In
un qualche luogo che non conosco, che nessuno
conosce, vive un uomo.
Costui
passa le giornate sulla soglia di casa, dove
tira costantemente un forte vento che gli batte contro; lui
è sempre lì, prende
una manciata di foglie e le tira davanti a se.
Le
foglie avanzano, s’insinuano tra i soffi d’aria e
con essi tornano indietro, raggiungono l’uomo, gli finiscono
addosso e poi
vanno alle sue spalle, entrano in casa e si aggiungono alle foglie
lanciate in
precedenza.
Così
l’uomo davanti a se ha di nuovo solo il vento, si
rattrista, sospira e lancia altre foglie.
La
casa dell’uomo è la sua unica sicurezza, alle sue
spalle rappresenta l’unica cosa concreta che possiede,
l’unica che non cambierà
mai.
L’uomo
lancia le foglie sperando che restino, che si
solidifichino, che diventino fisse davanti a lui in quel vento che
soffia
sempre allo stesso modo.
Costui
sulla soglia continua a lanciare le foglie,
testardo, continua a sperare in cose che lui stesso sa impossibili,
come che quelle foglie restino dove le getta.
Ci
sono dei sassi sull’uscio di casa, in mezzo alle
foglie, ma l’uomo li ignora, è troppo difficile
sollevarli e lanciarli, pesano,
restano li sull’uscio su cui sta in piedi l’uomo,
lui non lo vede, è troppo
preso dal suo disperato lanciare foglie contro il vento.
Ad
un tratto il vento rallenta, spazza in dietro le
ultime foglie, si ferma.
L’uomo
allora sussulta, comincia ad urlare, si dispera,
grida.
Ma
si deve arrendere: non c’è più vento,
non ne può
reclamare ancora, quindi si volta piangendo e si sdraia sulle foglie
che
l’hanno raggiunto dove lì si trova e si addormenta
con un sorriso.
Disperatamente
felice.
Felicemente
disperato.
Il
vento non soffia più sul suo corpo, col suo freddo e
col suo grido non lo fa più tremare.
Quel
vento ignoto che odora di futuro.
La
sua casa è sempre stata la sua unica certezza,
l’unico suo possedimento eternamente affidabile.
Quella
casa di certo e nostalgico passato.
Le
foglie che ha lanciato fino a quel momento erano
così leggere, esistenti e facili da portare avanti a se.
Quelle
foglie fragili come sogni.
I
sassi che non ha mai avuto la forza di sollevare
erano così pesanti, avrebbero potuto sfidare il vento.
Quei
sassi concreti come possibilità.
L’uscio
che è stato sommerso di foglie lanciate e pieno
di sassi abbandonati li, mai preso in considerazione.
Quell’uscio
breve come il presente.
Ma
ora è tutto quanto perduto, non resta che piangere a
quell’uomo, piangere per un futuro che è passato,
per un passato che non può
più raggiungere, per quei sogni irrealizzati, per le
possibilità ignorate, per
un presente che non ha mai vissuto.
Eppure
nella sua disperazione sorride, perché trova la
sua felicità nel rimpianto, perché è
più facile questo, è più facile
rimpiangere che costruire qualcosa e poi sapere di doverlo perdere alla
fine.
Quindi
l’uomo si toglie il futuro, ignora il presente e
si aggrappa al passato, perché per ogni uomo
c’è poco futuro ma infinito
passato ed egli desidera ciò che è infinito nella
speranza di diventare
infinito anch’egli.
L’uomo
si sdraia
chiude
gli occhi
sorride
diviene
passato.