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Autore: Artemisia89    14/08/2007    3 recensioni
Era sempre così.
[lei piangeva e la pioggia brillava]
Ed era sempre troppo presto, o troppo tardi.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tifa Lockheart, Vincent Valentine
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Inside us [our memories]

[Chapter two]

 

 

Non si saranno parlati poi molto, il che è un peccato, pensa Tifa. Perché lui ha una bellissima voce, così bassa e roca, che se le chiedesse qualcosa, qualsiasi cosa, gliela darebbe senza alcuna esitazione.

Stanno viaggiando all’interno della nave di Cid da una settimana ormai, e per quanto possa sembrare piccola, è difficile ritrovarsi tutti insieme nello stesso punto. Sono sempre sparsi tra l’infermeria, ad accertarsi delle condizioni di Shalua che per salvare Sheilke si era lasciata massacrare da Azul, o nella sala computer, dove per l’appunto si trovava Sheilke, intenta perennemente a trafficare con i portali, sempre china, con gli occhi azzurri lucidi.

E poi altre stanze: dove poter riposare, o raccogliere le idee. Anche leggere e immaginare i paesi lontani che Cid aveva visitato. Una mappa della città di Troia capeggiava sopra la porta dell’alloggio di Cid, quasi a voler ricordare l’eco della battaglia eroica che avevano sostenuto.

Lei non si trovava in nessuna di queste stanze. Quando si svegliava nel bel mezzo della notte, si dirigeva senza indugi al ponte di comando, e dopo aver salutato pilota ed operatori, che per quanto presto si svegliasse erano sempre i primi ad arrivare, scendeva nella parte più bassa. Arrivava alla punta massima di prua, e poi si sedeva a guardare fuori.

Sotto di lei, il buio e le nuvole [ancora più sotto, i corpi di quelli che aveva lasciato morire]

La punta della nave era totalmente trasparente, e regalava la splendida impressione all’osservatore di fluttuare sopra il cielo, quasi di essere parte del panorama.

A Tifa piaceva sedersi ed annullarsi.

Non era una mente, e non aveva più corpo. Non aveva sentimenti, paure o desideri. Era una particella di materia, uno sbuffo di vapore. Era niente ed era tutto. E volava, ancora.

Sentì i suoi passi avvicinarsi a lei, come l’eco distante di un ricordo, come il suono della sveglia durante un suo, personalissimo ed intimo sogno. Non si girò naturalmente, lasciò a lui il compito di riportarla indietro [o di lasciarla lì].

Si sarebbe giocata i suoi orecchini di perla, l’unico vezzo che mai si era concessa, oltre all’anello di sua madre, che se ne sarebbe andato. Era da una settimana intera che si evitavano. Non che loro avessero mai avuto un rapporto intimo, anzi. Non avevano mai avuto nulla oltre al semplice doveroso compito di badare l’uno all’altra quando qualcuno o la morale lo ordinava.

Il che, era un peccato, pensò di nuovo Tifa. Perché lui, davvero, aveva una voce così, così

<< Tifa >>

Il fruscio del suo mantello, mentre si faceva sempre più vicino alla sua schiena, sembrava trapanarle il cranio. Quando era venuto a riprenderla, ancora seduta nell’alloggiamento della mitragliatrice, quel mantello sembrava risplendere e proprio di quella stoffa color porpora l’aveva ricoperta quando, dopo aver sussurrato un "mi dispiace" rotto dalle lacrime e dalla stanchezza, era svenuta tra le sue braccia.

<< Tifa >>

Era ancora troppo presto per l’alba. Tifa sorrise tra se e se: forse non sarebbero mai riusciti a vedere sorgere insieme il sole, per quanti sforzi e volontà potessero metterci. Era sempre troppo presto [o troppo tardi].

<< Non avresti potuto fare nulla >> disse lui, ancora in piedi dietro di lei.

<< Taci >> rispose lei, fredda. Eppure, eterea. Inconsistente come le nuvole.

<< Sarebbero morti comunque >> seguitò Vincent, incurante.

<< E io? Perché sono ancora qui…ancora viva? >>

Tifa si alzò e lanciando un ultimo sguardo fuori, si voltò, cercando di non immergersi in quei occhi così rossi, così limpidi [e torbidi] come tutto quel sangue che aveva visto prima di svenire. Guardava dritto davanti a se, nel punto in cui, oltre la stoffa doveva esserci il suo collo bianco. La rabbia, l’aveva invasa all’improvviso.

<< Perché? >> soffiava, a meno di un passo da lui. Così vicini, così…non lo erano stati mai. [La rabbia]

Aveva davanti agli occhi ancora l’immagine di quella brunetta dagli occhi azzurri. Quanta determinazione, quanta forza, quanto coraggio dissolti nel vento. Era come era sempre stato. Lei piangeva e la pioggia cominciava a brillare. [Non era svenuta mentre la guardava tornare al flusso vitale]. Si era persa dopo, tra le braccia di lui.

<< Perché? >> ancora, quella domanda. Vincent si chinò a guardarla, le labbra chiuse, gli occhi duri un po’ tristi. Pensava che non c’era una risposta adatta a quella domanda. E infatti, rimase in silenzio. E di questo, poi, se ne pentì.

Ma di quello che fece dopo, no. Di quello non se ne pentì.

Tifa sentì le mani guantate di Vincent accarezzarla, fino a scendere e posarsi sulle sue spalle nude: guardava ancora fissa davanti a se, il collo di lui, e il suo viso che si chinava verso di lei.

Pensò ancora una volta, che la sua voce aveva un che d’ipnotico.

Le sussurrava qualcosa ad un soffio dalle labbra, e lei restava in silenzio, mentre dentro di se urlava che stava morendo, che si sentiva morire dentro, mentre lui si portava a qualche centimetro dal suo viso.

Le accarezzava le guance, attraversandogliele con le dita, con una dolcezza che in molti avrebbero faticato a ricondurre a lui. Tifa si sentiva come una bambina [tremava] così vicina al suo corpo, alle sue labbra.

L a baciò, lasciando che le mani di lei, dopo qualche attimo di smarrimento cercassero i suoi capelli.

E fuori il sole sorse.

Inutile dire che non lo videro [perché loro non ci riuscivano mai].

 

Vincent guardava Tifa, che a sua volta guardava a terra.

Oltre Lucrecia, non aveva mai avuto nessun’altra. E in fin dei conti, Lucrecia non l’aveva mai nemmeno sfiorata. E se lo aveva fatto, era stato molto, molto tempo fa.

Tifa invece...

<< Vincent >> la voce di lei che tremava. Non riuscì a non pensare che era davvero tenera.

Rimaneva seduta, composta, con la testa bassa, davanti a lui. Ostinatamente con gli occhi sempre intenti a non fissarlo [per paura di morire di nuovo]. Eppure voleva sentirlo parlare di nuovo, voleva essere ancora toccata da lui. Voleva morire[e annegare, e volare, e svanire] di nuovo, e dimenticare.

Vincent le porse le mani denudate dai guanti, e la invitò a sedersi accanto a se. Tifa si accomodò accanto a lui, lasciandosi quasi trascinare. Prese un lembo del suo rosso mantello e se ne ricoprì: ancora più vicina a Vincent, sempre più vicina. Nascose il viso nel suo torace, e quando parlò, la sua voce ne uscì soffocata.

Lui si fece più vicino, per ascoltarla. Sembrava davvero una bambina.

<< Ho paura >>

Aveva paura, una paura dannata, che la soffocava. È così dunque, che ci si sente? Pensò Tifa. Si ha così voglia di essere deboli, di lasciarsi andare, di affidarsi. Di morire.

<< Non mi riconosco, Vincent >> la sua voce, contro il suo petto; il suo peso sulle sue gambe.

<< Non è di questo che hai paura >> [non di non riconoscere te stessa]

Tifa si zittì. Moriva, moriva…

<< Non di nuovo Vincent, ti prego…non di nuovo. >> la sentì singhiozzare, mentre con le mani [ma di me] strette a pugno lo colpiva leggermente: e lui guardava la sua schiena e la cercava sotto il mantello, arrivando al suo volto. Il capo ammantato di rosso, il viso pallido e quegli occhi neri e umidi come occhi di corvo.

Le baciò le lacrime: immobili ai limiti degli occhi.

[Lei piangeva, e la pioggia brillava]

Il sole per loro, non sorgeva mai, si limitava a nascondersi, a farli disperare, lasciandoli sempre nell’ombra a cercarsi e a non trovarsi.

<< Tifa, non è di me che hai paura. >>

Lei taceva, il viso contro il suo petto, sotto il mantello rosso.

<< Ti prego…non parlare.>>

Vincent portò gli occhi in alto, verso il soffitto, ed appoggiò il suo mento sul capo di lei. Prima o poi la storia si sarebbe ripetuta: ma se lei preferiva ritardare, non sarebbe stato certo lui ad impedirglielo.

[Ti prego, non parlarmi di quel giorno]

 

Doveva essersi addormentata.

Tifa alzò la testa e con gli occhi ancora assonnati si guardò in giro: era sola.

Vincent però, le aveva lasciato il suo mantello, con cui si era ricoperta, proprio come avrebbe fatto una bambina con la sua coperta. Se rimaneva ferma, a respirare poteva sentire il profumo di Vincent addosso a lei e a quel mantello che era così caldo, e leggero. Se lo strinse ancora di più addosso, abbandonandosi alla sua morbidezza. Poteva credere che fosse Vincent: chiusa in quella stanza, poteva concedersi l’ennesimo sogno [che il ricordo non sarebbe mai affiorato del tutto].

Si alzò, con ancora il suo mantello sulle spalle. Per quanto potesse essere alta, lui lo era più di lei. Il mantello era come uno strascico [di sangue] di sposa.

Lo cercò per la nave, trovandolo proprio [sempre] a prua, intento a guardare la terra oltre le nuvole. In silenzio, gli si avvicinò e gli si mise accanto.

Piano, quasi non vista, gli prese la mano e lui, altrettanto lentamente gliela strinse. Tifa sospirò.

Avrebbe dovuto essere quello, il momento.

[Credo di essermi innamorata di te, Vincent Valentine]

Ma lei lasciò stare.

In fin dei conti avevano così tanto tempo.

[Davvero]

 

 

 

Tre giorni. Altri tre giorni ed arrivarono. Sotto di loro eserciti di Deepground frementi.

Battaglia, sangue, frastuono, mako, morti. Lo vide partire alla ricerca dei più forti e lo lasciò andare con la morte del cuore: anche il bacio che gli diede davanti a tutti quanti e che lo lasciò basito per un attimo, sapeva di morte. [Seppe di morte ad entrambi]

E di lacrime [lei piangeva e la pioggia brillava].

Avrebbe dovuto dirglielo [diglielo, diglielo!], ma non ce la fece.

Quella cosa, quelle parole, le urlò solo quando lui era stato forse troppo lontano per sentirle.

[Ritorna]

Ritorna da me.

Solo da [per]me.

 

Vincent Valentine portò fuori da Nero, Yuffie Kisaragi e la lasciò semisevenuta e tremante accanto ad una cassa. Nero vacillava come un ubriaco: le mani a penzoloni, brandelli di oscurità che gli fluttuavano attorno. Andava vomitando parole cercando di riuscire a camminare. Sempre il suo amato fratello su quella bocca coperta da bianche cinghie.

[Abbiamo sempre sulla nostra bocca morente il nome degli amati]

Vincent lo seguì, pensando a ciò di cui aveva davvero paura Tifa.

Non che lui morisse [lui non poteva], ma che decidesse di non tornare.

E lui?

[ah, come li odiava quei topi senza coscienza e senza memoria]

Di vederla piangere ancora, e di vedere la pioggia brillare. Come quel giorno.

 

Fuori Tifa stava cercando di guadagnarsi la strada per i reattori: ottenevano tanto terreno quanto ne perdevano. Le strade erano dei veri labirinti e sempre pullulanti di Deepground, fortunatamente erano riusciti a stabilire dei posti di guardia, dopo aver liberato alcune preziose zone.

Nel sentore della guerra, lei volava.

E a volte, si chiedeva se non fosse il piacere quello che la pervadeva quando il suo corpo si scontrava con quello degli altri. La memoria invece fluttuava, per poi prendere la rincorsa e volare ancora più in alto del corpo. Andava a cercare lui, lasciando che quella commistione di sangue, muscoli e nervi se la cavassero da soli in quell’inferno di strade rigurgitanti di demoni.

 

Quel giorno, la situazione non era poi così diversa da quella che stava vivendo adesso: solo che pioveva. Pioveva a dirotto.

Una sorta di pioggia incessante che rendeva il corpo insensibile. Morivi e non te ne accorgevi.

La pioggia si era trasformata in una sorta di cortina di vetro che appannava la vista di ognuno. Era difficile tagliarla, penetrarla con lo sguardo. Tutta quella pioggia spegneva i colori. Sembrava di muoversi in un vecchio microfilm rovinato dal tempo.

Chi era rimasto urlava, lei invece combatteva [contro la sua paura].

Era tutto buio, e soffocante. Quella pioggerellina sottile si attaccava ai vestiti e ti rendeva terribilmente pesante. Ogni singolo passo sembrava una conquista.

Nel buio, c’era chi urlava. [Ma per lei era tutto così lucente]

Tifa invece restava in silenzio, e in segreto, si beava di tutta quella distruzione.

Era una sorta di estasi sanguigna, fatale, liberatoria. Lo sapeva che era ad un passo dal non ritorno: glielo gridavano in continuazione le sue ferite che sanguinavano copiosamente senza dare un cenno di arresto.

[E lei vedeva che la pioggia brillava così forte]

Quella che danzava tra i capelli bianchi [del mostro il mostro] del fantasma che le puntava la spada sembravano lacrime. Le stelle cadenti che rigavano il cielo d’estate brillavano nello stesso modo.

Tifa sorrideva alla morte, perché sapeva che sarebbe arrivata in modo dolce.

Con un unico rimpianto.

[Ed era sempre così: non si incontravano mai]

Stava per chiudere gli occhi [e negarli finalmente a tutta quella luce] quando si ritrovò costretta ad aprirli, restando folgorata dal rosso del sangue, dal rosso del suo mantello.

Sempre lui, sempre il solito eroe. Sempre Vincent Valentine.

Quando non avevano avuto più nulla di cui temere [con la pioggia che cadeva e brillava sempre più forte] lei si era avvicinata a lui. Perché lui se ne stava andando, senza curarsi di lei, senza voltarsi indietro.

E lei aveva aspettato, ascoltando i suoi passi. La pioggia la mondava.

Aveva mormorato il nome di lui, appena udibile nel fragore della tempesta [delle lacrime] ma lui si era fermato.

Si era voltato.

E aveva visto, che le lacrime di Tifa brillavano, mentre guardavano la ferita che ricambiava il suo sguardo come un grande, unico occhio nero. E poi lei aveva urlato contro di lui.

L’aveva urlato che l’amava.

[Nel sussurro invece si sentiva la parola ritorna da me ritorna per me perchè ti amo ti amo]

 

Chaos era un universo oscuro di non vita, di antimateria, di negazione, di freddo. Chaos era una luce maligna e perforante, era la lussuria del sangue che viene raggiunta dagli assassini avviluppati dalla peggior degradazione. Eppure Chaos era la libra. Chaos era la giustizia divina di uno strumento impassibile.

Chaos era l’unica scintilla umana nella folgore del messo immortale.

L’ultimo dono di Lucrecia brillava nel suo cuore: pulsava di una luce ambrata quasi alludendo agli occhi della dottoressa della quale un tempo, forse, aveva amato l’immagine. Brillava tenera e polverosa nel suo corpo; secca, vivida ma non armonica.

Ma ce l’avevano fatta, pensò Vincent mentre sprofondava.

Ce l’avevano fatta, si ripeteva mentre sentiva che la pioggia si faceva più fitta [lei è come la pioggia] e si abbandonava al [lei è nella pioggia] sommesso sussurrare di quell’imperativo.

[Ritorna]

[Ritorna]

[Ritorna per me.]

[Ritorna da me.]

 

 

 

C’era solo lei ad aspettarlo [e con lei, ancora qualcos’altro di bellissimo e terribile].

Fuori dalla grotta, sapeva che c’era solo lei, che lei e nessun altro poteva tendere verso di lui le mani e accettare il suo ritorno.

I frammenti dell’ultimo dono di Lucrecia, rotti in lui, gli pungevano il cuore, ma lo avevano reso umano.

Dietro il suo mantello, Lucrecia sorrideva nel suo sorriso eterno, perenne, immutato ed immutabile, cristallizzata nella sua prigione trasparente. Le cantava il suo arrivederci dal buio della grotta [ma quando hai visto la luce non puoi tornare al buio], mentre lui già, voltandole le spalle, non la sentiva più.

Il primo raggio di luce lo sorprese, cogliendolo impreparato e apparendo a lui più potente e maestoso di quanto lo avesse, per anni, immaginato. Il secondo raggio gli ferì lo sguardo, costringendolo ad abbassare gli occhi verso una figurina in controluce in piedi sull’altura, poco distante da lui.

Alle sue spalle, il sole, che diventava sempre più grande mentre si avvicinava, fino ad apparire nella sua magnificenza, nella sua opulenza greve e mistica mentre gli occhi rossi di lui fissavano quelli ossidiana di lei, e le sue mani si posavano in quelle di Tifa.

Si voltarono, obbedendo ad una volontà più grande di loro.

[Fuori ad aspettarlo c’era Tifa, c’era il sole, c’era un tempo che aveva pregato di vivere]

E per un attimo lungo quanto gli anni passati a piangere lacrime brillanti, lasciarono che i loro occhi restassero accecati da quel sole, e i loro corpi, dissolversi immobili nella sua luce.

 

 

FINE

 
 
 
 
 
 
Oddio.
Una delle cose più importanti che io abbia scritto fino ad adesso. Non la più importante, ma sicuramente ha il suo posto d’onore. È AU, chiaramente. Non c’è stato nessun giorno, non ci sarà mai e Tifa non è la persona più adatta a Vincent. È Yuffie quella destinata ad essergli accanto: ci sono un bel po’ di fanworks a riguardo e molti potenziali elementi di prova nel gioco. Ma ho amato il personaggio di Vincent tanto lentamente e profondamente quanto sia stata violenta l’infatuazione che ho provato per Tifa. Personaggio che non conoscevo per niente poi. Ma è andata così.
Come sa chi ha giocato a Dirge of Cerberus, non è Tifa che va a prendere Vincent ad Edge, e Tifa non è mai stata nel quartier generale WRO durante l’attacco, come non ha mai incontrato Shalua Rui.
Non hanno un benedettissimo punto d’incontro questi due, ma non posso fare a meno che pensare che se per loro ci fosse una possibilità andrebbe così. La loro sarebbe una storia di buio e poi di luce fortissima, di tanta pioggia come anche di molte lacrime, di sorrisi di dolore, di gioia mite, improvvisa e calda.
Cloud non può amare Tifa, perché ha alle sue spalle una donna cristallizzata nel suo atto d’amore, pietrificata dalla e nella morte, e quindi scevra da giudizi, non è Cloud quello che Tifa può amare perché non riuscirebbe a tenere a bada un tale corposo ventaglio di sentimenti, di assoluto. Tifa è una persona incredibile, che non si risparmia. Tifa non è debole ma ciò non toglie che non abbia voglia d’esserlo, e solo Vincent che è così desideroso di vivere un tempo che non ha mai vissuto, è l’unico tra tutti pronto ad accogliere la sua possibilità di debolezza.
Credo di dover concludere adesso: io per prima a volte mi annoio a leggere le fastidiose postille di gente che si atteggia a scrittore terminando i propri racconti con uno pseudo-pessimo-esempio di saggio breve.
Perdonatemi questa mancanza nei vostri confronti, ho tenuto troppo a questa storia.
Un ringraziamento ad Helen Lance che è stata la prima a leggere l’embrione di questa storia e che mi ha detto esattamente quello che volevo sentire incoraggiandomi quindi ad andare avanti e a non seppellire nella cartella Bozze la storia [sappi tesoro che è nata tra una delle nostre tante conversazioni], e a Lady Antares Degona Lienan che ha riacceso di una luce diversa le prime pagine della storia, servendosi di una sola parola.
 
Sinceramente vostra
Artemisia
  
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