Non ricordo di aver notato Ale quel giorno e neanche lei si ricorda di me. Se ci penso oggi lo trovo stranissimo, ma quel giorno non potevamo sapere quanto saremmo diventate amiche.
La nostra prima prof si chiamava Meazza ed era (è tutt’ora) la mamma di una donna che abita nel mio palazzo e scoprii essere l’insegnante di ginnastica. Da allora, m’irrigidisco quando la vedo e rispondo ai suoi ‘Ciao’ con un tetro ‘Buongiorno’ perché non so più se darle del lei o del tu. La prof Meazza era un’anziana dall’aria giovane, affettuosa, ma insegnava il mio incubo: matematica. Ci spiegò tutto ciò che non sapevamo delle medie, della sua materia e aggiunse che era la coordinatrice di classe. All’improvviso ci chiese se avessimo bisogno di andare in bagno. Ci furono mormorii d’assenso in tutta la classe. Spiegò dov’erano i bagni e lasciò uscire tutti quelli che dovevano andare. I bagni erano luminosi. All’entrata c’era una lunghissima fila di lavandini: nei tre anni successivi avrei usato i primi due più vicini alla seconda porta, varcato la quale c’erano le porte che nascondevano i water e solo quelli. Così scoprii il primo dei molti difetti delle scuole pubbliche: la mancanza di carta igienica. L’Alice mi prestò un fazzoletto; sembrava ancora presa dalla timidezza, ma un po’ meno spaventata di com’era all’inizio. Arrivata ai lavandini, i bagni mi delusero ancora: non c’erano né acqua calda né sapone! Per cinque anni di carriera scolastica li avevo dati per scontati e ora che mi trovavo tristemente di fronte alla prospettiva di congelarmi le mani e per di più non sentirle completamente pulite, m’irritai non poco.
Tornammo in classe. Suonò la campana. Dopo la Meazza, che era una donna piccolina, entrò un uomo alto, che mi sorprese. Si chiamava Martinelli, insegnava italiano e dalla seconda avrebbe preso anche storia e geografia. Si rivelò essere il nostro unico insegnante maschio e anche l’uomo più colto che avessi mai conosciuto, un’enciclopedia umana, per usare le parole dell’Ali, e capace di farci morire dalle risate – letteralmente, un paio di volte sarei stata sul punto di non respirare più durante le sue lezioni, tanto avrei riso. In terza gli avremmo chiesto di insegnarci latino, anche se non sarebbe stato nel normale programma, per risparmiarci il corso pomeridiano, e lui avrebbe acconsentito. Persona straordinaria.
Alla fine della mattinata scendemmo giù nel caos, tra studenti vocianti di varie prime. Le prime dovevano uscire in anticipo. Osservammo il cortile svuotarsi, gli altri andare via. Io dovevo aspettare mia mamma. Ali la sua. Rimanemmo sole. Aspettammo a lungo, parlammo finalmente. Secondo lei, è li che scattò la nostra amicizia. Chiedemmo aiuto, chiamarono a casa. Le nostre mamme erano le uniche a non aver capito il nostro singolare orario d’uscita. Compagne di banco, compagne di sventura. Era destino. Amiche.
Magda arrivò per prima, si presentò: le diedi del lei, in seguito le avrei dato sempre del tu. Arrivò anche mia madre, scambiò due parole con Magda (lei e Ali si erano offerte di aspettare con me), poi ci separammo, mia madre e io verso la nostra vecchia Golf bordeaux.




NOTE:
Ho scritto il ricordo come se fossi molto più lontana nel tempo di quello che sono. La conversazione con Ali riguardo al sorriso è avvenuta solo qualche settimana fa XD
Che dite, dovrei seppellirmi?
Secondo me è interessante scrivere i nostri ricordi come se fossero storie. Ho iniziato per caso e ho deciso di continuare :)
Bene, allora vi saluto!
Un bacio
Kiyara
  
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