Gladiator’s Tale
Questo brano parla di un
gladiatore, un uomo come tanti altri, costretto a combattere per sopravvivere,
per questo il suo nome non verrà mai pronunciato.
Era seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo sguardo rivolto verso il
basso. Si trovava nella gabbia insieme ai suoi compagni, anche loro gladiatori.
Come mai fosse lì non lo ricordava più, erano anni che combatteva nell’arene
per sopravvivere. E cosa lo spingeva a restare in vita? Niente, sua moglie e
suo figlio erano morti, era solo al mondo, continuava a combattere, ma non
sapeva per quale motivo. Dicevano che fosse il più forte, o almeno l’unico
sopravvissuto così a lungo nella sua compagnia. La sua fama lo aveva spinto
fino a Roma, dove si trovava in quel momento.
Guardò l’elsa della sua spada. Un’altra battaglia, un’altra lotta per la
sopravvivenza. Perché lo faceva? Ormai era stanco di combattere. La vita non
gli era più così cara come una volta. Oltretutto non voleva privare altre
persone delle loro vite per salvarne una sola. E perché accadeva tutto questo?
Per far divertire degli stupidi e boriosi patrizi, comandati da
quell’imperatore, molto peggiore di loro. Quel sovrano con la faccia da pesce
lesso: ogni volta che lo vedeva provava un enorme gioia dal fatto di non assomigliargli
per nulla, preferiva cento volte essere un gladiatore piuttosto che
un’imbecille del genere. Tirò fuori la spada dalla sua custodia. La osservò:
era incrinata in più punti, sul filo della lama vi erano delle scheggiature, il
suo colore tendeva al rosso, erano i segni evidenti delle persone e degli animali
che aveva ucciso con essa, il colore della vita scivolata via così facilmente.
Una voce chiamò il suo nome, la lotta stava per iniziare. Si alzò, rinfoderò
l’arma e si diresse lentamente verso l’uscita della cella, passando accanto ai
suoi compagni. Al suo passaggio tutti alzarono le loro armi in segno di saluto.
L’uomo non li degnò nemmeno di un cenno, quelli probabilmente sarebbero stati i
suoi avversari, altre vittime della sua abilità. Una guardia gli aprì la porta
della gabbia e lui uscì. Si incammino lungo il corridoio che portava
nell’arena. Era tutto buio, l’unica luce si trovava venti metri più avanti, la
fine del tunnel. I suoi passi risuonavano più forti che mai, era solo, come lo
era sempre stato. A passi sicuri entrò nell’arena e raggiunse il centro di
essa, senza mai alzare lo sguardo. Poi, finalmente, lo fece e si guardò
intorno: le tribune erano gremite, molti invocavano il suo nome, altri
battevano i pugni contro il legno degli spalti, altri ancora applaudivano. Alzò
le mani al cielo e fece un giro su se stesso per salutare la folla. Maledetti,
siate maledetti dagli Dei, pensò l’uomo. Sputò a terra per proteggersi dalla
influenza di quei “maledetti”, come li definiva lui. Prese lo scudo era legato
alla sua schiena, e lo impugnò con la mano sinistra, mentre con l’altra
estraeva di nuovo la spada. Abbassò sugli occhi la visiera dell’elmo e si mise
in posizione di difesa.
Il rumore sugli spalti era aumentato, tutti erano esaltati e non vedevano l’ora
che lo scontro iniziasse. Non avrebbero aspettato a lungo. Il cancello da cui
era uscito poco prima si aprì di nuovo ed entrarono cinque gladiatori. Li
riconobbe, erano nella gabbia con lui. Due gli si scagliarono subito addosso.
Con la spada parò il colpo di uno di loro e indietreggiò velocemente per
schivarne un altro. Gli altri tre rimasero fermi, aspettando il loro turno.
Riusciva egregiamente a tenere a bada i due gladiatori, ma si stava stufando di
giocare con loro. Parò un colpo con lo scudo e con un fendente attaccò il
gladiatore alla sua destra, che fu colpito all’inguine e si accasciò a terra
perdendo sangue a fiotti. L’altro continuò ad incalzarlo, più motivato di
prima, ma non aveva speranze. Le loro spade continuarono a cozzare fra loro per
qualche secondo, poi l’uomo ebbe il sopravvento. Con un potentissimo colpo
riuscì a disarmarlo e lo colpì allo stomaco, forandogli l’armatura di pelle.
Era il turno degli altri tre. Uno di loro gli lanciò un rete che lo investì in
pieno. Non riusciva a muoversi. Si affrettò a tagliarla con la lama, mentre i
tre lo stavano caricando. Per parare un colpo in quella situazione precaria, fu
sbattuto a terra. Ma ormai si era liberato della rete. Un fendente dall’alto
cercò di colpirlo alla nuca, ma con agilità rotolò alla sua destra. Assestò un
calcio alla gamba di uno dei gladiatori, che perse l’equilibrio e fu infilzato
dalla spada dell’uomo. Si rialzò e strappò con violenza la spada dal cadavere,
il sangue zampillò fuori dal corpo, inondandolo completamente. Con la lingua si
pulì il sangue intorno alla bocca: aveva imparato ad apprezzare il sapore del
sangue.
Gli altri due non stettero ad osservare. Uno riuscì a colpirlo di striscio alla
spalla, ma immediatamente subì un colpo all’ascella che tranciò di netto il
braccio. Il gladiatore, agonizzante, si accasciò a terra toccandosi il punto in
cui prima vi era l’arto: morì presto dissanguato. L’altro, osservò la scena
inorridito, e rimase pietrificato. Fu la sua ultima visione: la testa gli venne
mozzata di netto.
Con il dorso della mano, il gladiatore si pulì il viso dal sangue.
Gli spalti erano in fermento, la maggior parte degli spettatori si era alzata
applaudendo e urlando a squarciagola il suo nome. Avevano visto cinque uomini
morire, come potevano applaudire? Aveva sempre disprezzato quella gente che,
pur morendo di fame, era contenta di vedere certi spettacoli. “Panem et
circensem” era il motto degli imperatori di quell’epoca e la gente era felice.
Sputò un’altra volta a terra poi si diresse davanti la tribuna dei patrizi.
L’imperatore si alzò in piedi, chiese il silenzio e tutte li tribune
ubbidirono. L’imperatore alzò l’indice e il medio a forma di “v”, il segno di
vittoria. Questo significava che gli risparmiava la vita. Fu preso da una rabbia
implacabile.
Chi diavolo si credeva di
essere quell’uomo per poter decidere della sua vita? Soltanto una persona
poteva farlo e non era sicuramente lui.
L’uomo lasciò cadere a terra lo scudo e alzò la mano sinistra. Basta, è l’ora
di finirla, pensò. Prese la spada, la conficcò nel suo stomaco e con un enorme
sforzo la girò all’interno del suo corpo. Il dolore era lancinante, il sangue
iniziò ad uscire dalla sua bocca. Trovò le forze per gridare un’ultima cosa:
“Mi riprendo la mia vita!”
Finalmente sarebbe stato libero, si sarebbe congiunto con sua moglie e suo
figlio, avrebbe riabbracciato i suoi compagni, ma soprattutto non avrebbe più
combattuto per il divertimento di certa gente.
Le forze lo abbandonarono completamente. Cadde in ginocchio e poi collassò a terra.