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Autore: The queen of darkness    24/01/2013    0 recensioni
Non sempre nella vita prendere i pezzi di quello che è stato e metterli insieme per formare quello che sarà è semplice.
Tuttavia, delle volte ci si riesce.
E se si fallisce, si è pronti a cadere. Ma con la consapevolezza di averci provato, e di essere stati vicini al risultato.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Si sentiva una turista mentre, con un fogliettino da block notes, girava per le strade alla ricerca della casa giusta.
Una fitta di nostalgia l’aveva presa quando aveva notato l’indirizzo, terribilmente vicino a quartieri residenziali di famigliole felici con mariti premurosi e casalinghe dal caschetto biondo, le cui uniche preoccupazioni erano i saldi di fine stagione o cosa cucinare a pranzo agli allegri figlioletti.
Un schifo. Che, tra l’altro, non aveva mai posseduto.
Aveva sempre odiato le famiglie da copertina, o le famiglie in generale. Erano la finzione fatta persona; i tradimenti, i litigi, le incomprensioni, il marcio, c’erano sempre, eppure si ostinavano a nascondere il loro lato umano sotto strati di felicità costruita su castelli di carta.
Spesso era lei a soffiarci sopra e a far crollare la torre di assi di cuori, un compito che aveva smesso di fare apposta. Semplicemente viveva e lasciava vivere cercando di non entrare mai in contatto con persone che rientravano nella categoria “umani”.
Ecco perché lei e Sarah, diverse come il giorno e la notte, erano diventate amiche.
L’altra era figlia unica di genitori separati che passavano il loro tempo a spendere soldi o a guerreggiare fra loro. Per fare in modo che uno risultasse più simpatico dell’altro le compravano qualsiasi cosa era in loro potere con la scusa di farla felice, ma la studentessa non era certo tipo da farsi abbindolare da cose del genere. Era più sveglia di quel che pensavano.
In realtà, anche se si comportava da persona superficiale, Sarah non lo era affatto. Anche se non leggeva come faceva invece Jane oppure non rifletteva particolarmente sulla vita e i suoi colpi di scena rimaneva comunque una mente brillante e attiva, quando voleva.
Era lei che per il compleanno le regalava dei grossi volumi della letteratura classica da divorare, oppure faceva in modo che il suo mondo non  fosse grigio a tal punto da spingerla a calare la lama una volta per tutte sui suoi polsi, per farla finita definitivamente.
Le era molto grata di non lasciarla mai morire in un bagno lurido.
Svoltò una seconda volta attraverso un incrocio, nel marciapiede lindo e perfetto, mentre il verde intenso dei giardini stava per essere sostituito da un colore decisamente meno artificiale. Le case si facevano più semplici, e lei si rincuorava vedendo steccati leggermente malandati e garage ricoperti dal disordine.
Cercò un riferimento, e riguardò il foglio.
Sì, era la via giusta. Ci era passata diverse volte durante la sua permanenza nella città, cioè da tutta la sua giovane vita, quindi era certa di non sbagliarsi. Camminò lungo la strada per trovare il numero civico e, vedendo il 18 della schiera, si fermò e attese di essere sicura al cento per cento.
L’abitazione era fatta di legno dipinto di bianco, abbastanza elegante ma anche semplice. Nel vialetto non c’erano macchine, anche se l’orario dell’appuntamento era stato fissato il giorno prima, e il prato curato era un po’…spelacchiato. Si scorgevano impronte di scarpe sull’erba che l’avevano reso pieno di piccole dune, come un deserto verde.
Suonò il campanello: “Famiglia Hall”, recitava la targhetta scura, mezzo arrugginita.
Dovette aspettare un attimo prima che il cancelletto si aprisse, e che una testa sbucasse dalla porta in fondo. La casa non era molto grande, quindi calcolò che la famiglia non dovesse essere troppo numerosa.
Non l’avevano infatti avvertita riguardo al numero di bambini di cui occuparsi, e sperava che non fossero sette come quelli della donna sul giornale, una disperata casalinga che voleva farsi una vita del tutto assorbita dai suoi adorabili pargoletti.
Chiuse il cancello dietro di sé e arrivò verso l’entrata, dove stava un ragazzo poco più grande di lei. Al telefono aveva parlato con una donna, una bella voce calda e dall’accento familiare, ma non le sembrava decisamente il caso. Che fosse uno scherzo?
Decise di no. Una persona adulta non avrebbe fatto tutta quella farsa se di mezzo c’era anche un’agenzia.
-Posso aiutarti?- chiese dubbioso il ragazzo, guardandola senza capire.
-Sono la nuova baby-sitter…- disse lei titubante. Possibile che avesse sbagliato casa?
Il viso dell’altro parve illuminarsi. –Ah, già, me l’avevano detto…pensavo però saresti arrivata molto più tardi. Prego, entra.
Detto questo, si scostò per farla passare. Lei sorrise cortesemente, accettando l’invito, e fu accolta in un ingresso originale e pulito, con un appendiabiti di ferro battuto e un tappeto come non ne vedeva da anni, fatto con singolare cura.
-Non devo occuparmi di te, vero?- chiese Jane alzando un sopracciglio, non vedendo la minima traccia di una presenza infantile, come testimoniato dal salotto in ordine e dalla cucina splendente.
Sorprendentemente, il ragazzo si mise a ridacchiare alla battuta squallida, cosa che nessuno faceva da molto tempo. Lei non era tipo da scherzi o che fosse trascinante nell’umorismo, e rimase del tutto spiazzata che la nota di sarcasmo fosse stata accolta con divertimento.
Un mormorio fresco, che la rallegrò inconsapevolmente. Non pensava facesse ridere, o anche solo sorridere. Invece il padrone di casa aveva appena espresso il contrario.
Un piccolo raggio di sole nella desolazione, finalmente.
-No, no, non preoccuparti. Credo proprio ti abbiano chiamata per Kim - affermò sorridendo. –Appoggia pure la giacca se vuoi, io intanto vado a chiamarla.
Jane obbedì, senza dire niente. Sfilò la tracolla borchiata, la coprì col cappotto nero su un gancio e aspettò paziente sulla cornice della porta del soggiorno.
Sentì dei passi sulle scale mentre saliva, per poi scendere accompagnato da una risata gioiosa e una vocina sottile, con un tramestio impaziente di piccoli piedi scalzi.
Un angioletto trotterellò verso di lei non appena la individuò, e la ragazza rimase assolutamente immobile.
La bambina era bellissima, come non ne aveva mai viste: i capelli sembravano soffici mentre ondeggiavano in morbidi boccoli biondi, e gli occhi intelligenti erano azzurri come il cielo terso dell’estate.
Una figura graziosa con un paio di jeans e un maglioncino evidentemente casalingo. Sembrava l’innocenza modellata a forma di bambina.
Non le erano mai piaciuti i capelli biondi, preferendo quasi i propri, marroni e banali. Ma in quel caso non le pareva esistesse colore più adatto di quello, per una testolina tanto graziosa.
Battendo allegra le mani piccole e delicate, la bimba ridacchiò entusiasta. –Come ti chiami?-, chiese con un sorriso da far sciogliere i ghiacciai.
-Io sono Jane - disse lei riprendendosi e abbassandosi alla sua altezza, tipica dei bambini di cinque anni.
Non ricordava chi le aveva detto che ci sapeva fare con i più piccoli, forse il viscido di turno alla Casa, e sperò che tale affermazione fosse ancora valida. Anche se pensava che con Kim l’impresa non sarebbe stata particolarmente ardua.
-Io invece mi chiamo Kimberly…- guardò un attimo indecisa la punta dei propri piedi. Poi rialzò la testa con un sorriso meraviglioso. –Ma tu puoi chiamarmi Kim!
Alla futura baby-sitter venne da sorridere istintivamente, un’azione incerta e lieta come può esserla quella di una persona che non mostra i denti da anni, ormai.
Era da tantissimo tempo che non le veniva spontaneo ridere, o non usare il cinismo per difendersi, stare al gioco e divertirsi. Non ricordava quand’era stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva fatta sentire bene tanto da sorridere, ma era comunque molto, moltissimo tempo.
E quella bimba ci era riuscita nei primi dieci minuti di conversazione.
Le prese un dito trascinandola verso di sé leggermente. –Tu sai fare le trecce?
-Sono la cosa che so fare meglio- rispose sinceramente. In effetti era vero, le trecce erano l’unica acconciatura che le riuscisse bene e che, perciò, non faceva mai su sé stessa. Voleva essere brutta, a differenza di Sarah.
L’altra rise di gusto, deliziata, spiegandole che le piaceva moltissimo quando qualcuno le pettinava i capelli.
Jane, oramai, avrebbe fatto qualsiasi cosa Kim le avrebbe detto di fare, presa com’era dalla meraviglia del vederla muoversi, ridere, parlare con la sua pronuncia a volte insicura, ma sempre pervasa da un tono allegro. Completamente affascinata, si era dimenticata del fratello che aveva assistito alla scena sorridente.
I due non si somigliavano per niente. Il più grande aveva una massa di lunghi capelli neri, che lambivano le spalle in un’unica scia uniforme e lucente, lasciata sciolta non di certo per trasandatezza ma solo come gesto di libertà. Gli occhi erano doppiamente più chiari se paragonati a quelli della sorellina, con delle ciglia che sembravano essere state trattate con il mascara, in un effetto copiato e desiderato da migliaia di modelle, mentre la bocca carnosa al punto giusto si stagliava perfetta nel suo viso bianchissimo, pallido quasi  come il suo. Gli zigomi regolari, se visti con una luce diversa, potevano sembrare quasi taglienti, acuminati.
Sognò per un momento di accarezzare la pelle liscia con l’indice, un tocco sicuro fino a scendere verso la mascella, sfiorare il mento, poi la clavicola…
Ma cosa andava a pensare? Era assolutamente inammissibile, l’aveva appena visto e non sapeva nemmeno come si chiamava!
E poi lei era lì per sua sorella, non di certo per lui. Per non cedere all’imbarazzo, decise di fare la prima domanda sciocca che le passò per la testa, ma che ripensandoci non lo era affatto:- A che ora mi caccerete?
Un angolo di quella bocca tutta da assaggiare si alzò in un sorrisetto inequivocabile. –Io torno alle sei- disse. –Posso occuparmene io, dopo. Vero piccola? – aggiunse rivolgendosi ovviamente alla sorella.
La bambina rispose con un assenso cinguettante. Poi, assicuratosi che non  le servisse nient’altro, le affidò Kim.
Si diresse in entrata prendendo un cappotto molto simile al suo, per poi rispuntare un attimo nel salotto. –Bella borsa- disse solo, poi salutò e uscì chiudendosi dietro la porta con tocco leggero.
Jane era rimasta un po’ scombussolata: la gente non le faceva più effetto da moltissimo tempo, ormai, e non capiva come uno sconosciuto neanche particolarmente bello (come testimoniavano il naso interessante e l’altezza molto più elevata della sua)potesse suscitarle una sensazione tanto devastante.
Sicuramente era uscito con la propria ragazza o una folta compagnia di amici, anche se gli abiti scuri e cupi, rischiarati solo dalla presenza della bimba, parlavano di una realtà diversa.
La piccola la guidò abilmente al piano di sopra continuando a parlare a raffica con la sua voce allegra, schivando un pianoforte e una camera lugubre con poster misteriosi dai paesaggi ombrosi o albergati dalla nebbia.
Non ebbe tempo di notare i dettagli: Kim la guidò nella propria camera e, per il resto del pomeriggio, Jane le pettinò i capelli ascoltando affascinata i suoi racconti di anima innocente.
  
  
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