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Autore: Cecile_du_Mars    20/01/2013    0 recensioni
Denise voleva solo andarsene e ricominciare,ma quella città glielo impediva.
Fece ciò che era giusto fare per ricominciare altrove,un luogo mistico e privo di tutte quelle paure che la inchiodavano ad una realtà tristemente vissuta.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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    -Me ne voglio andare,basta!

    

    -Non essere sciocca Denise dove vuoi andare? non hai un lavoro,devi finire gli studi

    

    -Li finirò altrove,qui mi sento morire,ogni giorno quell'autobus si prende una parte di me e la uccide, Quegli sguardi,quelle parole non dette ma sottintese,quella tristezza che leggo in molti sguardi non voglio arrivare a provarla anch'io mamma,sono stanca di tutto questo,me ne vado.

    

    -E dove te ne vorresti andare,sentiamo!

    

    -Ovunque lontano da qui.

    

    Le nostre conversazioni erano sempre cosi: io disperata che desideravo solo andarmene da quell'inferno e mia madre che mi ricordava che ancora non ero nessuno,che da sola non me la sarei cavata,che dovevo finire gli studi e così continuando fino allo stremo,finchè le mie lacrime non diventavano urla e allora mia madre usciva dalla mia camera lasciandomi sola nella mia angoscia priva di senso,secondo lei.

    

    Caronte,come chiamavo io l'autobus che ogni mattina mi portava da casa verso l'università dove studiavo,mi aspettava ogni mattina puntuale alle nove. Le solite facce tristi,i soliti sguardi bramosi delle mie giovani carni,ragazzini che saltavano la scuola sentendosi dei campioni di ingegnosità: questa era la jungla che trovavo ad attendermi sul mio Caronte,il traghettatore di anime irrisolte,anime perse,anime morte.

    Non mi sentivo partecipe di quella triste jungla ma purtroppo invece ne facevo parte. Guaravo fuori dal finestrino immaginando di essere su un treno con destinazione remota,stavo dirigendomi verso un posto dove avrei ritrovato il sorriso,libera di essere me stessa,priva di quelle paure che affollavano da sempre la mia mente.

    Invece no,dopo quaranta minuti di viaggio arrivavo alla mia destinazione: l'università; quella realtà tanto sognata al tempo delle superiori,un posto dove poter accrescere la mia cultura e dove conoscere persone nuove,più simpatiche dei miei compagni di classe,invece era un carcere come la scuola,un altro posto dove sentirmi sola e vuota.

    Credevo che in me vi fosse qualcosa di sbagliato: vedevo tutti cosi felici,così uniti,impazienti di correre dietro il loro sogno di diventare medici,avvocati,politici... invece io non ero così,a me tutto ciò non interessava,io volevo solo andarmene per sempre da quella tetra città la quale ogni giorno si portava via un pezzo di me.

    Meditavo quotidianamente su dove andare,avrei vissuto anche sotto i ponti se ciò avesse voluto dire libertà per me,ma qualcosa mi teneva legata con manette invisibili a quella realtà,a quelle paure che non mi lasciavano dormire la notte,a quel Caronte e ai suoi mendicanti disperati.

    Cos'era? Ancora non lo so. So solamente che quando cercavo di allontanarmi qualcosa mi riportava subito indietro,sui miei passi,e per un pò mi dava l'illusione che quella città fosse la mia eterna e giusta dimora,in cui coltivare me stessa e i miei sogni.

    

    Avevo 26 anni e non ero libera. Vivevo coi miei genitori,quattro gatte e un fratello che pensava solo al calcio e a farsi una "fidanzata" diversa ogni mese. Prendevo quotidianamente dal lunedi al venerdi Caronte e percepivo sui miei vestiti,sulla mia poca pelle non coperta da tessuto,sui miei capelli l'opprimente odore del desiderio carnale di quei passeggeri mattutini che si divertono a spogliare con gli occhi le ragazze. Li disprezzavo,li odiavo,sognavo che un giorno Caronte li investisse una volta per tutte cosicchè loro e i loro desideri perversi cessassero d'esistere e io potessi continuare la mia triste esistenza con uno sguardo addosso in meno.

    Mi sentivo costantemente osservata,giudicata,sbeffeggiata da tutti. In università mi isolavo apposta per non sentirmi quegli sguardi dilanianti addosso ma li sentivo comunque,sentivo nella mia mente i loro commenti privi di bontà nei miei confronti,sentivo quegli occhi,quelle spie rosse,quelle aride terre vuote che mi invadevano come fossi un terreno coltivato ma privo di padrone; già,non mi sentivo padrona di me stessa.

    Tutto questo,giorno dopo giorno,si portava via una parte di me,i miei genitori credevano avessi cessato di crescere,mi fossi fermata all'adolescenza e stessi facendo capricci da bambina. Non capivano.

    

    Una mattina,decisa sul da farsi,stanca di essere un nessuno in mezzo a tanti chiunque,presi l'ultima decisione della mia vita,la più importante.

    Se quella città non voleva lasciarmi andare,non voleva darmi una seconda possibilità di riscatto altrove,allora non l'avrei lasciata,l'avrei portata con me negli inferi.

    

    Caronte,puntuale come sempre,mi attendeva alle nove alla fermata,sapevo che quell'autobus era preso anche da una guardia giurata provvista di divisa ordinaria e di pistola,nel caso in cui nella sua banca ci fossero stati furti o bravate di tal genere.

    Salii come tutti i giorni sul portatore di anime perse,non guardai nessuno ma sentii i loro sguardi su di me.

    Quando l'autobus partì mi alzai all'improvviso e,con una mano in tasca,minacciai di fare del male a qualcuno dicendo che avevo un coltello con me,presi per il collo una vecchina la quale dallo spavento gli uscivano gli occhi dalle orbite,la tenevo stretta per il collo,guardavo quelle anime perse spaventarsi del mio comportamento,improvvisamente avevo dato una scossa di vita a quei passeggeri estranei dei dolori altrui.

    La guardia giurata venne verso di me e mi intimò di tirare fuori "l'arma" e gettarla a terra,io intimai al guidatore di non fermarsi,di continuare quella folle corsa verso chissà quale destino.

    Non avevo alcun arma da gettar via percui dissi alla guardia che no,non avrei gettato l'arma e che se si fosse avvicinato avrei ucciso la vecchietta,ancora più spaventata al suono di quelle profetiche parole di morte.

    Passarono venti minuti nel quale tenni in scacco l'intero autobus: i ragazzini che si credevano fighi perchè avevano saltato la scuola,le signore dirette a chissà quale lavoro logorante,gli uomini bramosi di carni giovani i quali in quel momento erano forse i più spaventati: già,una ragazzina cosi piccola e mite poteva trasformarsi in un assassina senza scrupoli.

    

    Non ne potevo più,si avvicinava la meta,la guardia giurata mi teneva in scacco con la pistola puntata contro di me,finsi di tirare fuori un coltello inesistente dalla tasca della giacca e lui sparò,la detonazione fu veloce,breve e secca,un colpo dritto in fronte e caddi a terra.

    Sorridevo,stavo avendo quello che volevo: la morte,l'eterno addio a tutto quel lerciume che mi accerchiava,l'addio a quella città e alle sue false illusioni. La morte.

    

    Non avevo nessun'arma,la guardia giurata lo scoprì solo una volta arrivata la polizia e portato via il cadavere.

 

    Il mio addio all'esistenza fisica fu plateale,teatrale.Come il mondo si aspettava io fossi in vita,lo ero in morte.

  
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