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Autore: The queen of darkness    21/01/2013    2 recensioni
Quando la vita presenta ghirigori stranissimi prima di donare una felicità assoluta.
( questa storia è stata precedentemente cancellata per motivi di formattazione. Vi chiedo di portare pazienza; i capitoli verranno ricopiati e la storia procederà con lo sviluppo ideato precedentmente. scusate per il disagio.)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: Questa storia è stata eliminata ieri perché non c’era il codice HTML, o una roba simile :).
Per coloro che già la seguivano, i capitoli verranno ricopiati uguali ai precedenti e la storia si svilupperà com’era programmata in origine, per tutte le “new entry”..buon divertimento!
 
-Saremo amici per sempre?
-Definisci il concetto di sempre-, rispose il ragazzo.
-Oh, andiamo, Spencer! Sempre, ovvero il più possibile, fino a quando  non esaleremo l’ultimo respiro, va bene?
Era raro farla spazientire, ma Spencer ci riusciva abbastanza spesso, e  con molto successo, tra l’altro. Camminavano fianco a fianco nel sole di mezzogiorno, avvolti nei loro cappotti. Era una bella giornata, abbastanza calda rispetto alle precedenti. Le temperature erano salite di qualche grado, ma il gelo nel cuore di entrambi non si era affatto sciolto.
Spencer Reid, sedici anni da poco compiuti, stava già lavorando alla sua tesi di laurea, la prima di quella che sarebbe stata una lunga serie. Col suo quoziente intellettivo straordinario, il ragazzo sapeva già che la sua vita sarebbe stata interamente dedicata allo studio, e la prospettiva gli pareva comunque allettante. Ma lasciare l’unica amica che avesse mai avuto era una pena troppo grande persino per un cervello così puramente timido e scientifico.
Era stata lei, con la sua allegria e il suo passato che le gravava sulle fragili spalle, a fargli conoscere il concetto di “svago”. La prima e l’unica che gli avesse dato un motivo convincente per leggere un libro lentamente, gustandoselo dalla prima all’ultima pagina, come diceva sempre.
Anche lei, se avesse voluto, si sarebbe laureata qualche anno dopo di lui, in quanto leggermente più giovane, ma faceva di tutto perché il suo rendimento non suscitasse né caldo né freddo nelle menti degli esaminatori.
Lei sosteneva che, per quanto amasse lo studio, non voleva essere sottoposta a esami e quanto ne conseguiva. Teneva la sua mente geniale celata sotto un cappello di lana blu, a domare i ricci castani, e non ci pensava troppo sopra.
Lo studio personale, Spencer (diceva quando lui poneva domande), è la più libera forma d’arte che possa esistere.
Il giovane stentava a capirla, ma aveva smesso di domandarglielo quando non aveva ottenuto risultati diversi da questo.
-Scusami- mormorò, perché non voleva farla arrabbiare proprio nel giorno del loro addio. La vide scuotere tristemente la testa, come a significare che non aveva importanza, era già stato perdonato.
Quel pomeriggio, sul tardi, lei si sarebbe trasferita ad Atlanta, dove una famiglia adottiva si era fatta avanti dopo anni di disperate richieste da parte della fanciulla. Il convincimento generale era arrivato quando il padre era rimasto senza una gamba dopo essersi addormentato ubriaco sulle rotaie di un treno.
A sorpresa, nella strada vuota e silenziosa, lei lo abbracciò stretto, facendolo barcollare e stringere a sua volta le braccia esili sulla schiena della giovane per sostenersi.
Forse era solo una sua impressione, ma la ragazza stava piangendo. Sapendo bene quanto lei odiasse farsi vedere debole, non indagò né fece commenti.
-Mi scriverai, vero?- chiese affogata nella sua spalla.
-Certamente.
-Non mi abbandonerai- chiese, ma sembrava quasi un’affermazione di auto-convincimento.
-Non, non lo farò-. Si sentì quasi in dovere di confermarglielo.
Anche lui, per il proseguimento della laurea, doveva spostarsi altrove, anche se per un periodo limitato. Las Vegas non era esattamente un luogo attrezzato per accogliere menti come la sua, e studiare a distanza stava cominciando a non essere più fattibile.
Ripresero a camminare come se niente fosse successo. Non osavano tenersi per mano.
-Tra qualche ora sarò su un aereo- osservò lei, guardando il vuota avanti a sé. I suoi tratti mediterranei risplendevano nel sole mite.
-Lo so.
-E tra una settimana lo sarai anche tu.
-So anche questo.
-C’è qualcosa che tu non sai?- chiese con un sorriso triste, ma senza nessun’ombra di derisione. Su questo si basava la loro amicizia: il completo e incondizionato rispetto reciproco, per due persone umiliate costantemente anche senza nessun motivo valido.
Arrivarono davanti alla casa della ragazza, ma si attardarono un po’ sul vialetto. La madre doveva essere probabilmente ubriaca; non aveva battuto ciglio alla notizia dell’adozione, e l’aveva anche maldestramente aiutata con i bagagli.
Vide gli occhi neri dell’amica posarsi sulla casa che le aveva causato umiliazione forse più di tutto il resto, nella sua vita: le mura scrostate, il giardino incolto, le erbacce sulla scalinata d’ingresso, la zanzariera bucata che sbatteva sullo stipite, il legno scolorito degli infissi, le finestre celate da tendine logore. Residui di steccato giacevano lungo il perimetro del giardino, come a testimoniare la grottesca esistenza di una delimitazione assoluta, per quanto imprecisa.
-Addio, Spencer.
-Non dire così, ci rivedremo- disse il ragazzo, prendendole le mani e stringendole. Era il primo contatto che intraprendeva spontaneamente, e le infuse un po’ di forza.
-Hai ragione- sussurrò. –Ti voglio bene.
Lo baciò leggermente su una guancia, regalandogli una sensazione che non provò mai più nella sua vita, e si voltò verso casa, camminando attentamente sulle mattonelle sporche che attraversavano l’erba secca.
-Ti voglio bene anch’io, Eva.  
  
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