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Autore: mrmorrigan    29/01/2013    1 recensioni
Quattro storie senza contesto, quattro personaggi diversi, quattro vite diverse e un solo, triste lieto fine. Sono storie di ordinaria follia, ma possono essere le storie della vita di ognuno di noi.
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Un essere estraneo al nostro mondo tenterà di capire come funzioniamo; incontrerà un amico e lo aiuterà ad esaudire un suo desiderio, ma che abbia frainteso tutto?
Dalla fermata di un pullman partirà l'avventura di un ragazzo per il mistero più grande della vita e un'allettante fanciulla lo accompagnerà. Vale la pena lasciarsi rapire da una bellezza così mortale?
Un normale ragazzo perseguitato da incubi che si sveleranno presto essere quasi sempre reali. Ma cosa succede quando sogni la tua stessa morte?
Voci di narratrici esterne descriveranno un luogo insolito abitato da un'insolita figura, che sia ogni bambina dentro di noi?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti
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Crucio Curse

Prima seduta - Colui che attende


Mi piaceva sedermi ovunque ad aspettarla. In autobus, in treno, su una panchina al parco. Mi sedevo persino sui marciapiedi, con le gambe incrociate e lo sguardo sul mondo, a cercare qualcosa di lei in ogni tratto umano delle persone che passavano ogni giorno per le strade, che fossero in macchina o a piedi. Una volta, mi ricordo di essermi piazzato sulle scale che portavano nei sotterranei della città, lì dove migliaia di umani prendevano la metropolitana. Cosa avessero da fare ogni giorno in quei postacci, non lo seppi finchè non chiesi ai passanti, tanto per ingannare l'attesa.
«Mi scusi, dove sta andando?» era quasi sempre questa la domanda. Erano le risposte ad essere diverse.
«Al lavoro, che domande fai?» «A scuola, cosa te ne frega?» «A trovare un parente.» «Dalla mia ragazza.» «In vacanza, finalmente!» «Fatti gli affari tuoi!» E poi c'erano quelli che, a loro volta, ti rispondevano con domande. «Perchè chiedi?» «Perchè vuoi saperlo?» «Tu chi sei?» «Che te frega?» Io dico, se una persona ti pone una domanda, perchè dovresti rispondere con una domanda? La gente è bizzarra. E maleducata. «Non ho tempo, barbone.» «Togliti di mezzo, ho fretta.» «Ma vai a lavorare, schifoso!» «Trovati qualcosa da fare, fannullone. Siete voi i pezzenti che mandano in rovina la società!» Io però, qualcosa da fare ce l'avevo. Ed era pure impegnativo. Aspettavo. Sì, provate voi ad aspettare ogni giorno e ogni notte, con la paura di addormentarvi e non vederla passare, di perdere l'unica occasione della vostra vita. E' forse questa un'attività che rovina la società? Io non la toccavo affatto, quella cosa! Non m'interessava la società. M'interessava lei, lei soltanto. Mi capite? Capite che io non davo fastidio a nessuno, vero? Me ne stavo quasi sempre in disparte. L'umanità mi aveva inizialmente colpito. Ero affascinato da qualsiasi cosa, persino da quello che poi ho scoperto si chiamassero "crepe" nei muri. Sapete come ho imparato la lingua? Ascoltando. Già. Ed ero molto fiero di questo, perchè, a mio parere e con tanta modestia, parlo decentemente. Sono stato sconvolto da tutti quei rumori e suoni strani, tutti diversi. Però mi ero accorto che ogni tanto, le parole - sì sì si chiamano parole - ritornavano e non sempre sulle stesse bocche. Ho pensato che fosse una specie di linguaggio per comunicare, come il nostro, ma con i suoni.
Una volta, quando mi ero stabilito in un posto fisso per un determinato periodo di tempo, ho conosciuto un ragazzotto. Girava sempre da quelle parti, quasi con regolarità. Mi spiegò che al mattino arrivava da casa sua con l'autobus, aspettava lì un'oretta e poi andava a scuola - se gli andava, diceva. Poi, verso l'ora di pranzo, aspettava un'oretta, circa, e riprendeva il mezzo per tornare a casa - sempre con meno voglia, diceva. Infatti, poi ha aumentato le ore di attesa del ritorno. L'ho sempre ammirato per questo. Avevo trovato un'altra persona che non si stufasse ad aspettare, come non ammirare la cosa? Non tutti gli umani sono senza speranza. Dicevo, questo ragazzo mi ha aiutato parecchio in quel periodo, a conoscere molte cose. Grazie alle mie capacità di apprendimento rapido - l'ha detto lui che le avevo! - capivo ed immagazzinavo qualsiasi cosa mi si dicesse. Sapevo a malapena una centina di parole, rubate al volo dai passanti, ma grazie a quelle riuscimmo a capirci, sempre di più, poichè me ne insegnava di nuove. Lui era diverso dagli altri, lo so perchè una volta avevo provato a parlare con persone sbandate - ubriachi o barboni - ma avevano perso la pazienza e mi avevano dato del pazzo. Come se il pazzo fossi io! Vi dicevo, era diverso! Quando gli dissi che ero nuovo lì, sulla Terra - così si chiama questo pianeta - e che ero completamente estraneo a tutto, lui capì. Quando gli dissi che la stavo aspettando, capì. Non s'interesso più di tanto al mio compito. Mi disse che gli piaceva conversare con me. Non amava molto andare a scuola, diceva di odiare tutti lì. Non gli piaceva nemmeno tornarsene a casa, diceva di vivere in una famiglia di disgraziati. Tuttavia notai che era molto intelligente, parlava in modo chiaro e non usava le parole di quei ragazzi con le creste o di quelli che vestivano spesso in modo simile, se non uguale. Non parlava nemmeno come il gruppo di uomini e donne vestiti con giacche e cravatte e valigetta che mi avevano spesso guardato male quando aspettavo sulle panchine in stazione. Era paziente, non si arrabbiava mai, solo qualche scintilla di fuoco gli si accendeva negli occhi quando parlava di famiglia o degli altri. L'ho considerato un bravo ragazzo, ma quando glielo dissi sorrise in modo ambiguo dicendo che chiunque lo conoscesse dicesse esattamente il contrario. Spesso gli davano del perdigiorno, del ribelle, del fannullone - anche a me l'avevano detto! - o gli dicevano che fosse una nullità. Lui - si chiamava Alex - mi fece notare alcune cose in me, che mi differenziavano dagli umani, secondo lui. Per esempio, mi disse che, per quanto ne sapesse, non esistevano persone con gli occhi viola. Più esattamente li definì "color pervinca con screziature di blu zaffiro". Non capendone la bellezza mi propose di guardarmi in uno specchio, ma quando capìi cosa fosse quella superficie riflettente, mi rifiutai. Sapete, io non posso vedere il mio riflesso, rimarrei intrappolato in esso. Allora, da bravo ragazzo, ricordo che il giorno dopo mi fece vedere un'immagine del fiore pervinca e del minerale zaffiro sul suo telefonino. Erano bellissimi. Mi fece anche un disegno di un occhio simile al mio, era bravissimo, ma diceva che i genitori gli avevano proibito di andare ad una scuola artistica. Peccato, so riconoscere quando un soggetto è bello e vi dico che era bellissimo. Aveva proprio la forma di alcuni occhi umani, solo più grande e impercettibilmente allungato agli angoli. Mi confidò che furono i miei occhi a convincerlo che non stessi mentendo sulla mia provenienza e sulla mia missione.
Un'altra cosa che secondo lui non esisteva nel mondo, era la mia totale assenza di "emozioni". Complicatissima cosa, vi dico. Durante le ore che ogni giorno passavamo insieme, mi aiutò a capire alcune delle più comuni e facilmente individuabili emozioni. La rabbia, per esempio, che può diventare ira, odio o disprezzo. La felicità, che si presenta anche come gioia, piacere, esultanza. O la tristezza, la gelosia, l'invidia. Ce ne sono tantissime! E' una delle poche cose che mi affascinano ancora a distanza di anni. Per tornare al discorso di prima, a sentire Alex, io non ne provavo. Non provavo neanche una di queste cose. Non mi rallegravo quando veniva a trovarmi, non mi rattristavo quando si congedava. Non mi arrabbiavo se qualcuno mi rispondeva male o mi ignorava, nè mi spaventavano certe idee astratte - per dare l'esempio che fece lui, nel caso lei non si presentasse, l'idea di aspettare eternamente non mi segnava in alcun modo - capite? Questo finchè la mia permanenza qui non mi influenzò.
Vi spiego. Io ho iniziato a percepire il cambiamento solamente quando Alex me lo fece notare. La prima rottura, il primo stacco.. insomma, il primo qualcosa ci fu quando sorrisi. Mi ricordo ancora bene l'espressione turbata di Alex. Stavamo parlando di lei, mi disse: «Fai finta che io sia lei.» «Che vuol dire fare finta?» gli chiesi. «Vuol dire che ti immagini che invece di me ci sia lei. L'immaginazione è frutto della tua mente, devi inventarti le cose. Ti inventi la sua figura, ti apparre in mente e la sovrapponi all'immagine di me che ti sto davanti. Capito?» E a quel punto i suoi occhi si ingrandirono al massimo delle loro possibilità, le sue sopracciglia si avvicinarono e si inclinarono in un'espressione che sembrò offesa, come di chi avesse sentito una grandissima fandonia; in seguito la fronte si rilassò e le sopracciglia si piegarono in su, gli angoli delle labbra si tirarono e si piegarono dando forma ad un sorriso, dopo di che la bocca si aprì del tutto e ne uscì una risata divertita. Io attesi pazientemente che finisse, trovando bizzarra quella cosa, soprattutto in lui, perchè non era mai successa fino ad allora. «Hai sorriso!» mi disse e lo ripetè almeno altre quattro o cinque volte. Gli dissi che era impossibile, poichè io non ho nella mia mente un'immagine di sorriso, non ho le indicazioni su come si faccia una cosa del genere, quindi era impossibile che avessi sorriso. E poi mi imitò l'espressione che negavo. Fece finta di guardare nel vuoto e dalle piatte labbra, un angolino si mosse appena e un sorrisetto malinconico gli si dipinse sul viso. Sorrisi. Esattamente. Quando quel pomeriggio il mio compagno tornò a casa, io riflessi, riflessi e capìi che quell'unica cosa fu l'inizio di tante. Quel timido sorriso scatenò torrenti in me e ne rimasi sconvolto - sì, proprio sconvolto! - per un po' di giorni. Nessuno può affrontare numerose emozioni tutte in una volta. Non potei nemmeno io, che ero così calcolato ed estraneo a quelle cose e avrei dovuto avere tutti i mezzi per affrontare qualsiasi problema. Quando ci progettarono non pensarono anche ai problemi ai quali non eravamo soliti. E ovviamente da allora cambiai. Se ne rese conto anche Alex, ero più turbato, più sulle spine, sempre attento a qualsiasi cosa succedesse intorno, perchè adesso avevo paura - sì, provai anche la paura - che le mie barriere fossero state sconfitte e fossi vulnerabile a tutto.
Tuttavia, la paura più grande riguardava lei. Pensavo, e se nella confusione di questa nuova esperienza mi fosse sfuggita di vista? Se mi fosse passata accanto e non l'avessi riconosciuta? Ho iniziato a disperarmi. Un giorno mi spostai dal solito posto e aspettai, da dietro un angolo, che arrivasse Alex. Non l'avevo avvisato, non sapeva niente. Era con una persona, camminava parlandole animatamente e spiegandole chissà quali misteri. Arrivato, inizialmente si era guardato intorno disperso, aveva sospirato pesantemente e si era seduto al solito posto, ad aspettare, credo. Non parlava più con l'accompagnatore. Io aspettavo lei, lui aspettava me e quella persona aspettava che lui parlasse. Un cerchio si stava formando. Per una settimana ho continuato a spiare e vedere se si presentasse ogni giorno al nostro posto. C'era. Sempre. Però, da solo. Non mi cercava più, si metteva ad ascoltare la sua musica infernale e chiudeva gli occhi, lì seduto sul cornicione, pensando a chissà quali cose. Ero curioso, ma non mi era permesso leggere nella mente, così dovetti fremere di curiosità. Il tempo passò, io mi trasferìi sullo scalone di un grosso edificio - un'università, scoprìi in seguito - e ripresi ad attendere. Qualcosa era cambiato, non ero più impassibile, non riuscivo più a guardarmi attorno senza vedere o a vedere senza interessarmi. Mi chiedevo cosa pensasse il tal ragazzo, cosa pensasse la tal donna, dove andasse il tal tizio o cosa cercasse il tal gruppo di marmocchi. Più di tutto, mi dava fastidio - e me lo da' ancora adesso - il fatto di non potermi concentrare. Mi stavo iniziando ad innervosire davvero, mi sgridavo ogni volta e la mia pazienza reggeva per metà giornata, a volte meno. Sentivo sempre più spesso il bisogno di dover fare qualcosa, di dover parlare con qualcuno. Importunavo i passanti affinchè mi degnassero di un saluto. Che cosa patetica! Scoppiavo a piangere se mi erano negate le attenzioni, gridavo se i piccioni se ne andavano spauriti, odiavo chiunque mi girasse alla larga vedendomi steso sugli scalini o in ginocchio a sbracciarmi per fermarlo. Poi, quando pensai di essere ormai impazzito, vidi un'ombra fissarmi da dietro un lampione, una fredda sera nebbiosa. Fu quanto bastò a riaccendermi. Alex mi aveva parlato di "speranza"; credo fosse quella. Mi spostai su una panchina poco lontana dal lampione. Continuai a vedere l'ombra, ogni sera, negli angoli più bui, ma sempre in luoghi diversi. Dovevo spostarmi ogni giorno. E la seguìi. Di panchina in panchina, di muretto in muretto, marciapiede, bordo di cestini di pietra o statue nei parchi. Non pensavo più, passavo il giorno a calcolare il luogo dove avrebbe potuto ricomparire. Mai azzeccato. Non sentivo più nulla, non ero speranzoso - avevo perso la speranza di riuscire a prenderla -, non ero arrabbiato perchè non riuscivo a vedere più che un'indefinibile ombra, non rimanevo deluso se qualcosa non andava secondo i miei piani. Perchè ormai di piani non ne avevo più. Tutto si era azzerato. Tutto proseguì normalmente, finchè non mi accorsi che l'ombra mi avesse portato nel posto dove Alex mi incontrò la prima volta. Alle nove e dodici minuti di sera, lui era lì, ad aspettare. Non provò nulla quando mi vide, disse solamente: «E' passata un paio di volte e ha chiesto di te. Le ho detto di cercare altrove, magari lì dove scappano le persone bisognose di solitudine.» Quando gli chiesi cosa ci facesse lì, mi disse soltando: «Aspetto.» mentre scorreva con il polpastrello sullo schermo illuminato del suo aggeggio mostruoso. Piano piano tornammo a parlare, parlare di cose futili, di poca importanza. Il 14 novembre dell'anno seguente arrivò di mattina presto, tutto deciso, ma senza alcun'altra traccia di emozione in viso. Mi prese per mano e mi disse di sapere dove fosse. Lo seguìi senza protestare. Mi portò per stradine sconosciute, vicoli stretti, parchi abbandonati, gallerie commerciali piene di gente, piazze affollate e sottopassaggi deserti. Ci fermammo solo quando fummo a metà di un ponte, sul marciapiede laterale alla carreggiata. Non aveva più parlato, ma quando si fermò si girò verso di me, mi disse «Ci siamo quasi.» e mi sorrise triste, con tutta la malinconia possibile negli occhi venati di cobalto. Mi lasciò andare la mano e senza nemmeno darmi il tempo di accorgermi dell'accaduto, si gettò di sotto, svanendo tra i flutti mirto del torrente placido. E la vidi.
  
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