Ok, mi dispiace. Ho fatto di nuovo
passare dei mesi ma
ho avuto problemi di salute. Ho passato un bel po’ di tempo a
fare risonanze
magnetiche ed esami del sangue e sinceramente non avevo nessuna voglia
di
scrivere (alla fine non avevo niente, ma l'umore non era esattamente dei migliori). E da gennaio sono sotto esame quindi anche se la voglia
c’è, è il
tempo che manca ma davvero non potevo lasciare ancora in sospeso questo
capitolo. Quindi eccolo qui!
Ancora non l’ho riletto
(devo davvero rimettermi a
studiare): lo ricontrollerò appena avrò tempo ma
almeno ecco qui la prima
stesura! Un bacio a tutti!
E’ strano svegliarsi. Apri
gli occhi e per un momento è come se fluttuassi, come se non
fossi veramente
sveglia. Ci stai un attimo a tornare completamente alla
realtà e per me, quella
volta, fu più lenta di tutte le altre.
Aprii gli occhi e vidi solo
buio. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte prima di capire che
non ci
vedevo perché era notte, e ancora perché i miei
occhi cominciassero ad
abituarsi all’oscurità. Sopra di me il cielo
stellato, dovetti girare la testa
verso sinistra per capire che il calore che sentivo era dovuto a un
fuoco che
scoppiettava dolcemente.
Cosa ci
faccio qui? Riuscii
a pensare prima che i ricordi del
giorno prima mi colpissero come una valanga. Mi buttai di lato e
vomitai
sull’erba. Ci volle un po’ perché i
conati si attenuassero e mi tirassi di
nuovo a sedere, ma non ero sicura di aver finito. Mi strinsi nella
coperta
nella quale mi ero trovata avvolta. Sotto ero nuda. O
mio Dio. Mi scappò un singhiozzo. Sephiroth.
Safer era Sephiroth. O mio Dio. Ero con lui quando avevo
perso conoscenza, questo lo ricordavo chiaramente, dopo che…
ma fermai quel
pensiero. Non riuscivo nemmeno a pensarci. Dov’era? Sentii un
sospiro alle mie
spalle e mi voltai. Ma certo.
Sephiroth si trovava
dall’altra parte del fuoco. Seduto per terra, si reggeva la
testa tra le mani,
ma riuscivo ancora a vederlo in volto. Era pallido come un fantasma con
delle
scurissime occhiaie sotto gli occhi. Quando si rese conto che lo stavo
fissando, alzò lo sguardo e mi guardò negli occhi.
Fece un lieve movimento,
come per alzarsi, ma si immobilizzò a metà del
gesto. –
Vuoi…? – chiese esitante.
- Non ti avvicinare – gli
ordinai scattando in piedi. La voce rischiò di bloccarmisi
in gola e uscì molto
più stridula di quanto non mi fossi aspettata.
Al di là di quel primo
gesto
iniziale non si era mosso e non riuscivo a smettere di fissarlo. Il
viso, la
linea tirata delle labbra, la postura delle spalle, il modo in cui
stringeva e
distendeva le mani…tutto in lui mi diceva che quello era
Safer. Era l’uomo che
amavo.
E l’uomo che amavo era
Sephiroth. Il demone albino.
- Oh mio Dio – gemetti
mentre un altro conato di vomito mi piegò in due.
– Oh mio Dio, oh mio Dio… -
caddi in ginocchio e vomitai di nuovo. – Cazzo –
dissi con un altro singhiozzo.
Adesso piangevo pure. – Cazzo – ripetei. Non mi ero
mai lasciata andare a quel
tipo di linguaggio ma in quella situazione mi sentivo pienamente
autorizzata.
Una volta che i conati si
fermarono e i singhiozzi furono messi sotto controllo, tornai a
guardare verso
Sephiroth, che non mi aveva ancora staccato gli occhi di dosso.
- Come hai potuto – sibilai
velenosa.
- Ti prego – disse.
Spostò
una gamba in avanti, cominciando ad alzarsi, e le mani tese davanti a
sé come
in un gesto di supplica. – Lascia che ti spieghi.
Lo guardai mentre si alzava
in piedi e faceva un passo, esitante, verso di me. Io mi rifiutai di
muovere un
muscolo. – Cosa c’è da spiegare,
esattamente? – replicai gelida, con una calma
nella voce che non sentivo. Avevo ancora davanti a me
l’immagine delle fiamme.
E del sangue.
Prese un respiro profondo,
come per prendere coraggio prima di iniziare a parlare. Dopo un secondo
lo
lasciò andare senza dire una parola. Immagino fosse
difficile, per lui.
Giustificarsi. Spiegare. Non credo abbia mai dovuto farlo in tutta la
sua vita
e anche allora una parte di me, una piccola parte di me, nascosta e
messa da
parte sotto tutto quel dolore e quel cordoglio, lo sapeva. Quella
piccola parte
che per un istante che durò meno di un battito del mio
cuore, volle andare da
lui e abbracciarlo.
Chiuse gli occhi e prese un
altro respiro. Scosse la testa. – Sei la cosa più
importante per me – disse
alla fine. - Più importante di qualsiasi cosa e
se… - abbassò lo sguardo, come
se guardarmi negli occhi fosse troppo difficile. – Se potessi
tornare indietro
lo rifarei. Farei di tutto per tenerti in salvo.
- Stai zitto. Non voglio
starti a sentire! – urlai mentre sentivo gli occhi bruciare e
riempirsi
nuovamente di lacrime. Perché doveva essere così
difficile?
Sephiroth fece un altro
passo verso di me. – Hai tutto il diritto di
odiarmi… - mi disse con voce
rotta. – La verità è che non sono stato
in grado di pensare razionalmente a
quel punto.
- La verità è
che mi hai
mentito! – strillai facendo a mia volta un passo verso di
lui. Le mani strette
a pugno. – Per tutto questo tempo, mi hai mentito!
I suoi occhi furono attraversati
da un lampo. – Io sono Sephiroth – disse con
durezza, cominciando ad alzare la
voce. – Come avrei potuto dirtelo? Sono un mostro, sono il
“demone albino”. Non
volevo uccidere la tua famiglia ma quando ti ho vista a terra,
ricoperta di
sangue, non sono più stato in grado di pensare. Io SONO il
demone albino. Per
quanto avessi voluto illudermi di poter essere un uomo con te, un uomo
normale,
rimango un mostro. – parlando mi si era avvicinato. Ormai mi
stava solo a pochi
passi di distanza.
Non sapevo cosa rispondergli
e la cosa mi faceva arrabbiare ancora di più. Ero divisa,
lacerata da desideri
opposti. Perché non potevo odiarlo e basta?
Perché dovevo combattere tra il
desiderio di piangere, quello di scappare e quello, piccolo e quasi
irriconoscibile,
che mi diceva di correre tra le sue braccia e farmi stringere, farmi
consolare
da lui? Farmi dire che mi amava e che tutto sarebbe andato bene da quel
momento
in avanti.
L’unica cosa di cui ero
certa è che dovevo vomitare di nuovo ma ero troppo testarda
per farlo così
restammo in silenzio, uno di fronte all’altro.
Proprio quando sembrava
avesse deciso di dire ancora qualcosa, quando fece
quell’ultimo passo che
ancora ci separava, alzando una mano, come per toccarmi, trattenendola
solo a
pochi centimetri dal mio viso, scorgemmo delle luci in lontananza.
- Sono gli abitanti di Wutai
– mi disse quieto, senza abbassare la mano. Voleva toccarmi,
sfiorarmi,
qualunque tipo di contatto gli sarebbe bastato, potevo leggerlo nei
suoi occhi,
nella posizione del suo corpo. – Lì vive un uomo,
uno dei guerrieri più forte
di tutto il pianeta. Ti insegnerà a combattere, se vorrai.
Oppure ti porterà
ovunque tu voglia.
Forse si aspettava una
risposta, ma io non potevo fare altro che guardare lui, i suoi
occhi…la sua mano.
Sarebbe bastato un lievissimo movimento, sarebbe quasi potuto succedere
per
sbaglio, per farsi toccare. Abbandonarsi al suo tocco. Prendergli la
mano e non
lasciarlo andare, supplicarlo di non lasciarmi. Ma non potevo farlo, e
lo
sapevo. Mi costrinsi a fare un passo indietro e a distogliere lo
sguardo, con
tutta la volontà che avevo ancora in corpo.
Strinse la mano a pugno e
abbassò il braccio. – Hai tutto il diritto di
odiarmi – ripeté. – Io ti amo. Ti
amo, non dubitare di questo, ti prego. Se mai vorrai vendicare per la
tua
famiglia, se mi vorrai uccidere…io ti aspetterò.
– Spalancò quella splendida,
maestosa ala nera e mi guardò un'ultima volta prima di
alzarsi in volo.
Girai su me stessa per
seguirlo con lo sguardo. Stavo piangendo di nuovo. Ancora, un
singhiozzo mi
percosse e nascosi il viso tra le mani. Mi abbandonai a quel pianto con
tutta
me stessa perché, mi promisi, quella sarebbe stata
l’ultima volta che l’avrei
fatto. Mi asciugai il volto con un lembo della coperta e mi voltai
verso le
luci, in attesa.
Dopo poco vidi delle persone
emergere dagli alberi. Erano cinque e ognuno di loro reggeva una
torcia.
Raddrizzai la schiena e aspettai che si avvicinassero, osservandoli.
Quattro di loro erano
vestiti con abiti simili, che mi ricordavano gli abiti da cerimonia del
mio
villaggio. La cosa non mi stupì, sapevo che Nacom era stato
fondato da gente
che era immigrata a Midgar da Wutai. Era l’uomo al centro che
catalizzò la mia
attenzione. Vestiva abiti neri e stivali di pelle, a destra, appesa
alla
cintura, teneva una pistola con tre canne. Gli mancava il braccio
sinistro.
Aveva i capelli neri e la pelle pallidissima tanto da farlo
assomigliare a un
fantasma e, mi resi conto quando ormai mi stava a pochi passi, aveva
gli occhi
rossi come il sangue.