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Autore: _Kiiko Kyah    20/01/2013    4 recensioni
Esami di università, problemi con gli amici, nuovi incontri, una sedicenne muta senza memoria in giro per casa da gestire: come far impazzire un ventiquattrenne in crisi.
{ Het; Crack!pairing;] [AU!;] [Fluff; Malinconico; Romantico }
"Ascoltami attentamente, Shirou: l'età è solo un fottuttisimo numero."
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Axel/Shuuya, Hayden Frost/Atsuya Fubuki, Shawn/Shirou, Shuu, Tsurugi Kyousuke, Yuuka Gouenji/Julia Blaze
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'OTP— the phantom and the cutie.'
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Sentimento incolore.
 
La pioggia cadeva, con quel suo ritmico picchiettio sul terreno e su ogni superficie esistente. Scendeva giù insistentemente, fitta e scura; a causa dell’acqua e dei nuvoloni neri che l’avevano portata, il sole era andato a rintanarsi chissà dove, per non farsi più vedere.
Due occhi blu, spenti e chiaramente incazzati neri – chiariamo il concetto, stavano maledicendo tutto e tutti in quel momento – erano puntati dritti in un altro paio di iridi, dello stesso identico colore e forma, ma che al contrario esprimevano gentilezza e anche una lieve preoccupazione.
Data la loro agghiacciante somiglianza, i due ventiquattrenni potevano ben dire di starsi quasi guardando allo specchio; beh, tralasciando ovviamente il colore dei loro capelli e il grado di disordine della loro chioma: dopotutto, la capigliatura del primo era rosa e aveva delle sfumature tendenti al salmone, mentre quella del secondo era letteralmente argentea, giusto per sottolineare l’alto tasso di albinismo presente nel suo sangue.
Atsuya stava ferocemente fissando in cagnesco il suo carissimo gemello che, come al solito, stava sfoggiando quel suo sorriso dolce ed irresistibile che aveva fatto di lui il ragazzo – e ormai uomo – più popolare dell’intera Tokyo. O almeno, di Inazuma-cho e di tutta la decina di quartieri che lo circondavano.
< Ripeti quello che hai detto, temo di non aver capito bene. > mormorò fra i denti il rosa, assottigliando gli occhi. In tutta risposta, ricevette un sospiro amareggiato.
< Torno in Hokkaido. > ripeté Shirou, e con la mano si spostò una ciocca di capelli chiari e bagnati dalla fronte. Già, completamente fradici, dato che il suo nii-san gli aveva, con tanto amore e tanta rabbia, sottratto l’ombrello dalle mani per poi spostarsi in modo da farlo bagnare tutto. La tecnica vendicativa di Atsuya Fubuki, degna di un bambino di sette anni.
< E perché dovresti? > domandò quell’altro. Era chiaro come non sopportasse l’idea che l’albino partisse, e questo era veramente un pensiero tenero e commovente, tuttavia l’altro si costrinse a sospirare di nuovo.
< Mi è stata offerta una borsa di studio per la facoltà di psicologia della nostra città natale, nii-san. > replicò secco < E per me è molto importante andarci. >
< Finora non hai avuto problemi all’università di qui, però. > insistette quello. Niente, Shirou doveva ammettere che la testardaggine di un mulo non sfiorava nemmeno quella di suo fratello.
< Sai che i miei studi qui avevano l’unico scopo di raggiungere questa opportunità, Atsuya. >
Colpito, affondato e pure psicologicamente ammazzato, volendo. Stavolta fu il salmonato a vacillare, mostrando un accenno di sorriso forzato e tremendamente triste.
< Non posso proprio impedirtelo, quindi. >
< Davvero? > sussurrò sorpreso e nuovamente felice, guardando il suo nii-san con gli occhi che gli luccicavano.
< Non sono così egoista > iniziò Atsuya, girandosi in un’altra direzione < da costringerti a rinunciare ai tuoi sogni, Shirou. > concluse serrando una palpebra in segno di intesa, anche se dentro sé stesso si stava lentamente e progressivamente consumando la distruzione più completa della sua tranquillità fisica e mentale.
< Sì, lo so. > il più dolce dei gemelli Fubuki rivolse al suo scorbutico nii-san uno dei suoi soliti sorrisi con la consapevolezza che, in futuro, Atsuya avrebbe potuto confermare che come ringraziamento quel minuscolo ed insignificante gesto era migliore di qualsiasi parola.
 

 
Un cavolo di treno su una cavolo di ferrovia diretto ad una cavolo di stazione in una cavolo di città che Atsuya non avrebbe mai voluto sentir nominare ancora. E invece, adesso, avrebbe dovuto sopportare il dolore e i ricordi provocati dal nome della città in cui era nato e cresciuto, nella quale era scampato per un soffio alla morte, al prezzo di vedere i suoi genitori guardarla in faccia senza neanche potergli dire addio. E perché era costretto a farlo? Perché il suo fratellino si era messo in testa di voler diventare uno psicologo perfetto proprio come il defunto signor Fubuki, più precisamente aveva intenzione di laurearsi nella stessa università che un tempo era stata frequentata dal padre.
Il rosa non riusciva a comprendere quel desiderio, non sapeva cosa lo avesse spinto a non fermare quel folle di Shirou dal partire per l’Hokkaido; sì, aveva permesso ad un ricordo ormai sepolto di risalire a galla e portarsi via l’ultimo membro della sua famiglia – oltre alla sua stabilità mentale, ovviamente.
Rimase fermo ad osservare il treno finché non divenne un punto nero all’orizzonte e poi più nulla.
< Che palle Shirou, che palle! > esclamò in preda all’ira, allo sconforto, o quello che era.
Quella mattina, l’albino gli aveva assicurato che lo avrebbe chiamato ogni giorno a partire dal momento in cui sarebbe arrivato in mezzo alla neve – l’amata e odiata neve – del giardino appartenente alla loro vecchia e abbandonata casa.
Ma che senso aveva? Quale astruso significato poteva aver avuto l’essersi trasferiti entrambi a Tokyo per poi doversi dividere in quel modo? Che cosa ... significava?
I passi del giovane risuonavano secchi ed estranei alle sue stesse orecchie. Quando finalmente fu davanti alla porta di casa, l’aprì con scarsa pazienza e senza nemmeno pensare all’eventualità di togliersi la giacca di dosso si buttò di schiena sul divano e chiuse gli occhi.
Una bella dormita gli avrebbe fatto bene, in una circostanza del genere.
E, naturalmente, data la sua grandissima e sconfinata fortuna, essendo che la dea bendata amava lui e solo lui, non riuscì a chiudere occhio. E non solo in quel momento, bensì per ben tre giorni e tre notti consecutivi. Inutile prendere tisane su tisane, farmaci e persino sonniferi, era solo una futile perdita di tempo.
Inoltre, come se non bastasse, mentre le occhiaie sul volto chiaro di Atsuya e le pagliuzze rosse di stanchezza nei suoi occhi non facevano altro che aumentare, la sua concentrazione sullo studio diminuiva, tale che quando gli toccò fare l’esame di gennaio il risultato fu un bellissimo e calorosissimo 20/30, vale a dire un miracolo sceso dal cielo gli aveva concesso la grazia di non essere bocciato. Se così non fosse stato, l’oramai solitaria casa del rosa sarebbe stata sistematicamente disintegrata: l’esame era quello di psicologia.
 
< Terra chiama Salmone? > la voce del biondo gli arrivò come ovattata e spenta, nonostante quella frase fosse stata quasi gridata. La stanchezza e l’insonnia, messe insieme, rendevano impossibile la tranquillità  anche ad una roccia come lui.
< Cosa-c’è-Raperonzolo? > scandì aprendo accuratamente le labbra secche in modo da non far uscire un mugugno incomprensibile, bensì la domanda che aveva appena posto. Avrebbe voluto sospirare, anche se non ci riuscì. La sua voce era sempre stata così grave e roca?
< Primo: non chiamarmi a quel modo. > lo rimproverò Terumi con fare scocciato < Secondo: hai ascoltato quello che ti ho detto? >
< Hai cominciato tu a chiamarmi Salmone, > si giustificò, interrompendosi con uno sbadiglio assonnato < e no, non ho capito un accidente di ciò che mi hai detto. Non che mi interessi molto, comunque. >
Le vermiglie e liquide iridi di Afuro rotearono con sempre più nervosismo, e il loro proprietario non si disdegnò dal piantare un dito sulla fronte chiara del suo amico-nemico per eccellenza. La sua spinta, per quanto delicata, lo fece cadere all’indietro con tutta la sedia, complice il fatto che il rosa si stava amabilmente e pericolosamente dondolando solo sulle gambe posteriori del sedile.
La nuca di Atsuya cozzò sonoramente contro il parquet di casa Kino, e tutti i presenti si misero a ridere, chi con divertimento chi con nervosismo. Tutti eccetto il biondo colpevole, troppo indispettito con il Salmone per divertirsi delle sue pene, e Aki, la gentile padrona di casa, che era troppo gentile e intenta a preoccuparsi del fatto che quella botta avrebbe potuto provocare qualche danno serio alla vittima di quello stupido scherzo. Sempre che fosse uno scherzo, poi.
Alla fin fine, anche se l’età di quel branco di nullafacenti ruotava intorno ai ventiquattro-venticinque anni, più o meno tutti in quel momento si stavano dimostrando al pari dei bambinetti presenti all’orfanotrofio dal quale molti di loro provenivano.
< Ti ho detto > incominciò Afuro, socchiudendo gli occhi e chinandosi per guardare meglio il suo coetaneo ancora in terra < che se ripeti l’imbarazzante performance di quest’esame anche al prossimo, col cavolo che si arrivi, alla fine dell’anno. >
Atsuya lo scrutò attentamente. Perché era capitato proprio a lui un migliore amico così petulante, che lo riempiva di insulti e di rimproveri, anche se era chiarissimo come in realtà si preoccupasse per lui? Non aveva il minimo senso logico. Non che il resto della sua vita ne avesse, però ...
< Ma perché siamo amici, io e te? > chiese con aria innocente.
< Non lo so e non lo voglio sapere. > fu la disinteressata considerazione, sebbene le gote di Terumi si fossero debolmente imporporate, e tutti poterono avvertire quella menzogna con grande facilità.
< Sarà che Afuro ha uno strano gusto per i ragazzi? > azzardò Kidou, osservando divertito la scena da dietro le lenti scure dei suoi occhiali, che impedivano a chiunque di percepire i suoi occhi color sangue.
< Io non ho nessuno gusto per i ragazzi! > si difese allora il diretto interessato, fulminando i suoi compagni di università che, chi più chi meno, avevano ripreso a ridacchiare con fare schernitore.
Sorprendendo sé stesso, il salmonato ancora seduto in terra trovò la forza per sospirare e si accasciò all’indietro, colto da un sonno improvviso. Beh, almeno più improvviso e profondo delle altre scosse di stanchezza che aveva avuto in quei tre giorni infernali.
< Andiamo, Afuro, non c’è niente di male ad ammettere di essere gay. > il tono sornione di Midorikawa non provocò altro che un ringhio sordo e risonante proveniente dalle corde vocali del biondo, consapevole che se avesse ribattuto ancora avrebbe dato conferma a quelle parole.
Però, dopotutto, non c’era davvero niente di così brutto nel confessare di essere omosessuale. L’unico problema era che, secondo i presenti nel salone di casa Kino, Afuro non solo era gay, ma anche cotto marcio di Atsuya. Quello sì, che sarebbe stato un guaio, giacché il rosa non giocava in quella “squadra”.
 

 
Andare in moto con il grado di sfiancamento che lo aveva avvolto non era stata esattamente un’idea grandiosa, comunque era sempre meglio che camminare sotto il temporale e senza l’ombra di un ombrello, giusto?
In ogni caso, almeno tornandosene a casa si sarebbe potuto risparmiare la tortura alla sua povera Raperonzolo che i suoi amici avevano progettato di portare avanti per tutta la serata.
E quindi ora eccolo lì, con il casco nero calcato in testa e le mani sul manico dello scooter, che sfrecciava velocemente sulle strade bagnate, ignorando completamente le persone che lo maledicevano per gli schizzi provocati dallo spostamento improvviso dell’acqua, dovuto al contatto rapido con le grandi ruote del suo mezzo di trasporto.
Per qualche assurdo motivo, Atsuya sentiva che si sarebbe potuto addormentare da un momento all’altro e, per la prima volta in settantadue ore di dormiveglia, stava cercando di impedirsi di cascare nel sonno che aveva desiderato per tre giorni e tre notti. La sua solita sfiga da quattro soldi si manifestò anche quando la dimora alla quale era diretto fu visibile: la benzina finì.
Grande.
Scese dalla moto con l’impulso di sollevarla di peso e buttarla nel fiume lì vicino, che tanto per la cronaca stava cominciando a straripare.
Atsuya Fubuki, pur essendo nato in Hokkaido durante una bufera di neve, odiava l’acqua, odiava il freddo e odiava la pioggia. Afferrò saldamente, per quanto la sua stanchezza glielo permettesse, lo scooter e riprese la sua “corsa”, stavolta a piedi e con l’immensa fatica di almeno trenta chili di metallo e copertoni da trascinare. In più, la pioggia era così violenta da fargli quasi male sulla testa.
Un fulmine squarciò il cielo nero accompagnato da un tuono repentino e molto forte; a seguito di ciò, il rumore di qualcosa che si rovesciava costrinse l’istinto del rosa a girarsi con apprensione. E cosa vide?
Quasi nulla. Ciò nonostante, assottigliando bene gli occhi per distinguere qualcosa in mezzo all’acquazzone e scrutando bene sotto ad un porticato semi nascosto, si intravedeva qualcosa.
Oh cazzo.
Era una persona. Rannicchiata, piccola e fragile, con la testa fra le mani nell’intento di proteggere le orecchie, le palpebre serrate e frementi così come le labbra pallide tirate in una smorfia. In circostanze normali, il più menefreghista dei gemelli Fubuki avrebbe lasciato correre e se ne sarebbe andato, ma in quella situazione, no.
Dopotutto, era il perfetto esempio di solitudine, la testa gli pulsava a causa dell’insonnia e le braccia gli stavano cedendo. Questo doveva per forza comportare qualche aspetto negativo, difatti la sua sensibilità era aumentata fin troppo, per i suoi gusti.
Abbandonò la moto lì dove stava e, raccogliendo le sue forze, si avvicinò alla figura. Indossava una felpa di lana che sembrava grigia e un enorme cappuccio le copriva la testa e una parte del viso. Le gambe lunghe, sottili e chiare erano praticamente semi nude e gocciolanti d’acqua, così come i piedi, anch’essi nudi, e le mani affusolate che stavano stringendo convulsamente la lana scura del cappuccio.
Atsuya si chinò per guardare quella persona, e sussultò quando riuscì a distinguere i lineamenti di quel volto aggraziato e contorto in quella smorfia: era una ragazza, e anche abbastanza piccola. Quanti anni avrebbe potuto avere, sedici al massimo?
< E-Ehi, stai bene? > domandò sfiorandole una delle mani. Questa volta fu lei a sobbalzare, e i suoi occhi si aprirono di scatto. Erano leggermente a mandorla, del colore del cioccolato più fondente, ed erano terrorizzati. Quel contatto visivo fra le iridi blu di lui e quelle nere della ragazza durò meno di un secondo, dato che un secondo tuono esplose, costringendo la giovane a chiudersi di nuovo in quell’espressione spaventata.
< Tu ... hai paura dei tuoni? > che domanda stupida. Ovvio che ce l’aveva. < Cosa ci fai qui, tutta sola, mezza nuda in mezzo ad un temporale, allora? > continuò senza attendere risposta alla prima domanda.
Come colpita da qualcosa, la sedicenne – sedicenne? – alzò di nuovo lo sguardo sul ventiquattrenne, il quale si accorse solo in quel momento di come stesse tremando come una foglia scossa dal peggiore dei venti. Tuttavia, non ricevette riscontri. Solo un cenno con il capo che gli fu impossibile decifrare. Però quella che aveva davanti era una ragazza di almeno otto anni più piccola di lui che lo stava fissando come fosse stata un cane bastonato, fragile sotto la pioggia, con fare disperato.
Per la terza volta, fu l’istinto di Atsuya a comandare.
Il giovane, di scatto, portò una mano dietro la schiena di quella personcina visibilmente in preda al terrore e l’altra sotto alle cosce bagnate, per poi sollevarla con una flemma e una forza che non pensava di poter dimostrare.
Prese un profondo respiro e, abbandonando lì la sua moto, corse per i restanti due isolati che lo dividevano da casa sua, mentre la fanciulla che stringeva fra le braccia tremava ancora. Era sicuro che oltre che dei tuoni, adesso la ragazza avrebbe avuto paura anche di lui, uno sconosciuto che l’aveva caricata di peso per portarla chissà dove. E allora si chiese perché, dopo un attimo di esitazione, la mano instabile di lei aveva iniziato a stringere forte, fortissimo, la sua giacca all’altezza del suo petto.
 

Per amor di Terumi (??) recensite questa storia, preghiera di una sclerotica autrice.
E con questo, diamo il via alle mie, ehm .... noticine d'autrice: ♥
 
Vediamo se indovinate chi è, la “fanciulla” terrorizzata dai tuoni che il nostro Atsuya ha trovato per strada. Dai, è facile, c’è scritto nei personaggi ...
E poi, per essere un primo capitolo, non è lunghetto?
Prima che qualcuno mi linci, io me ne vado.
Un bacione,
Anna. 
  
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