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Autore: RainAgainst    20/01/2013    1 recensioni
Ecco, io non odio nulla di tutto questo quanto i gatti.
Ho sempre odiato quegli animali brutti e puzzolenti, sporchi, pieni di artigli: mia zia ne comprò uno, qualche anno fa, e da quel giorno non ho più voluto metter piede in casa sua.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mio nonno odiava perdere. Mia nonna odia i miei jeans strappati. Mia mamma odia quanto metto lo stereo al massimo e mi chiudo in camera, mio papà odia se lo batto a tennis. Mia sorella odia quando la critico per futilità. Il mio compagno di banco odia la prof di latino e greco, la mia migliore amica odia le persone egoiste. Il giornalaio sotto casa mia odia quando la sua squadra del cuore perde, il fruttivendolo accanto odia se non riesce a girare le mele dal lato buono e la gente non le compra.
Ecco, io non odio nulla di tutto questo quanto i gatti.
Ho sempre odiato quegli animali brutti e puzzolenti, sporchi, pieni di artigli: mia zia ne comprò uno, qualche anno fa, e da quel giorno non ho più voluto metter piede in casa sua.
Ho compiuto varie sedute dallo psicologo, per analizzare la radice di questo mio odio, per vedere, non so, se fosse una fobia, un trauma infantile, o qualche cosa di simile, ma quello stronzo si è comprato una macchina nuova e io ne so quanto prima.
Dicevo – mi perdo spesso, mia mamma dice che è perché ho tante cose da dire ma non sono capace di finire i discorsi - ho sempre odiato tutti i gatti, perfino quelli di peluche: tuttavia, in quel felino abbandonato e disperatamente solo che aveva deciso di dimorare nelle scale del condominio dove vivo, vidi qualcosa di me: non so se fosse l’effetto delle sedute psicologiche, o se semplicemente lo trovassi uno specchio delle mie emozioni. So solo che in quel dolore amaro e racchiuso ci vidi me stesso.
E so che da quel giorno il mio rapporto con i gatti cambiò.
Era una mattina di novembre, ma fuori non c’era freddo. Stavo scendendo le scale di corsa, perché ero notevolmente in ritardo per andare a scuola, quando mi dovette bloccare di scatto per non pensarlo. Non urlai, solo perché la paura mi immobilizzò, ma le orecchie mi fischiarono in modo atroce, probabilmente perché quell’urlo mai gridato era risonato dentro di me.
Ero pronto per insultare quell’inutile palla di pelo, per prenderla e portarla fuori dal portone d’ingresso e augurarle le peggiori sventure a cui un gatto può andare incontro, quando il suo sguardo in qualche modo incrociò il mio, e vidi che una lacrime scese lungo il suo viso peloso, che si spense in un istante.
In un secondo lessi dentro di lui quella solitudine che da sempre mi accompagnava, quel rifiuto e quel lacerante dolore che da sempre conservavo silenziosamente dentro di me.
Le gambe mi si paralizzarono, tanto che dovetti sedermi su un gradino, il sangue nelle vene gelò, il cervello si pietrificò e per qualche secondo capii che cosa vuol dire incorrere in quell’eterno impasse che altro non è se non la morte.
Non appena rinvenni, il gatto era già scappato via, probabilmente perché il suo sesto senso felino aveva funto da spia dell’odio violento che in un primo momento avevo riversato su di lui.
Quella mattina non andai a scuola. Andai a cercare quel gatto. Era troppo me, dovevo vederlo ancora, dovevo parlargli, dovevo guardarlo.
Volevo fargli capire che non è solo, o quantomeno che io sono solo quanto lui. Che l’odio che sempre avevo provato verso quella specie animale così inutile si era dileguato.
Scesi giù nella buia e tenebrosa cantina, incorniciata da un filo chilometrico di ragnatele ed un esercito di acari di polvere, che stavano lì come testimoni di quanto il concetto di pulizia risultasse astruso alla cantina.
Il gatto se ne stava lì in un angolo, accucciato, ferito. Tremava, voleva fare le fusa, ma non sapeva nemmeno come si facessero, dal momento che in tutta la sua vita non aveva mai avuto nessuno che potesse apprezzarle.
Quando mi vide si alzò di scatto, impaurito. Forse il sesto senso felino non corrisponde poi così tanto alla realtà.
Sorrisi. Non so perché, dubito assiduamente che un gatto possa placare la sua paura vedendomi sorridere. Ma mi venne istintivo.
Come pensavo, lui non cambiò minimamente la sua espressione. Mi tranquillizzai: era un gatto normale, non aveva doti di preveggenza e lettura del pensiero umano. Fiu.
Fu solo dopo alcuni secondi, nei quali probabilmente esso percepì la mia innocuità, che lo vedi rasserenarsi. Mi venne addirittura incontro. Quando giunse all’altezza delle mie scarpe si fermò, alzò lo sguardo; cercava di dirmi qualcosa.
Non saprò mai precisamente cosa stesse cercando di comunicarmi.
Non saprò mai se in quel momento quel gatto avesse effettivamente capito il mio dolore, la mia solitudine, le mie ferite, e le avesse paragonate alle sue.
Non saprò mai perché decise di fidarsi di me, perché da quel giorno tutte le sere si arrampicava alla mia finestra, e giorno dopo giorno imparava a fare le fusa, a regalare un po’ di quell’amore di cui era saturo chissà da quanto tempo.
Non saprò mai nemmeno di che natura fosse quella lacrima che versò quella mattina.
Quello che so, però, è che, per la prima volta nella mia vita, trovai un amico. Trovai qualcuno che riuscì a non giudicarmi mai, trovai qualcuno che mi accettò per come ero, e che tuttora mi accetta per come sono. Trovai qualcuno che sapeva che cosa volesse dire sentirsi soli, abbandonati, malinconici e rifiutati.
Capii anche che i pregiudizi non servono, tantomeno gli odi ingiustificati.
Imparai ad amare.
Ritornai, dopo due anni, a casa di mia zia, che aveva tante cose da raccontarmi, tanto amore tenuto in un ripostiglio tutto per me, tanta felicità per aver ritrovato il suo nipote. Si mostrò sorpresa del mio ritorno, ma poi neanche tanto, perché, del resto, quando si è adolescenti si cambia idea con’un impressionante facilità, no?
  
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