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Autore: Nevelar    18/08/2007    1 recensioni
I pensieri di Piton, in lotta contro Mocciosus, dopo aver perduto chi glieva dato la possibilità di credere che il futuro potesse esistere davvero.
Ma allora è davvero impossibile che la magia non possa esplodere dopo la morte?
Il mare, una rocca frastagliata e altissima, una rosa di un rosso violento come scenario per una fanfiction ispirata alla poesia di Baudelaire "Moesta et errabunda" e al brano "Lux libera nos".
Genere: Romantico, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Remus Lupin, Severus Piton
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Moestus et errabundus”

“Moestus et errabundus- Lux libera nos”

"...Ed è qualcosa da cui non puoi scappare.

Il mare...

Ma soprattutto: il mare chiama...

Non smette mai, ti entra dentro, ce l'hai addosso, è te che vuole...

Puoi anche far finta di niente, ma non serve.

Continuerà a chiamarti...

Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà."

(Alessandro Baricco )

Agata, è vero che il tuo cuore a volte fugge

lontano dall’oceano nero dell’immonda città,

verso un altro oceano sfavillante di splendore,

bello, chiaro, profondo come verginità?

Agata, è vero che il tuo cuore fugge?

Il cielo non era mai parso ai suoi occhi allo stesso tempo vicino e lontano, di un blu talmente chiuso e cupo che sembrava schiaffeggiargli sadicamente il fatto che la neve gli scorreva nel sangue, pezzi di ghiaccio sulle sponde di un fiume morto.

Il mare ballava la sua consueta, e pur sempre sinuosa e sublime danza, dall’inizio dei tempi e fino alla loro fine avrebbe cercato di colmare la distanza con la terra, inutilmente e incessantemente. Le onde si frangevano ottusamente sugli scogli, le rocce tentavano di divenire sabbia e una cosa sola, un noi, con il cielo d’acqua.

Un uomo cantava una canzone, le cui note bruciavano sulle guance pallide e scavate e morivano sulla sua nera toga monacale. Mille e mille miglia lontano con il corpo e con la mente da Hogwarts, dal baccano e dalla cacofonia, dal fumo, dalla folla e dalla follia, dalla cagnara e dalla carioca infernale, si dirigeva verso un regno –si, proprio un regno- che apparteneva ormai a lui solo, nel quale maschere, personaggi e travestimenti cadevano come fragili ceneri di fronte a quella magnificenza gratuita, che chiedeva soltanto di essere osannata e imprimere il suo dolce e doloroso marchio nella memoria e nell’anima.

La scogliera, con la sua rocca più alta e frastagliata, a tal punto da sembrare che potesse crollare da un momento all’altro, era l’unico luogo, di tutta la terra conosciuta dagli uomini, che poteva ben pienamente definire casa. Nessuno ne era a conoscenza né mai, oltre lui, aveva osato andarci, poiché era protetta da svariati incantesimi e invalicabile per i Babbani.

Non crescevano fiori né infimi licheni o umili muschi, ma per il mago era il suo splendido Giardino Selvaggio, il riflesso attraverso la materia di sé stesso: sassi aguzzi, ripide scoscese che si gettavano negli abissi, salite altrettanto ostiche…rabbia, odio, dolore, crimini, angosce e paure trasmutate, ed egli s’identificava con loro.

E c’era lei, rocca bella e terribile come un esercito schierato in battaglia e duramente salda, sfidava da secoli i secoli; non aveva nome, darglielo significava mortificare sconciamente, bestemmiare quell’ ineffabile capolavoro. Era bramata, agognata, pianta dall’oceano che mugghiava e ruggiva disperato, si rovesciava ai suoi piedi, ma non riusciva mai ad abbracciarla in totalità, troppo, troppo lontana. Prima di allora non aveva mai pienamente compreso cosa quei due cercassero di gridargli: aveva sempre ritenuto che nella vita gli mancasse un tutto essenziale, ma non sapeva cosa…

Poi…

Esso gli apparve e gli parlò, sotto forma di occhi orribilmente dolci e calorosi, un corpo eroso dalla fatica e dalla crudeltà dell’esistenza, ma ancora tenace; era vivo in mezzo agli uomini, né diavolo né angelo…eppure per ciò che era, per chi era, assolutamente straordinario.

Appartenendosi l’un l’altro inscindibilmente, egli aveva dato al mago la possibilità di credere che il futuro potesse esistere davvero.

Lacrime ancora più cocenti e infuocate strariparono e lì, crollata la facciata dell’uomo granitico e gelido, Severus Piton urlò con quanto fiato aveva in gola la macabra disperazione di chi aveva trovato e perduto senza ritorno, squarciando il clamore del mare che vorticava impetuoso, del vento che stormiva e schiaffeggiava il suo volto, dannandosi mentre il cielo colava empatico pioggia fitta e scura.

“REEEEEEEMUUUUUUUS!!!!”

***

Il mare, il vasto mare, consola le fatiche!

quale demonio ha dato questa dolce funzione

di ninna nanna a quel canto rauco del mare

che accompagna l’organo immenso dei venti rombanti?

Il mare, il vasto mare, consola le fatiche!

Era forse stata la terra a tremare, o la burrasca a soffiare troppo forte? No…le gambe avevano ceduto sotto il peso della stanchezza. Non dava più peso all’odio rancido che provava verso sé stesso per ogni pianto non efficacemente trattenuto, e nemmeno all’orgoglio, che sempre l’aveva portato a gareggiare con tutto e tutti e a non abbassarsi MAI…

In quale nascosto anfratto si era celato il Principe Mezzosangue, la serpe, l’impassibile e il ferreo monaco?

Dov’era la peggior feccia in grado di avvelenare l’altrui esistenza e tenere alta la testa di fronte al Signore Oscuro, anche se in veste di spia?

Semplicemente…annichilito da quell’urlo bestiale e disumano, scappato attraverso le strette fessure della rocca e annegato nella furia del mare…

Perché non riusciva a morire come qualunque essere dannato, lì tra i flutti, senza preoccuparsi se qualcuno avesse o no trovato il suo corpo marcio?

Più cercava di giungere in cima alla rocca, più era tenace la barriera che lo separava. Ancora grida e più grida d’ira e impotenza, perfino il suo corpo l’aveva abbandonato, non riuscendo nemmeno a spararsi l’Anatema che Uccide. Spezzò la bacchettà e la gettò contro un masso, poi crollò sulla roccia gelata, la testa fra le mani e le labbra sanguinanti per tutti i morsi che si era dato.

Gli facevano male le orbite…aveva dimenticato quanto fossero potenti quelle note di dolore…

Stupefatto, si portò le dita intirizzite e sottili come fusi sugli occhi: “Io sto…”

Mocciosus.

Quel ragazzino estremamente fragile, non bello, non aggraziato, gettato troppo presto in un ginepraio di filo spinato…era tornato a galla e pretendeva il trono usurpatogli dalla Maschera.

Si era impossessato del suo cervello, divorandolo lentamente e con gusto: era la sua vendetta per essere stato relegato in un polveroso magazzino di nebbia vuota, e sibilò sinistramente: “Testa di cazzo! Credevi davvero che sarebbe durata per sempre? Non ti sei dunque rassegnato al fatto di essere proprietà esclusiva della Solitudine? Tutti ti abbandonano, perché non hai alcuna forza, sei solo uno sporco verme che mendica un po’ di fango per nascondersi…anzi, tu hai meno dignità di qualsiasi insetto, di più, rispetto alle feci di un insetto!”

Quello smorfioso in altre occasioni sarebbe stato scuoiato a furia di frustate senza pietà, e preso a morsi da chi aveva dato a Severus una forza che mai avrebbe sperato di trovare…ma stavolta fu Mocciosus ad avere la meglio, e sotto i suoi piedi la Maschera si polverizzò definitivamente: “Tu sei me! Tutti sanno che dietro quel volto da gargoyle ci sono io! Non puoi fare nulla! Oh, cuccioletto, che fai, vuoi mordermi? Gran bel modo di lasciarti, quello stronzo!”

La sinfonia stonata e patetica del dolore era cessata, ma non il suo smisurato grido d’inverno dentro sé, gli occhi vuoti e la lingua franta.

La licantropia di Remus si era irrimediabilmente aggravata e la Pozione Antilupo non funzionava più.

Quante volte il compagno l’aveva supplicato di avere pietà di lui, e porre fine all’orrendo strazio!

In uno dei sempre più rari momenti di lucidità, Lupin aveva biascicato: “Per favore, Sev…voglio essere ricordato come l’uomo, non il mostro! Non potrei mai perdonarmi se ti uccidessi!”

“Ti credevi più forte del suo lato oscuro, eh?” proseguì Mocciosus, “Pensavi davvero di trovare la formula per guarirlo e invece, sporco mentecatto…”

Una notte, prima che fosse luna piena e Severus si accorgesse della sua fuga, Lupin andò sulla torre di Astronomia e si inflisse l’Avada Kedavra.

Era morto da solo, come qualunque lupo allontanato dal branco, e soltanto molte ore più tardi il suo corpo venne ritrovato. Gli occhi avevano per sempre perduto quell’incredibile, incantevole e perfidamente suadente color bronzo, sostituito da un bianco agghiacciante.

“Ma no, tu sei solo un cacasotto! Non hai osato porre fine a quell’atrocità, perché in fondo in fondo sei sempre stato un vigliacco! Tu, un ex Mangiamorte, non sei stato capace nemmeno di scagliare una fottuta maledizione in silenzio!

Quanto odio pensi avessi accumulato nei tuoi confronti, per far sì che l’Avada funzionasse, eh? Rispondi, brutto…”

Ma Mocciosus non terminò mai la frase, schiantato da una sola, unica frase:

“Il mare, il vasto mare, consola le fatiche!”

Severus spalancò gli occhi avanti a sé.

La pioggia continuava a scendere meno fitta e quasi silenziosa…velluto fresco.

Un tocco di violino un po’ stonato vibrò dentro il suo petto magro.

Forse stava uscendo fuori di testa, ma era meglio così: il cervello sarebbe imploso come quello dei Paciock senza accorgersene, e come un matto avrebbe fatto qualche collana di perle ormai dimentico anche del proprio niente, fino a quando la morte non avesse fatto cessare anche il suo cuore.

“Il mare, il vasto mare, consola le fatiche!”

Balzò in piedi. Era un verso di quella struggente poesia, che Remus gli declamava a squarciagola tutte le volte che si accampavano nel Giardino Selvaggio; pioggia, tempesta, tuoni e grandine non lo toccavano nemmeno, anzi, espandevano all’inverosimile la sua folle gioia…dopo, l’abbraccio aveva veramente il gusto goloso e bruciante della passione più indecente e sfrenata, sia il licantropo che il mago tornavano a Hogwarts con fiori purpurei su tutto il corpo, più rossi delle succose ciliegie.

Severus respirò molto profondamente e recitò la poesia alla quale apparteneva il verso…marchiata a fuoco per sempre, come la voce del compagno, era “Moesta et errabunda” del grandissimo poeta Baudelaire.

Parola dopo parola, verso dopo verso, la bocca seguitò a muovere l’aria umida e salmastra, mentre un silenzioso alone bronzeo iniziò a circolare attorno alla figura scarna di Severus.

Non aveva mai letto prima “I fiori del male”, Lupin gliene parlava con sguardo trasognato e trasfigurato.

Idilliaco orrore, noia, baratro, sesso, solitudine, la rabbia volontaristica di libertà, sogno e trasgressione: a prima vista il poeta gli era sembrato uno stolto Babbano oppiomane, ma nell’addentrarsi nella lettura, non poté non condividere con lui quel male di vivere che spesso lo attanagliava.

Remus aveva perfettamente ragione, Baudelaire era il mago e il visionario delle parole per eccellenza.

Chiuse di nuovo gli occhi, si sdraiò supino come aveva sempre fatto, e ascoltò il rimbombare sordo e abissale dell’amico di sempre, un fratello -solo sale, cloro e acqua agli occhi del cieco che aveva perduto la poesia- al quale gridare in silenzio proteste, accorati risentimenti, ma anche risate inespresse, fruscii di mani sui capelli, languori e baci scoccati sugli occhi dell’altro.

Il mare, muto testimone della loro storia, aveva siglato e benedetto con la spuma, in una notte con la luna a un quarto, il momento in cui si erano uniti per la prima volta non solo con l’anima ma anche con il corpo, proteggendo l’urlo nell’ora della suprema passione dal fruscio delle tenebre.

Severus sorrise invisibilmente, mentre gocce salate si mescolavano alle sue lacrime.

***

Portami via, vagone! Rapiscimi, vascello!

Lontano! Lontano! Il fango è fatto con le lacrime!

-Agata, è vero che a volte il cuore triste

dice: Lontano da rimorsi, crimini e dolori

portami via, vagone, rapiscimi, vascello?

Remus era sempre rimasto accanto a lui, quando nel sonno combatteva contro il suo ego minuscolo e divoratore di gioia: guardiano dei suoi sogni, con movimenti felpati molto, molto discretamente lo abbracciava e gli faceva poggiare la testa nera sul petto sfregiato da innumerevoli cicatrici. Il sesso, dunque, non era il loro momento assolutamente intimo e culminante, ma lasciare che l’amante camminasse per le sue dune nebbiose e di piombo, esplorasse la fitta selva dei rimorsi, crimini e dolori e illuminasse il cammino pieno di curve con la vita e la vitalità che solo lui sapeva donargli, tanto genuine da sembrargli immeritate…Egli era il porto a cui approdare dopo gli estenuanti pellegrinaggi nel passato, il vascello che lo portava ogni giorno a scoprire parti nuove di sé, ignote oppure volutamente ignorate per il bene della Maschera…una forza misteriosa e incomprensibile che lo sollevava pazientemente, ogni qualvolta scadeva nel fango di lacrime, senza mai minimamente scalfire il suo smisurato e rabbioso orgoglio.

“Dimmi una cosa…” biascicò Mocciosus, ancora stordito dal colpo, “perché te ne sei innamorato? Solo perché era la tua ancora di salvezza? Soltanto perché grazie a lui potevi sfuggire a me e alla Maschera?”

***

Come sei lontano, paradiso profumato,

dove è solo amore e gioia sotto un cielo limpido,

dove è degno d’amare tutto quel che s’ama,

dove il cuore si sprofonda nella pura voluttà!

Come sei lontano, paradiso profumato!

Severus si torse le mani, striate di un pallido azzurro morto. La neve era nel sangue e l’Inverno lo circuiva, succhiando calore dai polpastrelli.

Nessuno era mai stato proprietà esclusiva dell’altro, anche se, da parte sua, c’era la tentazione di imprimergli il marchio del Principe Mezzosangue e cancellare quello sozzo di Greyback.

Non ricordava più quando era iniziato, ma non era certo nemmeno sbocciato improvvisamente a colazione.

Tra silenzi increspati da cavalloni di pensieri irrequieti e burrascosi, respiri lunghi e intrisi di voluttà, lacci invisibili che attimo dopo attimo lo resero schiavo ai suoi piedi… Severus Piton si era accorto di amare devotamente Remus Lupin.

Non era stato facile ammetterlo a sé stesso, aggiogato alle emozioni al posto del freddo raziocinio era proprio l’ultima cosa che voleva: abituato -e sotto sotto convinto della loro veridicità- agli orribili e denigranti insulti di Potter e Black, sottomesso a un padre che detestava con tutto il suo essere, e attaccato a una madre ormai troppo fuori dal mondo per poter essere ancora definita viva, non conosceva l’incanto e lo struggimento che provocava quella cosa sempre sulla bocca di tutti. Nascosta e negatagli.

Sussurrare il suo nome di notte, quando tutti dormivano e non pensavano, l’aveva fatto sentire libero e sollevato…

LIBERO anche quando obbligava sé stesso a non farne parola con nessuno, a contenersi quando vedeva il Grifondoro passeggiare nel parco assieme agli altri Malandrini…

Perché, sebbene si limitasse a guardarlo, Remus con la sua vivacità, umanità e gioia nel dare aiuto agli altri lo spingeva a confrontarsi con lui, a farlo spiccare tra i Serpeverde, e gareggiare nei diversi concorsi pur di farsi notare da chi senza permesso gli si era insinuato dentro come una spina, pungente ma quanto mai ricercata.

Remus fu la ragione che spinse Severus a credere in sé stesso e nelle sue qualità, a far uscire fuori, esplodere, per meglio dire, la sua grinta insospettabile…anche se la Maschera in presenza dell’amato pretese sempre l’assoluto dominio.

Le cose non nascono subito né con consapevolezza.

La simpatia e poi l’inaspettata amicizia durante il sesto anno.

Quel sorriso, prezioso come il sole per l’umanità, diretto a lui e nessun altro, quando gli faceva un complimento per una pozione particolarmente ben riuscita.

I buoni consigli, le chiacchierate allegre e vivaci, il comprendersi loro soli senza necessità di parola superflua.

Qualcosa nel Serpeverde era cambiato per sempre, e pregava il proprietario di donare i suoi fiori malaticci al ragazzo, qualunque fosse la risposta; la preghiera rimase però sempre inascoltata, quantunque essa gridasse, rombasse e martellasse fino a sconquassargli il respiro.

Rimase anch’essa relegata in un angolo e quando Severus crebbe, divenne la compagna indesiderata di Mocciosus.

Passarono gli anni, i tempi di Hogwarts, la tormenta del Male, le trappole, gli scorni e la vita da Mangiamorte.

Dall’altro lato della trincea rimpianti, rimorsi, un matrimonio fallito, i se e i ma, le vicissitudini e le incertezze.

Le cose non nascono subito né con consapevolezza. I loro effetti, però, esplodono nell’aria, e l’amore avvelenò il loro sangue di bello e di buono.

Mani giunte e ricercate, oltre il vuoto della loro assenza.

Baci impressi a fuoco nella carne e nel cranio.

Impressioni, emozioni zampillanti come torrenti appena nati. L’aver imparato a ridere in sua presenza, prima con imbarazzo e dopo senza più farci nemmeno caso. Tutti i momenti passati assieme, al di là del bene e del male, i litigi e le riconciliazioni. Tutto intorno poteva cambiare, meno che mai loro.

“Accetta il tuo passato, abbraccia il tuo presente e capirai che il futuro non è poi così cattivo.” gli aveva bisbigliato accalorato il compagno dopo un amplesso particolarmente infuocato.

Era stato Severus di sua spontanea iniziativa a portare Remus nel Giardino Selvaggio! Aveva scelto di condividere il suo regno, e niente poteva essere più straordinariamente, meravigliosamente folle!

La loro storia trascorse agli occhi dell’uomo dinnanzi ai suoi occhi, più nitidi e luminosi che mai. E fece la scelta giusta.

Smise di piangere. Di farneticare maledizioni a un fato inesistente o al cielo indifferente, che sarebbe rimasto uguale anche senza la poesia.

Il cuore di Severus si era sprofondato nella voluttà, nella passione e nei fiumi di porpora. E la verità, dura, orribile e lampante gli guizzò di fronte: non sarebbe mai più accaduto, Remus non sarebbe più tornato.

***

Oh, il verde paradiso degli amori infantili!

che corse, che canzoni, che baci, che fiori,

che violini vibranti dietro le colline,

con boccali di vino, a sera, nei boschetti!

-Oh, il verde paradiso degli amori infantili!

L’innocente paradiso pieno di furtivi piaceri,

già è forse più lontano dell’India e della Cina!

Ma che vuoi ricordare con grida lamentose?

Ma che vuoi ammirare con voce argentina?

L’innocente paradiso pieno di furtivi piaceri?

Non avrebbe più respirato il profumo rosso e oro del compagno, né l’incanto eterno di vederlo dormire profondamente, quando nessuno dei due sapeva più chi fosse l’uno dentro l’altro, si sarebbe magicamente ripetuto.

Solo.

“Di Solitudine sai che si muore, vero?” riprese Mocciosus con fare mellifluo, “Ti sentivi isolato anche in mezzo a Malfoy, Nott, Lestrange e gli altri, quando Potter e Black ti crocifiggevano al muro soltanto per ammazzare la noia. Lupin non è stato che una parentesi senza senso e destinata a finire prima o poi. Oh, ma tu non morirai, non adesso, perché finché ci sarò io, quel catorcio che batte funzionerà e tu non sarai che una larva, il fantasma di te stesso, ME!

Non hai risposto alla mia domanda, carogna, perché sai che ho ragione, non è così?”

Improvvisamente un piccolo punto scarlatto attirò l’attenzione di Severus, penetrandogli la visuale e impedendo che se ne potesse distogliere; la voce di Mocciosus divenne altrettanto rapidamente un brusio indistinto.

Quel rosso scarlatto sparava contro il colore del cielo, plumbeo come una televisione che non prende, e quello austero delle rocce, contro il blu imperscrutabile dell’oceano che mormorava parole sovrumane, e soprattutto, urlava vendetta contro il ragazzino dentro il mago minacciando di distruggerlo. Era lì, poco al di sopra di Severus, sulla rocca e aspettava di essere scoperto.

Tra lo stare mani nelle mani ad ascoltare quel piccolo stronzetto, e la curiosità che come una bambina pretendeva la sua attenzione, il mago diede retta alla seconda. Un passo dopo l’altro, e la barriera che si era prima interposta tra lui e la rocca pareva non esserci stata.

***

Oh lord God, illuminate us.

Lux quotidie interfecta resplendit.

Lux libera nos.

Light destroyed every night, shines once again

The dead stars coming back to life

Oh lord God, illuminate us.

Un profumo sbalordì l’uomo.

Rosso e oro.

Aveva finalmente smesso di piovere, mentre il cervello s’inebriava d’ogni minimo accenno di quella fragranza divina che spalancava i balconi chiusi dell’anima, polverizzava i muri, riempiva il vuoto assordante dal quale aveva sempre cercato di fuggire di nascosto.

Le nuvole arcigne furono penetrate da lance di luce, il bosco si vestì di brillantezza umida e l’odore buono della pioggia, figlia del cielo, si spandeva nell’aria libero e leggero, frizzante e suadente.

Severus avvertì le ginocchia afflosciarglisi nello stesso attimo in cui vide quel rosso stupendo e magnifico.

Una Scarlet Red, la rosa che Remus gli offriva in dono ad ogni incontro, e che personalmente coltivava per lui!

I petali carnosi e gonfi del fiore erano intrisi di pioggia, ma non si erano affatto rovinati, anzi, proprio per questo erano di una bellezza commovente e spaventosa.

L’uomo abbracciò con affetto e insospettabile delicatezza la rosa, mentre gli occhi grondavano veleno e gioia, due fiumi intrecciati e in combattimento fra loro.

Rimase così, la toga completamente aperta e fradicia, per minuti che avevano l’intensità di ore e ore fuggevoli come minuti. Il mare, il vasto e saggio mare, sembrava osservare quell’uomo profondamente addormentato e perduto nel sonno.

Un altro oceano, invisibile ma perennemente presente, fluido nel respiro e sulla pelle, luminoso e con voce limpida invocava a gran voce il suo nome, insistente ma mai con fretta, incomprensibile la sua essenza, incomprensibile il motivo per cui esisteva e parlava proprio al suo orecchio.

Mocciosus cercò di fuggire quel mostro magnanimo, nascondendosi dietro i pezzi della Maschera da lui stesso distrutta, mentre la brezza baciava le palpebre chiuse di Severus, che randagio esplorava nuovi moti e palpiti, mentre le cellule bruciavano.

Tiepida e afosa, avvolgente e lontana, tenue e brusca, una delicata aura abbracciò il corpo del mago prendendo la forma di uomo.

“Remus…” sussurrò Severus.

“Si…sono qui…e lo sarò sempre.” sorrise l’altro, ridendogli sulla bocca.

“E’ un sogno?”

“No, non direi…”

“Sei morto.”

“Vero. Però adesso sono un Fantasma, gli Spiriti del Velo mi hanno concesso questa forma in via eccezionale.”

“Sei stato tu a impedirmi di raggiungere la rocca?”

“Temevo che potessi fare una cazzata, Sev. Dio, se solo potessi entrarti dentro…”

“Pietà, sei sempre stato così appiccicoso!” rispose atono il moro, attribuendo la momentanea mancanza di rabbia alla potenza di quel calore naturale e quasi uterino.

“Non ti ho mai tradito né intendo farlo mai. E al contrario di ciò che pensi, non ho accumulato odio contro te per far sì che l’Avada funzionasse…Come avrei potuto, Severus?”

“Cosa intendi con entrare dentro?”

“Sono tornato per un motivo ben preciso. Mocciosus.”

Il piccolo stronzetto fremette d’indignazione e terrore, seguito da Severus, che a denti stretti rispose: “Non intendo essere aiutato da un suicida. Posso benissimo farcela da solo!

L’incanto minacciò di crollare e Remus si ritrasse ferito e amareggiato, mentre il moro malediceva sé stesso e il demonio che aveva osato parlare senza compassione e comprensione per l’uomo che aveva posto fine alla sua esistenza, nel tentativo disperato di salvare entrambi.

Il compagno fissò incredulo l’altro, il quale sapeva bene cosa provava dentro quello sguardo: “E’ davvero questo che pensi? Sei davvero convinto che infliggersi l’Avada Kedavra sia stata una passeggiata? E CHE RIDESSI AL PENSIERO DI DOVER MORIRE SU UN FREDDO PAVIMENTO ANZICHE’ TRA LE TUE BRACCIA?”

Il vento ululò, mentre Lupin stringeva convulsamente i pugni. L’ex Mangiamorte restituì uno sguardo altrettanto penetrante e significativo al licantropo, che colse implicitamente al volo ogni possibile sfumatura di quegli occhi tenebrosi e gelidi per tutti, fuorché per lui: l’orgoglio del compagno è sempre stata la bestia oscura più ostica da affrontare, e il solo pensare che la lingua di Severus si fosse sciolta un giorno per mormorare un cenno di scusa, poteva essere paragonato alla possibilità per i Dissennatori di avere pietà dei meschini condannati al loro Bacio.

Tuttavia, il mago non era così ottusamente stupido e incosciente, da non poter ricorrere ad altri mezzi, visto che con invidiabile abilità riusciva a parlare nell’intangibilità del silenzio attraverso i cenni, la gestualità delle mani diligentemente curate, le mille e sottilissime espressioni del viso. Remus sapeva leggergli un “Fai attenzione”, “Ti ascolto” fino ad arrivare al “Non ti sopporto!” senza nemmeno studiarlo troppo.

Osservando i due pozzi, si stupiva sempre di poter guardare la profondità del cielo proprio lì dentro, o credere che i fiori nascessero soltanto per lui. Che ingenuità!

E quale insolito, inusuale e assurdamente improbabile vocabolo gli avevano adesso cincischiato!

Dall’altra parte, Severus si arrese, constatando di aver camminato per tutta la vita con la testa all’indietro, calpestando i suoi sogni e le speranze riposte in lui, fallendo miseramente dove altri gli avevano dato fiducia e primeggiando nel fango. Remus gli stava offrendo la possibilità di riscattarsi per sempre da Mocciosus e trionfare sul proprio mare nero: non poteva non rifiutare, rimpiangendo per sempre ciò che sarebbe potuto essere e che non fu, vecchi giardini polverosi e puzzolenti di naftalina, ammirando la loro vuota e sterile perfezione.

Sospirò, sperando che il compagno avesse capito quanto fosse mesto ed errabondo.

“Scuse accettate.” mormorò allegramente il Grifondoro, scoccandogli un buffetto sul nasone, e incorniciando il suo viso tra le mani.

“Prima di morire…” proseguì Remus con fare serio, “…trovai una formula che faceva davvero al caso nostro. Peccato che sia stata dimenticata da tutti, sarebbe un aiuto impareggiabile per quanti non riescono a vedere il loro cammino e sono confusi, fuori dal mondo...E’ la Incantatio Vitalis.”

Severus si morse le labbra, intimorito. Mocciosus urlava a squarciagola, fustigandogli lo sterno con un mazzapicchi di angoscia.

Magia proibita: molti uomini avevano perduto la vita nel tentativo di trasmettere la vitalità del loro spirito a coloro che amavano. Lo scopo era unire l’anima caduta nelle tenebre con quella che avesse raggiunto un grado di radiosità tale da salvare l’altra, pur rimanendo i corpi (e in questo caso l’ectoplasma di Remus) dei proprietari distinti, separati e autonomi.

“E’ una cazzata, idiota, quel pazzo ci ridurrà in una poltiglia informe, saremo condannati a un inferno innominabile, per lui siamo soltanto delle marionette! Severus! Severus!”

Ma il mago non dava più retta al ragazzino sudicio e squallido.

Guardò con sviscerata dolcezza Remus, che lo strinse in un abbraccio soffocante con la propria aura.

“Te lo giuro, io e te saremo per sempre una sola entità indivisibile, un battito e un pensiero unici.”

Severus ricambiò la smisurata felicità che lo pugnalava sorridendo raggiante.

Dire “Ti amo” o “Ti appartengo” non aveva più senso, foglie caduche al cospetto dell’Infinito ruggente che gli si presentava davanti sul ciglio del baratro, e scomparvero dal suo vocabolario le parole rimpianto e lontananza.

“Dammi la mano, Severus.” lo invitò il compagno.

Mani giunte e intrecciate.

“Accetta il tuo passato, abbraccia il tuo presente e vedrai che il futuro non è poi così cattivo.” sussurrò il licantropo, prima di dare un bacio ardente e abissale a Severus.

Una lacrima scivolò dalle guance di entrambi gli uomini, e si trasformò istantaneamente in un vortice irruente e folle, mentre fuori il mare si vestiva di una surreale cattedrale di luce, l’uragano spazzava via il senso del tempo e dello spazio e il cielo venne prosciugato.

L’ultima cosa che pensò Severus, prima di diventare scintilla di una fiamma, fu quella di guardare con un ghigno divertito il cadavere di Mocciosus, che mai aveva capito che le cose non nascono subito né con consapevolezza, eppure accadono, come l’amore puro a volte deflagrano.


  
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