Il
male si avvicina
Alhena Cassiopea Black
odiava l’Estate. Era la stagione più inutile e sciocca tra le quattro. Era
quella parte dell’anno che detestava con tutta se stessa sin da quando era poco
più che una bambina dalle lunghe trecce nere intrecciate in uno chignon troppo
severo per lei. E, se avesse potuto classificare i mesi ad alta voce senza
suscitare un moto di risentimento sull’affilato viso di sua madre, avrebbe
sicuramente esplicato che Luglio era il peggiore. Le sue giornate afose
rendevano le persone che era costretta a frequentare ancora più irritanti e
tutta quell’acredine le faceva nascere una ruga in prossimità del lato destro
della labbra. L’unico segno che poteva far trapelare senza incorrere nelle
proteste di sua madre. Negli anni aveva imparato anche ad attenuare la linea
che le rendeva troppo sottili le labbra morbide e rosee, così dissimile da
quelle turgide di Bellatrix e quelle a cuore di Narcissa. Doveva. Suo padre
affermava sempre che una giovane donna di buona famiglia non poteva mostrarsi
così indisponente dinanzi a un possibile pretendente. Nonostante Alhena sapesse
benissimo che i rampolli Purosangue non si sarebbero fatti suggestionare da una
sua espressione contrita. Il suo cognome era troppo importante per essere
screditato. Ciò che la giovane Alhena Black non sapeva era che lo sarebbe
rimasto ancora per poco. Mascherava bene le sue emozioni, oramai. Però a Luglio
non era mai stata in grado di fingere un sorriso di circostanza. Luglio era
troppo anche per il ferreo controllo che l’etichetta Purosangue le imponeva. E
così, per evitare lo sguardo arcigno, così simile a quello della sua unica
sorella maggiore, di suo padre si rifugiava nell’unico luogo in cui l’afa non
riusciva a raggiungerla. A Grimmauld Place, 12. Preferiva trascorrere la maggior
parte dei giorni nella casa dei suoi zii, a Londra. Nella capitale inglese, per
lo meno, il Sole era mitigato dalle piogge che cadevano a intervalli quasi
regolari. La scusa era sempre quella di badare ai piccoli Sirius e Regulus.
Nulla di più falso. Sirius era un tale sconsiderato che solo Andromeda, la più
posata e mite delle sue sorelle, riusciva ad occuparsi da lui senza ricevere
scherzi di cattivo e abbastanza dubbio gusto. E Regulus era troppo rispettoso
per fare alcunché. Regulus era obbediente, docile, sembrava quasi un angelo e
Alhena, in cuor suo, adorava prendersene cura. Regulus era innocente. Possedeva
quel candore e quell’incanto dinanzi al mondo, quello del bambino che
effettivamente era, tale da intenerirla. Alhena, qualche volta, lo invidiava.
Lei aveva perso quell’espressione di pace già da molto tempo. Sperava che a
Regulus fosse stato attribuito un Destino diverso dal proprio. Lo sperava con
tutto il cuore.
« Cosa ci fai qui? Sola?»
Quella voce strascicata non poteva che appartenere a lui. Al suo caro fidanzato
ufficiale, nonché cugino di primo grado da parte di madre. Evan Rosier. Volse
lo sguardo verso sinistra, verso il suo immenso maniero, dov’era situato il
balconcino da cui si accedeva al giardino di rose bianche. Il suo rifugio. Lì
aveva trascorso momenti indimenticabili con le sue sorelle. Lì abitavano i suoi
ricordi più belli. Evan era lì, a qualche metro da lei, ancora sull’ultimo
gradino della scalinata a chiocciola di marmo bianco. Imponente e austero, con
la tipica espressione di superiorità di chi possedeva la consapevolezza di avere
il mondo in pugno. Indossava una semplice camicia bianca, ben abbottonata sui
polsi per non far neanche intravedere il marchio che gli occupava l’avambraccio
sinistro, e un paio di pantaloni di raso nero. Non avrebbe avuto di che
lamentarsi per la scelta dei suoi genitori. Evan era un bell’uomo, con quei
suoi capelli biondi e quegli occhi color
del mare di Scozia, a metà tra il blu oltremare e il grigio, con quel viso dai
tratti signorili e sofisticati. Il ragazzo, di cinque anni più grande di lei, azzerò
velocemente la distanza tra loro e si sedette al suo fianco sulla panchina.
« Evan,» mormorò in un
sospiro appena accennato, sussurrando il suo nome quasi con costernazione.
Sarebbe voluta rimanere sola, almeno per altri cinque minuti. Era scappata
dalla sala del suo Manor appunto per quello. Cinque minuti di pace, solitudine.
Cinque minuti in cui poter sciogliere la maschera e ritornare a essere la
ragazzina impaurita e timorosa che era sempre stata. La ragazzina che doveva,
ogni giorno di ogni mese dei suoi diciannove anni di vita, far finta di non
essere assolutamente terrorizzata da come si sarebbero potute evolvere le
contingenze in quella guerra di cui era protagonista anche la sua famiglia. La
ragazzina che aveva paura di sposarsi al mattino e di rimanere vedova nel
pomeriggio. La ragazzina che aveva ascoltato le urla della sua più vicina
sorella minore senza poter far nulla per consolarla. Andromeda aveva capito.
Lei sì che aveva compreso ciò che desiderava. Andromeda avrebbe lottato per la
sua felicità mentre Alhena se l’era già fatta sfuggire, « Nulla. Avevo bisogno
di assentarmi. Fa troppo caldo,» avanzò come scusa. Non era poi del tutto
falso. Era Luglio. Il 15, per l’esattezza. Che mese detestabile. Di nuovo
quella ruga. Quell’espressione che suo padre detestava altamente. Era
impossibile mitigarla con tutti quei pensieri. Evan la guardò, la scrutò, poi
una risata alta, ma mai sguaiata e volgere, proruppe dalle sue labbra rosse e
piene. Alhena schiuse le proprie, più sottili e rosate, e si costrinse a non
portarsi le braccia al petto, « Ridi di me?» gli domandò, gonfiando le guance
magre del viso ovale, una sfumatura di profondo sdegno negli occhi chiari come
il cielo, uno dei pochi tratti erediti dalla famiglia Rosier, se non l’unico. Evan,
accortosi della sua espressione di bambina, interruppe il riso, ma sul suo
volto permase un lieve ghigno pieno di divertimento, e scosse leggermente il
capo.
« Di questo, - e le
sfiorò la ruga, oramai marcata, sulla guancia, facendola quasi arrossire per
quel soave contatto,- Ti ho vista, sai?
Prima. Nella sala,» sussurrò avvicinandosi maggiormente, mentre l’indice
continuava ad accarezzarle la gota. Alhena tentò di non avvampare e di non
muoversi di un solo millimetro. Non aveva paura di Evan, quello mai, era pur
sempre il suo fidanzato, ma tutta quella vicinanza la turbava. Così come le sue
parole.
« Non capisco di cosa tu
stia parlando, Evan,» bisbigliò timorosa, stringendosi nelle spalle come per
proteggersi. Evan Rosier, per sua sfortuna, era un osservatore eccezionale. Sin
da bambino si limitava a posare l’indice destro sulla guancia e osservare,
osservare, osservare. Agiva solo quando era certo. Certo di cosa, poi, poteva
saperlo soltanto lui. E Alhena era divenuta un libro aperto per lui da troppo
tempo per poter arginare le sue domande.
« Come guardi Andromeda,»
le comunicò quasi divertito, poi volse il capo verso il giardino, sollevandola
da quello sguardo magnetico. Alhena ritornò a respirare normalmente e si lisciò
le pieghe immaginarie della lunga veste color del cielo che, con quel buio, era
divenuta come la notte senza stelle sopra di loro, « Cosa succede, bambina?»
continuò più greve, serio, quasi minaccioso. Quel tono la intimoriva, la
imbarazzava. Come quell’epiteto che le aveva affibbiato dalla fanciullezza. Per
Evan Rosier lei era sempre stata una bambina. Sebbene non avessero una notevole
differenza d’età, Evan l’aveva sempre ritenuta una persona da proteggere, da
curare, come una bambola. Una bellissima bambola di porcellana. Come Miss
Phobe, la bambola preferita di sua nonna Irma, quella che poggiava sulle
lenzuola del suo imponente letto a baldacchino.
« Non chiamarmi così,
cugino,» lo ammonì accigliata, in un borbottio confuso. Le labbra le si
piegarono verso il basso, appena imbronciate, e gli occhi divennero due fessure
color del mare. Lei non era una bambola. Era una persona. Era una Black, per
Salazar. Non una Purosangue qualunque, una Black. Il suo sangue era il più puro
esistente. Non avrebbe permesso a nessuno di denigrarla. Sentì l’atmosfera
raggelarsi e notò che Evan era tornato a guardarla. I suoi erano divenuti
grigi, come quando gli aveva riferito sarebbe stato Rodolphus ad accompagnarla a
scegliere l’abito nuziale.
« Quando la finirai di
appellarmi in questo modo?» Non sembrava arrabbiato, solo stanco. Come se fosse
invecchiato di colpo. Allora Alhena riuscì a scorgere tutta quella differenza
d’età pesarle come un macigno sul cuore. E si sentì piccola. Una bambina in
confronto al grande mago che le era accanto, l’uomo che le aveva mostrato
Hogwarts durante il suo primo anno con una spilla da Prefetto appuntata sulla
divisa , « Ci sposeremo tra pochi mesi. Sembra sbagliato,» aggiunse a voce più
bassa, quasi un soffio di vento. Come se il solo pensiero che lei ritenesse
sbagliata quell’unione lo facesse soffrire. Che bizzarro accostamento. Evan e
sofferenza nella stessa frase. Era così dissimile dall’idea che aveva lei del
suo fidanzato ufficiale. Evan era sempre così distaccato, agiva sempre con
nonchalance e maestria. Era fine, elegante e gelido. Di pietra. E, era
risaputo, una pietra non può soffrire.
« Scusa,» si affrettò a discolparsi,
sobbalzando di poco. Che pensiero orribile. Infuse nelle sue scuse anche il
desiderio di perdono per quella congettura così irriverente e crudele. Non
poteva davvero pensare quello di lui, no, non ne aveva alcun diritto, « Non mi sento bene. Meda mi ha detto qualcosa
che mi ha molto turbato,» gli spiegò, veritiera. Andromeda, o Meda per i suoi
familiari, quel pomeriggio aveva toccato l’apice della follia, secondo i suoi
familiari, e stava facendo impazzire persino lei. Per la bontà di Morgana
almeno aveva avuto la discrezione di riferire solo a lei i suoi pensieri. Se
l’avesse saputo Bellatrix, o i loro genitori, era certa che non sarebbero stati
così accomodanti come lo era stato lei. Quel Tonks. Tassorosso, Nato Babbano,
abbastanza anonimo. Come facesse ad apprezzare la compagnia di un ragazzo del
genere rimaneva un mistero per lei. Sperava solo che Narcissa non si accorgesse
di ciò che stava accadendo. Si sarebbe scatenato un putiferio e Andromeda,
sempre così ferma nelle proprie decisioni, si sarebbe dovuta schierare da una
parte che Alhena non poteva che definire sbagliata. Perché Tonks era la scelta
sbagliata. Nulla di più sbagliato.
« Da quando Bella si è
sposata con Rod non sorridi più come prima. Sei sempre così irritabile,»
esplicò come se non avesse ascoltato la sua ultima frase. Quella constatazione
la fece tornare in sé. Era vero. Non poteva che dargliene atto. Da quando
Bellatrix si era sposata, nulla era stato più come prima. Aveva dovuto badare
alla situazione scottante di Andromeda, alla prorompente malattia di sua madre,
ai frequenti sbalzi d’umore di suo padre completamente da sola. Solo Narcissa
non le arrecava preoccupazioni.
« Ho paura,» gli rivelò,
sistemandosi meglio sulla panchina, muovendosi a disagio. Chinò il capo sulla
gonna del lungo abito su cui erano poggiate le mani giunte. Non si era accorta
delle sue dita che si torturavano l’un l’altra. Evan posò la sua mano su di
esse, come per celarle al suo sguardo. Come per accudirla. E Alhena si pentì
ancora di più di quel pensiero terribile che l’aveva colta pochi istanti prima.
Evan voleva solo proteggerla. Non voleva terrorizzarla o intimorirla, voleva
solo prendersi cura di lei. In fondo non poteva chiedere di meglio.
« Di cosa?» le chiese
curioso, prendendo poi la sua mano destra tra le proprie e scaldandola. Evan
aveva le mani calde, grandi e dalle lunghe dita affusolate. Le mani di un uomo.
Quello che a breve sarebbe diventato il suo uomo. Magari il loro matrimonio
avrebbe aggiustato tutto. Avrebbe aiutato Andromeda a comprendere quale fosse
la via da seguire.
« Di non riuscirci. Di
non essere in grado di prendermi cura di Meda e Cissy senza Bellatrix. E poi…
quando ci sposeremo, io dovrò andar via. E Meda si sposerà con Rabastan. Cissy
resterà sola e poi andrà in moglie al giovane Malfoy. Ci divideremo. Ho paura
di perderle, Evan,» spiegò velocemente, togliendosi parte del peso dal cuore.
Non era una bugia. Era certa che Andromeda sarebbe rinsavita e avrebbe
accettato le proprie responsabilità di Purosangue. Andromeda doveva rinsavire.
Con la guerra, i cambiamenti nella personalità di Bellatrix, la gloriosa ascesa
del Signore Oscuro e l’alone di sconforto che annebbiava il cielo inglese, non
sarebbe stato per niente saggio un colpo di testa. Anche se, in verità,
Andromeda e Narcissa non erano ancora legate da un vincolo di fidanzamento
ufficiale. Sarebbe stato troppo prematuro, soprattutto per la piccola Cissy,
che aveva soltanto quindici anni. Ma negli occhi di suo padre poteva ben
scorgere la sfumatura chiara e risoluta di un uomo che bramava ardentemente
liberarsi delle sue figlie il prima possibile, « Scusami, sono una sciocca. Rientriamo, te ne
prego,» lo implorò, cercando di issarsi in piedi. Evan scosse il capo e
rinforzò la presa sulla sua mano, tirandola leggermente, obbligandola a
rimanere seduta. Poi sorrise, con quel ghigno che l’aveva sempre terrorizzata.
Il ghigno di un uomo che non accennava repliche, o negazioni. Di un uomo
abituato sempre a prendere ciò che più bramava, senza domandare nulla, nessun
permesso. Quel gesto le rammentò la ragione per la quale si era sempre sentita
una ragazzina dinanzi a lui. Una ragazzina intimidita per di più, « Perché sorridi?» gli chiese, quasi tremante.
Chiuse gli occhi per un solo momento. Non doveva. Era Evan, in fondo. Suo
cugino. Si conoscevano da sempre. Erano cresciuti insieme. Avevano frequentato
Hogwarts insieme. Non poteva realmente aver paura di lui. E poi lei era una
Black. Non poteva avere paura in generale. Eppure cos’era quel batticuore che
le stava sollevando il petto proprio in quell’istante, mentre Evan la stava
facendo avvicinare sempre di più a sé? Aveva il respiro corto e le labbra di
Evan erano sempre più vicine alle proprie. Non avrebbe potuto scansarsi nemmeno
se avesse voluto a causa della sua stretta sul polso. Non chiuse gli occhi
mentre guardava la soddisfazione colorare quelli del suo fidanzato di un blu
acceso. Morgana, non si sarebbe mai aspettata che il suo primo bacio avesse
potuto avere il sapore dell’Estate. Di quella stagione così odiosa.
« Alhena, dove sei?» la
voce di Narcissa. La bellissima, soave e dolce voce della sua sorellina più
piccola, della principessa dei Black. Mai la sua voce le apparve più gradita di
quell’istante. L’avrebbe ringraziata per sempre per quel tempestivo intervento.
Evan si scostò subito, come scottato, sobbalzando leggermente all’indietro. Ciò
le permise di tornare a respirare con continuità. Volse prontamente lo sguardo
verso sua sorella, bellissima in quel vestito oro pallido che le fasciava il
corpo snello e ancora puerile, senza mostrare quanto fosse sollevata per aver evitato
quel bacio inatteso, « Oh ciao Evan,» continuò Cissy accorgendosi del cugino
vicino a lei, anche troppo. Sulle sue belle gote di bambina, sempre candide
come la neve, apparve un rossore inconsueto e prese a tormentarsi le piccole
dita ancora infantili, « Scusate, non volevo interrompere,» mormorò
imbarazzata, chinando di poco lo sguardo. Alhena avrebbe voluto tanto sorridere
in quel momento. un sorriso grato, sincero e aperto. Non come quelli di
circostanza che era costretta a rivolgere a tutti, anche alle persone che non
sopportava. Si costrinse ad accantonare quel proposito poiché conscia dello
sguardo di Evan su di sé.
« Dimmi, Cissy,» la
invitò dolcemente, con la voce più rincuorata mentre si issava in piedi. Aveva
scorto un lampo nello sguardo di Evan. Un lampo che non aveva saputo
qualificare. Ma, certamente, non era un segno positivo. Gli era stato negato
qualcosa. Un suo bacio. La situazione era già così assurda senza il rossore di
Narcissa che aveva capito cosa poteva essere accaduto negli istanti precedenti.
Perché, era certa, Narcissa aveva compreso benissimo.
« Nostra madre mi ha
chiesto di cercarti. Manchi da quasi mezzora. Bella e Rodolphus devono andare,»
le spiegò velocemente, nella voce una lieve nota di ammonizione. Alhena avrebbe
riso se non avesse avuto dinanzi a sé sua sorella e il suo quasi marito. Era
una situazione così assurda. Narcissa la scrutava come se fosse stata lei a
cercare quel bacio. Mentre Alhena avrebbe soltanto voluto smettere di fingere
che andasse tutto bene nella sua vita.
« In verità anch’io.
Rientriamo, mia cara. Grazie, Narcissa. Sei stata molto gentile a
ricordarmelo,» aggiunse con gentilezza, prima di rivolgere un sorriso cordiale
al quale sua sorella non poté fare a meno di rispondere con uno più ampio e
accogliente. Cara, dolce Cissy. Sarai una
moglie straordinaria. Felice l’uomo che ti prenderà come sua sposa. Non poté
fare a meno di pensarlo mentre si incamminavano verso la sala dov’erano
accomodati i loro parenti e i Malfoy, grandi amici di famiglia.
« Alhena, dov’eri
finita?» domandò sua madre, la rispettabile quanto gelida Druella Rosier in
Black, con voce imperiosa e quasi minacciosa, quando varcò la soglia della sala
immensa. Gli uomini gustavano cognac sulle poltrone, intenti a discorrere di
politica, mentre Bellatrix e sua madre erano accomodate sul divano a tre posti.
Andromeda doveva essersi estraniata poiché aveva cominciato a giocare con il
fiocco al polso destro del suo vestito verde acqua, accomodata sulla parte
sinistra del lungo divano, sembrando anche più piccola del normale. Lo sfilava
e lo riannodava, la mente rivolta ad altro, tanto da non essersi accorta del
suo rientro. La situazione diveniva più grave ogni secondo che trascorreva. Avrebbe
dovuto agire subito.
« Perdonatemi, zia. Temo
di aver trattenuto io vostra figlia. È per me molto interessante discorrere con
lei,» riferì pacato, con un sorriso che soltanto Alhena riuscì a cogliere. Quel
sorriso sarebbe potuto sembrare anche rispettoso e cordiale, a un primo sguardo
superficiale o troppo cieco come quello di sua madre, ma Alhena, che conosceva
bene l’uomo che stava diventando il suo futuro marito, comprendeva bene il
significato di quel gesto tanto consueto. E, doveva ammetterlo almeno con se
stessa, solo con se stessa, che non le piaceva, anzi la disgustava.
« Non preoccuparti,
caro,» replicò sua madre con tono zuccheroso e mellifluo, tale da farle
accapponare la pelle. Certe volte la preferiva gelida e imperturbabile, almeno
sapeva come comportarsi, « Vorresti unirti a noi per la cena? Il caro Lucius e
i signori Malfoy ci terranno compagnia,» aggiunse con un sorriso ampio e falso. Poteva
scorgere tutta la meccanicità del gesto dalla piega delle labbra. Tremavano
leggermente, segno che faticava molto a mantenere quella smorfia di cortesia
forzata.
« Domando perdono, ma
devo andare anch’io,» sussurrò suadente, scambiandosi uno sguardo d’intesa con
Bellatrix, Rodolphus e Rabastan. Sua sorella e i suoi due cognati, nonché Evan,
erano quattro dei più vicini collaboratori, se così potevano definirsi,
dell’Oscuro Signore, di Lord Voldemort. Uomo pericoloso, a suo dir. Troppo
radicale. Non sarebbe più saggio rimanere
nelle tradizioni? Era questo l’interrogativo che la tormentava da quando
Bella aveva scelto di aderire alle idee di quell’uomo. In fondo i Babbani non
avevano mai scoperto l’esistenza del mondo magico. Non v’era alcun pericolo di
insurrezione o guerra da parte loro. Era ben lungi dall’esprimere le sue idee.
Sarebbe stata considerata una scellerata, pavida ragazzina che non avrebbe
saputo scorgere una minaccia nemmeno se l’avesse avuta nella sua stessa casa. Suo
padre annuì, greve, prima di sorridere compiaciuto. Era fiero di sua figlia,
l’imperturbabile Cygnus Black. Della sua guerriera dal viso ammaliatore, dagli
occhi magnetici e dal sorriso troppo bello. Bellatrix era stata il figlio
maschio che non aveva mai avuto. Forte, indomita, bellissima. Come ogni Black.
Una grande strega, la migliore. Una combattente eccezionale. Non come lei,
troppo dolce, troppo protettiva, una giovane donna che cercava sempre di
portare pace. Non come Andromeda, ferma e risoluta nelle sue decisioni, poco malleabile
come, invece, sarebbe dovuta essere una donna del suo calibro. Non come
Narcissa e il suo mite candore di fanciulla. Bellatrix era la Black perfetta.
Incarnava tutti i loro ideali. Quasi sospirò per quella constatazione. Quel
gesto appena accennato attirò l’attenzione dell’uomo vicino a lui. Gli occhi di
Evan la scrutavano, come per cercare in lei un segno, una sfumatura per
comprendere cosa sentisse. Quegli occhi azzurri, glaciali persino. Quegli occhi che le scavavano l’anima. Che le
rubavano la parte più intima di sé. Alhena rifuggì agilmente il suo sguardo,
attratta da un altro evento, ugualmente scomodo. Una brezza calda e soffocante
entrò dalle finestre appena aperte, sollevando di poco le pesanti tende rosso
scuro. Si insinuò nelle sue ossa, riscaldandola con un calore malevolo e odioso.
Quella brezza portò con sé una novità. Una novità che distrusse tutte le
certezze di una diciannovenne che era certa di saper tutto di quella che
sarebbe stata la sua vita. Alhena Cassiopea Black s’era sempre ritenuta una
ragazza fortunata. Era di buona famiglia, di bell’aspetto, aveva ricevuto
un’ottima educazione sia a casa sia nella rinomata Scuola di Magia e Stregoneria
di Hogwarts. Conosceva il galateo e il bon ton, sapeva danzare con leggiadria e
suonare in modo eccelso il clarinetto. Ma ciò che la inorgogliva di più di se
stessa era il suo sopraffino istinto. Aveva, infatti, un sesto senso
formidabile. E, in quel momento, mentre scorgeva le tende animarsi di fuoco, il
sesto senso si attivò, mostrandole ciò che il Destino stava prospettando per
lei. L’inizio di tutte le sue sventure.