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Autore: Luna Malfoy    31/07/2004    13 recensioni
Mi sembra così… naturale… ricordare tutto questo, mentre sono seduto qui, su quella stessa spiaggia. [...] E' merito tuo, se sono cresciuto e cambiato, in meglio. [...] [OneShot dedicata ad Ly]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Questa fanfic contiene alcune scene di carattere violento e alcune relative al sesso

*Questa fanfic la dedico a Ly. So che, come me, è una sostenitrice della coppia Harry/Ginny (sebbene io sia anche una fan della coppia D/G), ma più di tutto, so che è un’autrice bravissima, che con ogni sua storia, riesce a farmi stare bene. Scusate per le scene prive di azione e per quelle forse troppo ricche di malinconia, ma il periodo me lo impone. Scrivendola, mi è sembrato di vivere un bel sogno… spero sia lo stesso per voi.* 

 

 E’ tempo di volare

 

Era un pomeriggio di inizio agosto. Come ormai ero abituato a fare da tempo, avevo lasciato casa Dursley intorno alle tre, quando il sole dava il massimo del suo impegno, arrostendomi con i suoi raggi. Non volevo stare con i miei zii, non volevo ascoltare le cazzate di mio cugino Dudley, non l’avrei sopportato. Mio zio Vernon, col suo solito tono odioso, mi aveva fatto notare più volte che avevo il classico atteggiamento di chi ce l’ha col mondo.

 

Niente di più sbagliato. Ce l’avevo con me stesso, prima ancora che con il mondo.

 

Ero disteso sul prato dei giardinetti, godendomi il silenzio di quelle ore quiete, senza bambini intenti a giocare. Dovevo avere un aspetto orribile, me ne rendevo conto da solo. Spesso mia zia mi accusava di essere diventato ancora più scapestrato di prima. Capelli più in disordine, viso smunto e corredato di un bel paio di occhiaie. Non c’è che dire, pensai più volte dentro di me, dovevo fare veramente schifo.

 

Come stavo dicendo, passavo interi pomeriggi a cuocermi sotto i raggi del sole. Lontano da tutto e da tutti. Le uniche volte in cui, a causa di qualche temporale estivo, avevo passato la giornata in casa mi era sembrato di impazzire. Chiuso nella mia camera, con le persiane chiuse e la porta sigillata da una sedia. Con la stazza che possedevano i miei parenti, non gli sarebbe risultato difficile spalancare la porta e venire a rompermi le scatole, ma un po’ per timore della mia reazione, un po’ per noncuranza, venni lasciato sempre in pace.

 

Nessuno di loro mi domandò mai il motivo di tanto accanimento col resto dell’universo. Meglio, mi ritrovai a pensare col tempo. Sebbene Malocchio Moody e Remus Lupin, avessero minacciato i miei zii, sapevo che mi sarei ritrovato in netto svantaggio con loro se avessero saputo. E il nocciolo era proprio quello. Mi ero lasciato vincere dall’apatia, dal nervoso, dalla rabbia, solo per quel motivo. Ma forse la verità è che non mi andava di parlarne.

 

Un fruscio d’ali mi destò dal mio torpore mentale. Edvige mi guardava, immobile, dall’alto di una costruzione in legno. Uno scivolo, per la precisione. Aveva un bigliettino attaccato alla zampa e aspettava che le dessi il permesso di avvicinarmi. Negli ultimi tempi ero diventato un po’ scontroso e lei doveva averne risentito.

 

“Vieni qui…” Le dissi con gentilezza, sperando capisse che lei era l’unica con cui avrei avuto voglia di stare, in quei momenti. Era pur sempre una compagnia migliore, rispetto a quella che mi si prospettava a casa.

 

Sul foglio di pergamena ingiallita, spiccava la calligrafia storta e disordinata di Ron, il mio migliore amico. Non seppi sul momento, se fossi felice o meno di ricevere una sua lettera. Non sapevo niente, in realtà; neanche se la notizia, o meglio la proposta, che mi dava mi sollevasse di ben poco il morale o meno. Con tutta probabilità, pensai, non mi fece né caldo, né freddo e acconsentii in automatico, come per abitudine.

 

Chiesi ad Edvige di precedermi a casa. Se i vicini mi avessero visto arrivare con un gufo sulla spalla, mio zio avrebbe intrapreso un sermone di rimprovero, senza fine. Francamente non mi importava poi molto, ma volevo stare tranquillo. Solo quello.

 

Così, senza troppo slancio, mi chiusi di nuovo in camera mia, sbattendo la porta e rispondendo, con l’entusiasmo di un bambino che deve tornare a scuola, alla lettera che avevo appena ricevuto. Un “sì, d’accordo”, sarebbe bastato. Ero certo che Ron non se la sarebbe presa per quel messaggio telegrafico. Credevo che ormai sia lui, sia Hermione, si fossero abituati alle mie lettere brevi, concise e forse fredde. Infatti, non mi sbagliavo. Mi dispiaceva per loro, come era ovvio che fosse, ma non riuscivo a metterci tutta la carica vitale degli anni passati. Non mi dispiacque però che come al solito i miei zii si fossero dimenticati del mio compleanno, tuttavia non mi provocò alcuna felicità, il fatto che sia Ron, sia Hermione (che quell’anno stava trascorrendo le vacanze estive, con i suoi, in Bulgaria), se ne fossero ricordati come tutti gli anni.

 

Scesi le scale come se dovessi trascinarmi dietro i piedi. Avevo appena richiuso il baule con tutte le mie cose dentro, nel mentre della full immersion di pensieri. Zio Vernon era seduto sul divano, di fronte alla televisione, con il ventilatore puntato addosso. Dudley sedeva accanto a lui, con un gelato a bastoncino in mano, per metà finito sulla camicia a fiori che indossava. Zia Petunia non era con loro in soggiorno, ma sentii qualche rumore in cucina, alle mie spalle e mi fu semplice intuire che probabilmente si stava occupando della cena.

 

“Mi hanno mandato un gufo, i signori Weasley. Incominciai con tono piatto, tralasciando di dire che il gufo l’aveva spedito Ron. In fin dei conti l’idea era effettivamente dei genitori, quindi non avevo detto poi una gran bugia. “Vengono a prendermi domani mattina.”

 

Zio sembrò sul punto di dire qualcosa, ma lo bloccai.

 

“Con loro ci saranno quei due signori che ti hanno fermato alla stazione. Mentii spudoratamente. Pensandoci bene, anche se l’idea di andare alla Tana non mi rendeva felice come sempre, non mi allettava neppure il pensiero di dover rimanere ancora un mese con i Dursley. “Ricordi?!”

 

Lo vidi pensieroso, con tutta probabilità inquieto e forse pure spaventato della prospettiva di ritrovarseli per troppo tempo in giro per casa, magari sul piede di guerra. “Fa’ come ti pare.

 

Lo spettro di un sorriso aleggiò sul mio volto. “Benissimo.”

 

Di lì a poche ore, ero crollato sul letto nel mio ormai consueto sonno disturbato.

 

vvv

 

L’indomani mattina, non servì neppure il solito raggio di sole insidioso sugli occhi. L’orologio della cucina segnava appena le sette e io ero già in piedi. Sapevo che Arthur sarebbe venuto a prendermi alle otto, otto e trenta massimo, come era solito fare.

Zia era già all’opera per preparare una ricca colazione abbondante per il suo ciccino, mentre io mi servii tranquillamente della mia dose quotidiana di latte e biscotti, prima di una bella doccia.

 

Mi accorsi, mentre affondavo l’ultimo frollino nella tazza di ceramica, imbevendolo di quel liquido bianco e dolciastro, che da un mese, forse poco più, prendevo tutto così. Come veniva. Non avevo impulsi o reazioni. Ero come un biscotto, che si lascia affondare nel latte, senza far altro che assorbirlo. Un biscotto non reagisce, non si ribella. Si lascia trasportare.

 

Il che, mi dissi, mentre mi infilavo sotto la doccia, non era una buona cosa per un ragazzino di appena sedici anni. Un ragazzino di sedici anni che ragiona e agisce come un uomo, commettendo errori irreparabili… tra l’altro. Lasciai scorrere l’acqua fresca sulla pelle, ormai fin troppo ambrata dal sole, appoggiando stancamente le mani sulle mattonelle. Forse era stata l’idea di abbandonare quella casa, di cambiare aria per un po’, di non sentirmi gli sguardi dei miei parenti addosso, ma quella notte avevo riposato un po’ più del solito e le occhiaie sembravano averne appena appena giovato.

 

Quando uscii dalla cabina doccia, infilandomi un asciugamano -ormai consunto- in vita, mi resi conto specchiandomi che i capelli erano cresciuti di parecchio. Non mi diede alcun fastidio, né feci una piega. Li tirai indietro, pentendomene immediatamente dopo.

 

Che schifo pensai sembro Malfoy.

 

A dire il vero, in quel momento, tutta la mia figura mi sembrò diversa dal solito. Saranno stati i capelli più lunghi o forse il fatto che a metà luglio ero stato costretto a cambiare paio di occhiali, per via del sedere di Dudley che li aveva irrimediabilmente rotti o forse ancora il vedermi anche più alto del normale. Era passato ormai tanto tempo da quando mi ero osservato in uno specchio per l’ultima volta e, notai, parte della testa era tagliata fuori dal riflesso, il che stava ad indicare che ero aumentato di qualche centimetro.

 

Neanche quello mi fece alcun effetto.

 

Mi sentivo irrimediabilmente vuoto.

 

Avvertì una sensazione strana, appena piacevole, quando il camino di casa Dursley tremò e vidi la figura del signor Weasley, sbucare dalla coltre di fuliggine e lanciare un incantesimo, per ripulire tutto ciò che si era sporcato.

 

“Harry…” Mi salutò semplicemente, con un sorriso per nulla gioioso. Mi parve… stanco. “Dammi il baule.”

 

Scossi la testa. No, era fin troppo a pezzi e io mi ero finalmente liberato del corpo gracilino, dovevo rendermi utile a quel pover uomo che si prodigava sempre tanto per me. “No, lasci lo porto io. Lei prenda Edvige.”

 

Lo vidi squadrarmi con gli occhi nocciola, un po’ incerto, prima di afferrare la gabbia contenente la mia “amica” e sparire in direzione Tana, dopo aver salutato distrattamente i miei zii. Non so che faccia avessi, quando mi voltai trascinando il mio bagaglio fin dentro il camino. Dubito sia stata amichevole o contenta, ma neanche scontrosa. Alzai una mano in segno di saluto e mi sentì spingere verso l’alto.

 

Quando atterrai nel soggiorno della Tana, malamente, la prima persona che vidi fu la signora Weasley. Stava in piedi, immobile, davanti al camino ad attendere il mio arrivo. Aveva le mani sui fianchi e un’espressione dolce sul volto. Mi aiutò a sollevarmi da terra e mi spolverò la maglietta nera che indossavo.

 

“Ben arrivato. Mi disse, facendomi segno di lasciare il baule a terra e di seguirla.

 

Mi diede un bel bicchierone di succo di zucca e mi sentii meglio. Difficile trovarlo nella Londra babbana. Un piacevole tepore mi invase, rilassandomi. Era qualcosa di interno, come se una barriera si infrangesse. Peccato che ne avvertissi molte altre tutte intorno al cuore.

 

“Ron?!” Domandai un po’ confuso. Solitamente era il primo ad accogliermi, dopo sua madre. Mi si fiondava addosso come se avesse paura che fossi stato maltrattato dai miei zii e cominciava a tartassarmi di domande.

 

Molly Weasley mi guardò sorridente. “E’ andato a terminare alcune spese a Diagon Alley, con Bill, torneranno presto. Nel frattempo… vuoi andare a mettere il bagaglio ed Edvige di sopra?!”

 

“D’accordo.”

 

Mi resi conto immediatamente del suo sguardo stranito. Forse si era accorta del mio tono piatto e incolore. Mi si strinse il cuore, ma non sapevo davvero come rimediare. Non è che ce l’avessi con lei, con loro. Il mio tono di voce era così già da un pezzo e non riuscivo a cambiarlo, o forse neanche ci provavo.

 

Il leggero scricchiolio dei gradini mi accompagnò fino al piano superiore, dove c’era la camera che avrei diviso con Ron. La signora Weasley mi lasciò solo, a sistemarmi, lasciando la porta semi accostata. Un silenzio inconcepibile, per quella casa, calò improvvisamente. Ancora non mi ero abituato all’assenza dei gemelli.

 

Ero ancora chinato sul baule, quando sentì uno scalpiccio di passi e la porta cigolare.

 

“Ron! Ti sei ricordato di comprar-… oh Harry!” Sentii la tua voce, alle mie spalle e mi voltai, incrociando i tuoi occhi azzurri e smarriti. “Scusa, credevo fosse tornato Ron…”

 

Ti sorrisi, stupendomi di quel gesto di solito forzato. Lo feci senza accorgermene, mi venne spontaneo. “Non ti scusare.” Dissi solo e presi a squadrarti, mentre tu rimanevi ferma sulla soglia della porta, guardandoti intorno e prendendo poi a mettere ordine nel caos che aveva lasciato Ron.

 

Indossavi un vestitino corto, di jeans, allacciato dietro il collo. Intuii il perché di quel rumore così leggero di passi… eri scalza. Anche tu eri cresciuta in altezza, come del resto tutti i Weasley. Le lunghe gambe magre e rosee ti spuntavano dalla gonnellina mini e mi venne spontaneo fissarle anche quando le incrociasti, puntellandoti sulle braccia per mettere a posto alcune cose sparse sulla scrivania. Vidi un ciuffo di capelli rossi, scivolarti davanti al braccio e mi accorsi di quanto erano cresciuti in così poco tempo; arrivavano a sfiorarti metà della schiena.

 

Sedetti fiaccamente sul letto che avevano aggiunto per me. Tu mi seguisti dopo un po’, prendendo posto sul letto di tuo fratello e affondando i tuoi occhi azzurri, come il cielo, nei miei. Le labbra rosse e piene curvate in un sorriso sincero. Di cuore.

 

Eri diventata grande, Ginevra.

 

“Come ti senti?!” Mi chiedesti. Il tuo volto, spruzzato di lentiggini, era una maschera d’apprensione.

 

Non risposi, almeno non subito. Mi limitai a scuotere la testa. “Non lo so neanche io. Non voglio sapere come sto.

 

Il sorriso morì sulle tue labbra e io mi diedi mentalmente del cretino. “Mi dispiace, scusa non dovevo…”

 

“Non chiedermi scusa, Gin, non hai fatto nulla di male. La rassicurai, cercando di metterci un po’ più di enfasi, rispetto a quella che realmente sentivo di riuscire a tirar fuori. “Ti sei solo preoccupata per me, è tutto ok. Mhm?!”

 

Ti vidi annuire e una pallida smorfia si dipinse sulla tua bocca. “Vedrai che questi giorni ti faranno bene, se non altro… fisicamente.

 

“E’ sempre stato un ottimo rimedio la Tana.

 

“Non resteremo alla Tana, domani partiamo. Mi dicesti con aria un po’ stupita. “Papà non te l’ha detto?!”

 

Scossi la testa, ma mi fu subito chiaro che non mi interessava poi molto se restavamo a casa o partivamo per chissà quale meta. Come al solito, non provavo alcunché. “No, non ne sapevo niente. Dove dovremmo andare?!”

 

“In una località di mare.” Mi spiegasti festosa, ravvivandoti un ciuffo di capelli color sangue e portandotelo dietro all’orecchio. “E’ protetta dagli incantesimi, sai… per evitare problemi. Il Ministero ha offerto il soggiorno a tutti gli impiegati.

 

Mi rendo conto che è stancante ripeterlo, ma neppure la prospettiva di andare al mare, con i miei amici, mi rese felice. Ormai ero rassegnato a sentire quella sensazione di vuoto. La cosa che mi stupì notevolmente, fu che tu riuscisti a comprendere questo mio stato d’animo, senza che io ti dicessi nulla.

 

Mi appoggiasti una mano sulla guancia, alzandoti dal letto. “Passerà Harry… so che è cinico e inutile dirlo, ma passa tutto. Abbiamo mille problemi da affrontare, se ci impantaniamo su uno solo, sarà la fine.”

 

Sapevo che avevi ragione, eppure in maniera altrettanto chiara, mi accorsi di non riuscire ad aprirmi. Posai la mia mano sulla tua e la strinsi, portandomela alla bocca. Profumavi di fresco. “Ti ringrazio.

 

“Di nulla!” Mi rispondesti tu, liberandoti dalla mia presa con garbo e sgusciando verso la porta. “A che servono gli amici, se no?!”

 

E di nuovo mi stupii di me stesso. Tu svanivi dalla mia vista e io sorridevo, avvertendo di nuovo quel tepore dentro di me, come quando avevo messo piede alla Tana qualche minuto prima.

 

“Harry!! Harry!!” Di nuovo quel rumore di passi, stavolta pesanti e veloci. Ron comparve nella stanza pochi istanti dopo, trafelato e ansante, con un sorriso allegro sul volto. “Andiamo… ci aspetta una partita a Quidditch!”

 

vvv

 

Quella notte dormii come non facevo da tempo. Il sonno fu lo stesso agitato, o perlomeno questo mi disse Ron, non appena ci svegliammo pronti a far colazione, prima della partenza. Mi raccontò che chiamavo qualcuno, dormendo, ma non seppe dirmi chi. Era troppo assonnato per capire, si giustificò.

Sebbene mi fosse impossibile ricordare i sogni notturni, non mi ci volle molto per capire. Naturalmente tenni per me, la natura di questi “incubi”.

 

L’aria che respiravo quel mattino, davanti alla Ford Anglia di tuo padre, rimessa a nuovo l’anno precedente, mi aveva messo addosso un senso di buon umore, che non provavo ormai da tempo. In realtà, non provavo niente, ormai da tempo. Ma tralasciamo ciò, non divaghiamo.

 

Nonostante mi fossi proposto di dare una mano per i preparativi o per caricare i bagagli, il signor Weasley mi disse di starmene tranquillo e che ad aiutarlo, ci avrebbero pensato Bill e Charlie.

 

Ma… Percy?!” Domandai, timoroso che gli avvenimenti di qualche tempo prima, avessero influenzato la sua decisione di non partire. Arrivai a pensare che preferisse non fare le vacanze in famiglia, solo perché c’ero io.

 

Sul volto di Ron, comparve un sorriso malizioso. “E’ stato invitato da Penelope. I suoi hanno una villa in Costa Azzurra.

 

Penelope. Non pensavo che fossero rimasti insieme anche dopo la fine della scuola. Non li avevo mai neppure visti vicini, se non di sfuggita e se non fosse stato per una battuta dei gemelli, probabilmente nessuno si sarebbe accorto di niente. Nessuno, eccetto te, Ginny. Tu già lo sapevi.

 

Quindi saremo solo io, tu, Ginevra, Bill e Charlie?!”

 

“Sì, Harry.” Mi rispose la signora Weasley, dolcemente. Aveva un buffo cappello di paglia, in testa. Era decorato con fiori di campo e aveva un nastro che pendeva. “C’è qualche problema?!”

 

“No, cioè… forse preferivate fare le vacanze in famiglia.” Mugolai, sentendomi improvvisamente di troppo.

 

Una tua mano, si posò sulla mia spalla. “Appunto! Senza di te, non si poteva fare. Mi sussurrasti all’orecchio, con voce udibile dal resto del gruppo.

 

Probabilmente non me ne resi conto, ma la tua frase mi aveva scosso. Vorrei dire commosso, ma non ne sono sicuro. Lo stesso effetto, forse un po’ più forte, lo avevo provato il giorno prima, quando avevo preso in mano la mia Firebolt ed ero stato sul punto di piangere. No, non piansi, ma arrivai a tanto così dal farlo.

Il vento nei capelli e sul viso, la sensazione di essere al di sopra di qualsiasi problema. Sì, ne avevo veramente bisogno. Peccato che non potessi utilizzare la scopa, mentre ero dai Dursley e che gli ultimi tempi a scuola, mi fosse stato vietato dalla Umbridge. Provai disgusto anche solo a ripensare a quella… donna.

 

Quel piacevole tepore dentro di me, non mi abbandonò per tutta la durata del viaggio in macchina. Io e Ron, schiacciati sul sedile di dietro (allargato internamente con un incantesimo), stavamo molto attenti a non muoverci troppo. Il ricordo del viaggio traumatico del secondo anno, su quella stessa macchina, non ci aveva ancora lasciati.

Bill e Charlie si erano addormentati, dopo una partita a Sparaschiocco. Tu, invece, eri tutta presa da un libro del quinto; già, ti toccavano i G.U.F.O. quell’anno.

 

Lasciai Ron intento a leggere una lettera, ricevuta quella mattina -capii che era di Hermione, quando lo vidi rabbuiarsi e brontolare qualcosa- e presi a fissarti senza volerlo. Dopo quella frase, non avevi aperto bocca per tutta la durata del viaggio e non seppi dire perché, ma questo mi aveva disturbato.

Te ne stavi rannicchiata sul sedile, le gambe tirate al petto e il libro appoggiato alle ginocchia. Ogni tanto allungavi una mano, spostando i ciuffi che sfuggivano da dietro le orecchie, impedendoti di leggere con attenzione. Avevi un’espressione così concentrata, che per un attimo mi ricordasti Hermione in una delle sue tante sedute tutto studio.

 

“Come va… con Dean?!” Ti chiesi, senza troppi preamboli.

 

Alzasti la testa dal libro, con una faccia a metà tra il turbato e l’indeciso. I tuoi occhi cercarono i miei, prima di cadere sul tappetino posteriore della macchina.

Non capii il perché, ma mi sentii un idiota.

 

“Ah ehm.” Ti vidi tossire per qualche istante, per poi guardarmi e sorridermi, come se nulla fosse. “Tutto… tutto ok.

 

Non ti feci altre domande. Sentivo un peso all’altezza dello sterno e benché ormai ci fossi abituato, mi accorsi che quel senso di “carenza”, era aumentato. Rimasi per tutto il resto del viaggio in silenzio, rispondendo a monosillabi sia ai signori Weasley, che tentavano di intavolare una sorta di discussione per animare l’atmosfera, sia a Ron, che alla fine l’ebbe vinta e mi convinse a giocare a scacchi magici.

 

Una strana malinconia s’impossessò di me, quando raggiungemmo la località marittima designata. Il sole stava tramontando e il cielo si era colorato di un arancione acceso, tendente al viola e al rosso in più punti. Quei colori, mi misero addosso una strana angoscia.

 

“Va tutto bene?!”

 

La tua voce mi giunse cupa alle orecchie, mentre m’incamminavo dietro ai tuoi genitori. Ron stava litigando, poco distante, con i fratelli… non capii bene per quale motivo. Smisi di seguire i tuoi e mi sistemai meglio lo zaino che mi avevate prestato, sulle spalle.

 

“Sì, tutto apposto… ammiravo il paesaggio.” Ti dissi, lanciando un’occhiata dall’alto della collinetta su cui ci trovavamo, verso la distesa d’acqua. Quel panorama, mi ricordò incredibilmente Hogwarts; il suo lago, la collina su cui si ergeva il castello.

 

Mi superasti, affiancandomi. Non dicesti una parola, ma mi comunicasti tutto con uno sguardo. Di nuovo avevi capito cosa nascondevo agli altri e di nuovo ti eri trattenuta dal fare qualsiasi cosa, per timore di sbagliare.

Eppure la tua presenza silenziosa, i tuoi capelli rossi illuminati dagli ultimi raggi del sole, i tuoi occhi azzurri privi di qualsiasi allegria, mi furono più utili di mille parole.

 

Sentii un’altra barriera crollare.

 

A cena non fui di troppa compagnia. Mi persi per un po’, prima di mettermi a tavola, ad osservare il luogo dove avremmo passato una settimana intera. Ogni impiegato del Ministero, aveva in affitto una casetta. Niente di che… due camere, una cucina con soggiorno e un bagno.

Da bravi cavalieri, decidemmo che una camera dovevi averla tu e una i tuoi genitori, ovvio. Io, Ron, Charlie e Bill, ci saremmo accomodati sui due divani letto.

 

Il “lascia, Harry, faccio io. Tu vai a goderti il fresco del giardino.” di tua madre, non sortì alcun effetto. Mi premurai di aiutarla a sparecchiare, nel frattempo che tu lavavi diligentemente i piatti. Ron si era rifugiato al piano di sopra, chiedendoti un attimo in prestito la scrivania della stanza, che avresti dovuto occupare. I due fratelli più grandi, erano schizzati fuori di casa appena era terminata la cena. Alcuni loro colleghi erano in vacanza nello stesso posto, ne avevano semplicemente approfittato per andare a trovarli.

 

“Non sapevo che fossi bravo nelle faccende domestiche. Scherzasti, entrando in soggiorno con un canovaccio tra le mani.

 

“A casa Dursley mi tocca.” Spiegai con tono piatto, passandomi una mano tra i capelli e rendendoli più scarmigliati del solito, nonostante la lunghezza ormai esagerata per i miei gusti. Ero seduto su una sedia da un paio di minuti e fissavo con attenzione un punto imprecisato del muro.

 

“I miei sono andati a dormire.” Ti sentii esclamare poi, a voce più bassa. “Ti va una passeggiata?!”

 

Per inerzia annuii e con lo stesso modo di fare remissivo, ti seguii nel giardinetto antistante la casa. Non mi andava e né mi dispiaceva. Al solito, insomma.

 

Il cielo era ormai trapunto di stelle e aveva assunto un bel colorito nero. In lontananza, udii il vociare di alcuni bambini, sicuramente i figli degli altri impiegati del Ministero. Mi sembrò di sentire qualcosa di diverso in me. Come un fiume in piena che mi attraversava senza incontrare barriere.

 

“Scendo in spiaggia.”

 

Mi guardasti sconcertata e non me ne meravigliai. Avevo un comportamento a dir poco taciturno e apatico e di conseguenza, neppure io mi sarei aspettato una simile azione, da me stesso. Ragionamento confuso, lo ammetto.

Ti vidi correre in casa e uscirne qualche minuto dopo, con indosso una canottiera azzurra e un paio di pantaloncini di jeans. In mano avevi un asciugamano grande. Te lo afferrai dalle mani senza tanti complimenti e mi incamminai verso il sentierino, intanto che tu infilavi ai piedi un paio di infradito.

 

Là, disteso sulla sabbia morbida, a contatto con la spugna colorata, mi sembrò di recuperare qualche attimo di lucidità. Studiavo con attenzione minuziosa le stelle in cielo, quasi a volerle contare. Quel “passatempo”, mi distrasse da ogni tipo di pensiero negativo, ma era tutta una mera illusione e in un momento di razionalità, mi dissi che non sarei rimasto a guardare gli astri in eterno.

Di nuovo l’inquietudine mi assalì.

 

“Mi sento un po’ a disagio.” Mormorasti imbarazzata, distogliendo lo sguardo da punti troppo vicini a me e puntandolo dalla parte opposta, verso un paio di persone impegnate in una passeggiatina.

 

Allargai gli occhi verdi, grattandomi una guancia. Tentavo di capire. “Per quale motivo?!”

 

Ti sentii sospirare. “Abbiamo affrontato insieme il pericolo, eppure mi rendo conto che quello che hai visto tu, non è neanche lontanamente paragonabile a quello che ho visto io. Il tuo dolore non è paragonabile al mio. E non parlo solo di ciò che è successo… sì, insomma… qualche mese fa.

 

Cercai i tuoi occhi, con insistenza, ma tu sembravi intenzionata a scrutare i granelli di sabbia ancora per molto. “Non devi mettere a confronto la mia paura o il mio dolore, coi tuoi. Entrambi abbiamo affrontato cose che alla nostra età, non dovremmo neppure immaginare.

 

Mi zittii. Non capii il perché, ma mi sembrò di aver parlato troppo. No, non volevo parlare di quella faccenda. Il problema era mio, il dolore era mio e dovevo tenermelo chiuso dentro. A costo di esplodere.

 

“Non puoi incolparti di tutto, Harry.”

 

“Di tutto no, di qualcosa sì.”

 

“Abbiamo sbagliato tutti quanti… non solo tu. Insistesti tu, decidendoti finalmente a guardarmi negli occhi. Avevano assunto una tonalità più scura, sebbene tutto fosse sfocato a causa della penombra e la luna mi aiutasse ben poco, me n’ero accorto.

 

“Gin… io ho interrotto le lezioni di Legilimanzia, io non ho voluto dare ascolto a chi mi diceva di usare prudenza, io ho consegnato…” Mi interruppi di nuovo.

 

“Tu non hai consegnato proprio nessuno, Harry. Ti incaponisti, sbattendo un pugno sull’asciugamano. “Hai sbagliato, sì, non ti dirò che non è così. Ma non sei stato l’unico. Ora non mi importa se mi odierai, se penserai che vado contro Sirius…” Ti bloccasti, notando che mi ero irrigidito. “Sai quanto bene gli volevo, lo sai. Ma ha sbagliato anche lui, non santifichiamolo solo perché è-”

 

“Non dirlo!” Intimai io, fulminandoti con lo sguardo.

 

“Harry…” Continuasti, scuotendo appena la chioma rossa, scurita dall’ombra. “Non dirlo, non ammetterlo, non farsene una ragione, non ti aiuterà. Lo sai, vero?!”

 

Sicuramente tu neanche immaginavi, quanto io sapessi di sbagliare. Altrettanto bene sapevo però, che volevo sbagliare. Volevo farmi male, forse punirmi. Perché anche se tu, come tutti, mi dicevate che non era colpa mia… io continuavo a ripetermi l’esatto contrario.

 

“E’ troppo presto…”

 

Sorridesti ironicamente. “Non è mai troppo presto.

 

“Per me lo è…”

 

Appoggiasti una mano sulla mia e ti avvicinasti a me, inginocchiandoti sulla sabbia e sporcandoti le ginocchia. L’altra tua mano, la percepii tra i capelli, in una carezza materna.

 

“Harry… come può essere presto? Devi lasciare uscire fuori quello che hai dentro. Ricorda, che la collera che reprimi, ti avvelenerà l’anima.

 

Voltai la testa di scatto, nascondendo il luccichio degli occhi che lo so, avresti notato. “Forse voglio morire avvelenato.” Il sorriso sulle mie labbra era più simile ad un ghigno. Era sprezzante, beffardo. Per la seconda volta mi ricordai Malfoy.

 

Il tuo silenzio mi spaventò e mi decisi a girarmi, cercando il tuo volto. Mi sentii un vero imbecille. Avevo cancellato l’aria dolce e comprensiva dal tuo viso. Mi guardavi con incredulità e freddezza. Conoscendomi, probabilmente, non credevi fossi capace di buttarmi così a terra. Il solare, positivo Harry Potter, ridotto ad uno straccio per piedi.

 

Vidi una lacrima scivolare sulla tua guancia arrossata e subito dopo il tuo braccio, sfregarla via con vigore. “Oddio, che imbranata… mi è entrato qu-qualcosa nell’occhio.”

 

“Mi dispiace.” Ti bisbigliai, allungando una mano sulla tua gota, in una timida carezza. “Mi dispiace, non volevo farti questo effetto. E’ solo… è solo… non lo so cos’è. So che mi sento come svuotato e non riesco a trovare niente che valga la pena di utilizzare per colmare questo vuoto.”

 

L’avevo detto. Avevo detto mezza verità. Per metà quel senso di amarezza era svanito e io traevo ossigeno da questa seppur piccola liberazione. Mi sembrò di respirare di nuovo, dopo tanto tempo.

 

Incrociasti i tuoi occhi coi miei. “Un’amicizia, non ti basta?! Hai tanti amici Harry… persone che si preoccupano per te, che ti stimano, ti apprezzano e ti vogliono bene. Persone che non vogliono vederti in questo stato e che sono disposte a tutto per starti accanto. Tutti commettiamo errori, l’importante è riconoscere i propri sbagli e saperli affrontare. Questa è maturità, Harry.”

 

Mi stupii di nuovo di me stesso. Ti rivolsi un sorriso sincero, sentito. “Grazie, Ginny.

 

Non risolsi molto quella sera, ma come ho già detto, mi sembrò di riacquistare un po’ di pace. Mi sentivo ancora in colpa ed ero convinto che non sarei mai riuscito a dimenticare ciò che era successo a Sirius. Era ciò che più si avvicinava alla figura di un padre, figura che io non ho mai conosciuto e l’avevo spinto nelle spire della morte.

Ciò che non ti avevo detto, era la mia sete di vendetta. Bellatrix Lestrange, l’assassina del mio padrino, avrebbe pagato. Mi aspettava una guerra, dura e sanguinosa e io non avrei risparmiato di certo la vita della donna che aveva ucciso una persona così importante. No, l’avrebbe pagata… ma non potevo dirlo.

 

Francamente, non dissi nulla, anche perché avevo la certezza che tu sapessi già di questi miei pensieri. Come ho spiegato, più volte, ho sempre avuto la netta sensazione che mi leggessi nella mente o negli occhi. Quindi, ciò che potevo, cercavo di ometterlo nei nostri discorsi.

 

Quella notte, nacque una splendida amicizia. Un legame che sarebbe durato molto a lungo.

 

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Mi sembra così… naturale… ricordare tutto questo, mentre sono seduto qui, su quella stessa spiaggia. Anche oggi, il sole sta per tramontare, lasciandosi dietro una scia di colori brucianti. La sabbia sembra quasi arancione, in questo momento. Chiudo gli occhi e lascio la mente a vagare, cullata dallo sciabordio delle onde.

 

Quando li riapro, tu sei davanti a me.

Corri a piedi nudi sul bagnasciuga, come quando eri appena quindicenne e vivevi la tua vita con gioia, rallegrandoti di tutte le piccole belle cose che avevi. Un ottimo modo di sopperire ai momenti brutti, me l’hai insegnato tu stessa.

 

Mi hai insegnato tante cose e più di tutto, mi hai insegnato a vivere. Mi hai fatto capire che la vita va presa così com’è. Bastarda, crudele, cattiva. “Nessuno ti regala niente” mi hai ripetuto così tante volte, che ormai l’ho imparato. E’ grazie a te che so come reagire alle negatività, senza lasciarmi travolgere dagli eventi, senza dare a nessuno la soddisfazione di vedermi schiacciato da ciò che mi accadeva intorno.

 

E’ merito tuo, se sono cresciuto e cambiato, in meglio.

 

Da quella notte il nostro rapporto si è rafforzato, diventando una splendida e salda amicizia. Ci appoggiavamo l’uno all’altra, sempre, andando incontro agli altri e aiutandoli a sopportare tutto.

Non ci siamo resi conto immediatamente che quel legame che si era creato, non era solo semplice amicizia e in fondo è stato meglio così. Ci ha dato la possibilità di non rovinare niente, di coltivare un sentimento importante, di non dare tutto per scontato.

 

Ho avuto paura di perderti, durante una battaglia e questo mi ha aperto gli occhi. Non eri più la mia confidente preziosa, eri queldono’ importante, che meritava di colmare quel vuoto immenso nel mio cuore. E credimi, non vorrei nessun altro al tuo posto, Ginevra.

 

Ti guardo correre dietro a nostro figlio. Ha già quattro anni, ma mi sembra ieri quando mi hai detto che lo aspettavi. Se mi concentro, riesco a ricordare ogni singolo dettaglio. Un matrimonio veloce, intimo, giusto per amici e parenti. Una casa, non molto grande, ma nostra. E lui…

 

Più di tutto, mentre ti vedo raggiungerlo e prenderlo in braccio, baciandogli una guancia paffuta e correndomi incontro, sorridendo felice, ricordo le parole che mi dicesti, quando nacque. Volevo chiamarlo Sirius, ma tu me l’hai impedito. Non per cattiveria… anzi.

 

“No, chiamarlo così, ti terrà ancorato al passato, Harry. Mi dicesti, stringendomi una mano e convincendomi a prenderlo in braccio per la prima volta. “E’ tempo di volare, amore mio.

 

 

FINE

 

 

Era da tempo, che volevo dedicarmi ad una Harry/Ginny e alla fine… eccola qui!

Questa storia è stata “supportata” dalla canzone  ‘Life will never be the same again’ [L’Ame Immortelle].

 

Fatemi sapere =° vi prego!!

 

Luna Malfoy.

 

   
 
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