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Autore: gallavich    20/01/2013    3 recensioni
La radio mandava una canzone orribile, così abbassai lo sguardo per un secondo per cambiare e per trovare una canzone decente.
Dopo alzai subito la testa e frenai così bruscamente che il cuore mi salì in gola e quasi non sbattei la testa contro il volante.
La ragazza che stavo per investire mi guardò sgranando gli occhi. I fari della macchina le illuminavano il viso morto di paura.
Entrambi stavamo respirando velocemente e profondamente per ricomporci.
Sapevo chi era.
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Baby, it's cold outside







Stavo guidando la mia macchina per il sentiero ormai asfaltato, che fino ad un paio di settimane prima era una strada sterrata, con la radio sintonizzata su una stazione di musica country.
Il riscaldamento era acceso ed era messo al massimo. Mi aveva sempre dato fastidio sentire il getto d’aria calda in faccia, ma era dicembre e se non lo tenevo acceso, il freddo mi avrebbe congelato le mani e mi avrebbe fatto venire la febbre.
Non potevo permettermelo, così sopportavo quel bruciore agli occhi, che per poco non lacrimavano.
Pioveva forte fuori. Le gocce picchiettavano sul mio parabrezza.
Forse grandinava, ma erano solo gli inizi di dicembre e di solito la neve e la grandine colpivano il mio paesino solo verso la metà dell’ultimo mese dell’anno.
I tergicristalli facevano scivolare l’acqua via dal parabrezza della mia aiuto con lentezza, non erano molto veloci, perché nemmeno la mia macchina lo era.
Che cosa mi sarebbe servito un SUV in un paese di campagna come il mio?
I miei genitori mi avevano regalato quella macchinetta quando avevo compiuto diciotto anni e mi avevano permesso di guidarla, ma solo per andare a lavoro o per fare le commissioni: scendevo in paese, facevo la spesa, vendevo i prodotti del nostro orto e poi tornavo nella nostra casetta, dove avrei cominciato a lavorare la terra o ad aiutare in casa.
Di solito nei mesi freddi dove pioveva né io, né mio padre lavoravamo in campagna. Stavamo a casa, accendevamo il camino, sistemavamo il tetto per far sì che non piovesse sul letto suo e di mia madre.
Con quel vento e quella pioggia non si poteva affatto lavorare, coltivare e allevare quindi per l’inverno mi ero trovato un lavoro in un bar molto conosciuto nel bel mezzo del mio paesino.
Ci andavano tutti, a qualsiasi ora del giorno. E come poterli biasimare? I nostri cappuccini erano deliziosi ed ovviamente vendevamo anche biscotti e dolcini da accompagnare al tè, oppure tramezzini per il pranzo e tante cose che ogni volta andavano a ruba.
In primavera e in estate, qualche ingrediente lo fornivano gli animali di mio padre e qualche altro l’orto gestito da mia madre, mentre in inverno spesso non preparavamo panini, perché il cibo con cui li avremmo riempiti non sarebbe stato all’altezza del bar.
E nel miglior bar della città, si vendono solo i cibi di miglior qualità!
Quello era il nostro motto ed io avevo detto tante volte a Colette, la padrona, di cambiarlo, ma lei si rifiutava ogni volta perché sosteneva che era carino, che piaceva ai clienti e che fosse tanto spiritoso.
Né io, né i miei colleghi eravamo d’accordo.
Ci ricordava troppo di una televendita e il nostro bar (ovviamente ormai avanzavamo di diritti di proprietà nei suoi confronti) era un posto tranquillo, dove la gente si rilassava, dove le persone venivano a chiacchierare.
E se poi pensavamo a quello slogan, scritto su degli adesivi appiccicati alla porta di ingresso, al registratore di cassa, ai nostri grembiuli, tutta la calma veniva spazzata via.
Ma né io, né Mike, né Darce, sapevamo perché quelle parole ci dessero così tanto fastidio.
Quella sera, stavo tornando a casa da lavoro. Dopo aver terminato il turno, accompagnavo Mike e Darce a casa, loro abitavano in paese, mentre io salivo fino ad arrivare alla mia casa appollaiata quasi sulla cima della montagna alle pendici della quale si trovava il paese di nascita di mia madre.
La pioggia batteva sempre più forte e il cielo era completamente nero.
Alle otto di sera non si vedeva più niente.
Fortuna che i fari della mia macchina funzionavano, sia quelli anteriori che quelli posteriori.
Senza di essi più prima che poi avrei fatto un incidente.
Dovevo solo sperare che l’auto non si fermasse per colpa dell’acqua e che mi facesse arrivare presto a casa.
Avevo fame e mia madre avrebbe preparato zuppa di lenticchie per tutti.
Quel pensiero mi spinse ad aumentare la velocità e mi convinsi che la mia macchinetta non si sarebbe fermata. Il riscaldamento mi dava ancora fastidio agli occhi, li avevo mezzi chiusi. La radio mandava una canzone orribile, così abbassai lo sguardo per un secondo per cambiare e per trovare una canzone decente.
Dopo alzai subito la testa e frenai così bruscamente che il cuore mi salì in gola e quasi non sbattei la testa contro il volante.
La ragazza che stavo per investire mi guardò sgranando gli occhi. I fari della macchina le illuminavano il viso morto di paura.
Entrambi stavamo respirando velocemente e profondamente per ricomporci.
Sapevo chi era.
Juliet esitò. Non sapeva se continuare a camminare o venire a vedere come stavo.
Ma che ci faceva in mezzo alla pioggia di sera? Non aveva nemmeno un ombrello, né dei vestiti abbastanza pesanti e i capelli biondi erano appiccicati alle sue guance e alle sue tempie.
Dovevo andare io a vedere come stava, prima che scappasse verso il luogo al quale era diretta.
Aprii la portiera ed uscii. Subito la pioggia mi bagnò i vestiti e i miei capelli ricci color miele mi coprirono la vista. Li spostai con la mano destra per guardarla negli occhi.
Un cerbiatto impaurito, ecco cosa sembrava.
Ma non doveva avere paura di me, non le volevo fare male.
E poi mi conosceva e io conoscevo lei.
Le dissi di entrare in macchina e che l’avrei portata a casa, dove si sarebbe cambiata, riscaldata, nutrita e se avesse voluto, mi avrebbe raccontato tutto.
Dopo avermi guardato con quegli occhi color ghiaccio che quasi brillavano nella notte, annuì e abbassò la guardia. Entrambi entrammo in macchina; lei si sedette sul posto accanto al mio.
Subito portò le mani davanti al getto di aria calda, che anche se in quel momento ci stava riscaldando, sapevo che in poco mi avrebbe dato fastidio agli occhi.
Non gli diedi troppa importanza però. Stavamo arrivando a casa e così lo lasciai accesso.
Prima di mettere in moto, la guardai un attimo, studiandola.
La situazione nella quale l’avevo trovata era assolutamente surreale che quasi non ci credevo. Mi sembrava più surreale dei racconti fantasy e non sapevo perché.
Trovare una ragazza che cammina sotto la pioggia senza ombrello in mezzo alla strada non è cosa da tutti i giorni.
Mentre io mi perdevo nei miei pensieri, lei si girò verso di me, puntandomi contro i suoi grandi occhi. Le pupille erano dilatatissime, mi impedivano di vedere quell’azzurro ghiaccio che tanto mi piaceva.
Sorrise e basta, per ringraziarmi, lo faceva spesso quando stavamo insieme.
I suoi denti bianchi sembravano quasi brillare nel buio della macchina. Un tempo mi aveva detto che era nata con quella bocca, con i denti perfetti, che andava dal dentista per un solo controllo veloce ogni mese e si vantava perché non aveva mai portato l’apparecchio.
In effetti, se fossi stato in lei, anche io me ne sarei vantato. Quegli incisivi dritti, i canini appuntiti e leggermente smussati, tutta la sua dentatura era perfetta.
Ed oltre ad essa, c’erano molte altre cose in lei meravigliose, che mi lasciavano senza fiato.
Distolsi lo sguardo quando lo fece lei e diedi gas, guidando verso casa mia.
Arrivammo dopo meno di dieci minuti.
Quando mi fermai, posteggiando accanto alla mia mini-villetta, aveva quasi smesso di piovere. Scendeva ancora qualche goccia dal cielo, che cadeva nelle pozzanghere formate in precedenza, creando dei cerchi concentrici che riuscivo a vedere grazie alla luce dei lampadari a muro appesi all’esterno di casa mia.
L’aria era fredda. Juliet si strinse il cardigan grigio attorno, mentre io respiravo profondamente. Il riscaldamento mi aveva dato troppo fastidio, ma lei dopo aver camminato sotto la pioggia chissà per quanto aveva bisogno di scaldarsi un po’.
Juliet tornò accanto a me e ci fermammo davanti la porta di legno.
Chissà come avrebbe reagito mia madre alla sua vista.
Poggiai il dito sul campanello e dopo qualche secondo la porta si aprì con un cigolio.
Il viso amichevole e tondo di mia madre fece capolino. Il suo sorriso gigante mi trasmetteva calore, fino a quando non si spense, appena vide Juliet che timida si nascondeva dietro di me.
Mia mamma mi rivolse uno sguardo di rimprovero, sperai che Juliet non l’avesse visto, perché non volevo farla sentire a disagio e fuori posto.
Con un occhiata dissi a mia madre di lasciarla entrare e che poi le avrei spiegato tutto, così, solo dopo qualche secondo di esitazione, fece un mezzo sorriso a Juliet e ci accolse in casa.
Il calduccio del camino avvolse sia me che lei, l’odore delle spezie usate da mia madre per la minestra copriva la puzza di fumo proveniente dal camino, Brit, la mia cagnolina, si aggrappò ai miei jeans abbaiando e io l’accarezzai.
Poi, la cagnolina notò Juliet. Si vedeva che se la ricordava. Brit l’adorava.
Mi ricordai di tutte le volte in cui io e Juliet eravamo rimasti a casa la sera, accoccolati sul divano a guardare un film e Brit saltava sempre su di lei accucciandosi contro il suo petto.
-Giusto in tempo, siamo a tavola.- disse mia madre andando ai fornelli.
Io portai Juliet in camera mia per farle indossare una felpa pesante e grigia e dei pantaloni di tuta. Miei.
Un ricordo di lei che annusava la mia maglietta rossa a maniche lunghe mi fece sorridere. Quella maglietta gliel’avevo poi regalata, chissà se l’aveva ancora, chissà se la usava come pigiama o chissà se l’aveva nascosta in un cassetto.
Le allungai i vestiti con un braccio e: -Appena finisci vieni a tavola.- le dissi.
La lasciai sola e mi diressi verso mia madre, che stava servendo i piatti. Mio padre era già seduto e impaziente annusava la sua minestra che, dovevo riconoscerlo, aveva un profumo parecchio invitante.
-Mi spieghi che ci fa lei qui?- mi sussurrò mia madre dopo aver portato tutti i piatti a tavola.
-L’ho trovata in mezzo alla strada, sotto la pioggia, a quest’ora della sera. Che dovevo fare secondo te?-
Quella domanda la zittì. Come avrebbe potuto rispondere? Anche se mia madre odiava Juliet, aveva un gran cuore. E comunque nessuno al posto mio l’avrebbe lasciata in quelle condizioni a vagare da sola e al buio.
Mia madre sospirò.
-Ok. La mia porzione di minestra la mangia lei, ha bisogno di riscaldarsi, sembra distrutta…-
Prima che potesse continuare la interruppi: -E tu mangi la mia porzione.-
Le baciai la fronte e dal frigorifero afferrai una bottiglia d’acqua e un’insalatiera contenente frutta: la mia cena.
Avevo tanta fame però.
Juliet arrivò, timida e si sedette a tavola, di fronte a mio padre. I miei vestiti le stavano giganti.
La cena proseguì in silenzio, anche se mio padre ogni tanto diceva a mia madre quanto fosse buona la sua minestra.
Dopo aver finito di mangiare, sparecchiai la tavola e impedii a Juliet di fare lo stesso. Le dissi di sedersi sul divano, davanti al camino, dipingendole un’espressione sconfitta sul viso di porcellana. Mia madre era esausta, così la mandai a letto, dicendole che avrei finito io di lavare tutto.
Juliet mi sorprese avvicinandosi a me, senza farsi sentire.
-Vuoi aiuto?-
Mi resi conto che quelle due parole erano state le uniche che aveva detto da quando l’avevo fatta salire in macchina.
-No, grazie.- declinai la suo offerta con tono gentile, pensando che sarebbe tornata a sedersi sul divano.
E invece: -Io ti aiuto.- disse, togliendomi il panno che tenevo in mano per asciugare i piatti che avevo lavato in precedenza.
Era così concentrata su quel piatto bianco e io sapevo il perché. Voleva solo evitare il mio sguardo.
Faceva sempre così quando litigavamo, perché sapeva che se le avessi domandato qualcosa si sarebbe sentita presa in contropiede. Ed era proprio quello che volevo fare.
-Perché vagavi nel buio con la pioggia che ti bagnava tutta?-
Lei finì di asciugare un piatto e passò ad un altro. Evitava la domanda. Senza successo.
-Perché non mi vuoi rispondere?-
-Liam, possiamo evitare l’argomento per favore?- chiese fredda, poggiando il piatto e guardandomi negli occhi.
-No.-
Mi fissò per un tempo indeterminato, quelle iridi color ghiaccio cercavano di mettermi paura, di mettermi in soggezione, ma io ero più forte di lei ormai. Prima era diverso, prima che ci lasciassimo era tutto diverso, ma dopo che mi ero reso conto che io e lei non stavamo più insieme avevo cercato di andare avanti con la mia vita e di cambiare.
-Ero andata dal ragazzo con il quale mi frequento e l’ho visto con un’altra.-
La sua voce si spezzò alla fine della frase e così quelle parole vennero sussurrate. Odiava quando qualcuno la vedeva piangere.
Io l’avevo vista piangere, tante volte, per motivi diversi ed ero sempre stato felice di consolarla, ma in quel momento, se lei fosse crollata, non avrei saputo cosa fare.
Girò la testa e asciugò l’ultimo piatto con meno cura degli altri.
-Devo andare, grazie per avermi ospitato. Salutami i tuoi, anche se forse tua madre non mi vuole né sentire, né vedere.-
-Non credi che sia comprensibile ciò che credi che lei voglia? Mi hai lasciato, ero depresso perché non capivo che cosa avevo sbagliato, che cosa ti aveva portato a troncare la nostra relazione e lei ha dovuto vedere suo figlio in quello stato miserabile per settimane.-
-Non credevo che fossi stato così male.-
-Invece si.- sussurrai.
Se c’era una cosa che mi ero sempre rimproverato era quella di essere così vulnerabile con lei. Ancora non riuscivo a credere che mi ero davvero disperato così tanto da star male dopo la nostra rottura.
A quel punto, né io, né lei sapevamo cosa dire. Ci eravamo lasciati qualche mese prima, eravamo andati avanti con le nostre vite. Eppure era bastata una sera insieme per farci ritornare a guardarci negli occhi per periodi di tempo indeterminati, come una volta.
Abbassai lo sguardo quando mi resi conto che stavo per sospirare sconfitto.
-Non voglio litigare.-
-Nemmeno io.-
-Non andare via.-
-Devo.-
In sottofondo si sentiva la pioggia che picchiettava contro i vetri e il vento freddo che scuoteva gli alberi che mio padre aveva piantato davanti la nostra casa. Prima aveva smesso di piovere e poi aveva ricominciato, ancora più forte.
-C’è freddo fuori.-
-Liam…-
Le presi le mani. Sapevo benissimo che non avrei mai dovuto farlo.
Si erano riscaldate grazie al calore del camino. Pensai a quando gliele avevo strette sotto la pioggia e a quanto fossero fredde.
In quel momento erano morbide, le dita affusolate e lunghe, le unghia perfette.
-Guarda alla finestra, è una tempesta.-
Girammo lo sguardo a ciò che stava succedendo fuori da casa mia e provai paura al solo pensiero di uscire di casa.
-Devo andare, te l’ho detto.-
-Resta qui. Dormi nella mia stanza e io sul divano. Oppure se tu vuoi dormire davanti al camino, dormo nella mia stanza, non è un problema. Quante volte sei rimasta a dormire qui?-
E quante volte abbiamo dormito insieme?pensavo.
Alzò lo sguardo e notai i suoi occhi lucidi. Corrugai la fronte.
-Perché piangi?-
Le tremò il labbro e una lacrima le scese sulla guancia destra. La vidi creare una scia umida fino al mento di Juliet, per poi cadere a terra.
-Mi stai facendo pentire di tutto quello che ho fatto.-
E questa come l’avrei dovuta prendere?
Noi non potevamo rimetterci insieme, quella che avevamo avuto era stata una bella relazione, ma se era finita doveva esserci un motivo. Eppure era quello il problema: lei mi aveva mollato senza darmi una spiegazione.
-Credo che mi sono accorta di quanto ci tenessi a te solo dopo averti perso.-
Solita frase da libri e film sdolcinati che però mi fece accelerare il battito del cuore. Le sue labbra erano così invitanti. Chissà se ancora usava il lucidalabbra alla fragola del quale avevo provato il gusto così tante volte.
Liam, staccati, adesso, staccati, allontanati, falla andare via. mi ripetevo, ma non mi mossi.
Mi maledissi quando fu lei a staccarsi, asciugandosi le guance con il dorso della mano sinistra. Avrei dovuto staccarmi io. Io dovevo essere più indipendente e meno vulnerabile.
-Hai ragione, fuori c’è freddo e io non posso tornare a casa. Posso andare a dormire nella tua stanza?-
Io mi svegliai dalla specie di trance nella quale ero caduto prima.
Maledetti occhi azzurri e maledette labbra rosee.
-Si, buonanotte.-
-Buonanotte.-
La vidi andare via e chiudersi nella mia camera, lasciandomi con lo scoppiettare del camino, il picchiettare della pioggia e le sue parole che mi rimbombavano nella testa.
 
 
Ero disteso sul divano, con due plaid di lana che mi riscaldavano. Il fuoco del camino si era ormai spento.
Mi ci era voluto un po’ prima di prendere sonno e scrollarmi dalla mente tutto ciò che Juliet mi aveva detto, ma poi ero riuscito ad addormentarmi.
Mi sentii chiamare: -Liam?-
Aprii gli occhi lentamente e mi misi seduto sbadigliando.
-Scusa se ti ho svegliato, è che là c’è freddo.-
Annuii e feci per alzarmi.
-Allora continua a dormire qua, io vado nella mia stanza.-
Le mie gambe erano troppo molli e io ero davvero stanco, dopo la mia giornata di lavoro e il confronto con Juliet.
-No, aspetta...- mi disse lei imbarazzata.
La guardai stropicciandomi gli occhi e scossi la testa come per chiederle ‘che c’è?’
-Riscaldami tu.-
Juliet mi fece tornare disteso e si accucciò contro il mio petto, coprendoci con i plaid. Mi ricordai di Brit che faceva la stessa cosa con lei.
Probabilmente Brit stava dormendo in quel momento. Prima di distendermi sul divano l’avevo chiusa nella lavanderia.
I capelli biondi di Juliet mi sfioravano il naso. Non ci trovavamo distesi in quel modo da circa quattro mesi.
Non riuscivo a credere a quello che mi aveva chiesto, pensavo di averlo sognato, ma poi la sua mano si unì alla mia e il mio braccio passò attorno al suo corpo.
Un brivido di freddo la scosse, così istintivamente la strinsi di più.
-Io…- cominciai, ma nessuno dei due voleva parlare in quel momento.
-Liam, abbracciami e basta.-
Il suo corpo era così abbandonato al mio, mi sembrava di avere tutta la sua vita nelle mie mani. Sentii il suo respiro rallentare e la sua mano stringersi alla mia, come se quello fosse stato un addio.
Mi addormentai senza pensare a nient’altro che a noi due insieme, senza pensare a come le cose sarebbero andate tra di noi, a che cosa avrebbe detto mia madre o al perché lei mi aveva lasciato.
Mi importava solo del fatto che mi sentivo felice e completo. Come ai vecchi tempi.
  
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