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Autore: DoubleLife    30/01/2013    0 recensioni
"Ero qualcosa che non avevo mai visto prima nei miei quattordici anni di vita."
Genere: Comico, Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amaimon, Mephisto Pheles, Nuovo personaggio, Rin Okumura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Volevo non esistere. Mi ero chiusa in casa e avevo abbassato le tapparelle. Mi ero svestita e avevo preso una delle sue camice dall’armadio in mogano. La annusai: profumava ancora di colonia. Ricordava zio. Malgrado fosse morto da due giorni lo sentivo ancora attraverso quell’indumento. Lo sentivo così vicino a me che immaginavo di sentire il suo respiro pacato quando l’abbracciavo. 
Feci scivolare la camicia lungo il corpo. Esageratamente grande. Ma dava un senso di sicurezza, di protezione. Come quando stavo con Himitsu. Mi sentivo al sicuro. 
Gattonai sul suo letto e mi ci appallottolai sopra. Non potevo che pensare a lui. Desideravo più di ogni altra cosa che fosse stato lì accanto a me, ad accarezzarmi. Potevo solo immaginarmelo. 
 
Himitsu-san era una persona molto cauta. Era sempre distaccato dalla vita del quartiere, evitava di parlare con i vicini se era possibile o si rinchiudeva in casa sorseggiando del caffè e leggendo una quantità assurda di libri scelti dallo scaffale di camera sua. 
“Semplicemente mi basta vivere in questo modo.”. La sua risposta, anche se era stata detta con tono pacato, sembrava diffidente. Himitsu-san certe volte pareva proprio così. Capitava che non mi rivolgesse parola per un intera giornata perché era immerso nei suoi pensieri. Si appoggiava coi gomiti sul tavolo della cucina e pensava, come se anche lui avesse dovuto capire che cosa gli passasse per la testa. 
“A cosa pensi?”, gli domandai un giorno. Allora sorseggiava caffè guardando fuori dalla finestra. 
“A proteggerti.”, disse volgendo il capo dalla mia parte. Il suo leggero sorriso dipinto sul viso mi aveva fatto arrossire. 
Himitsu era tanto dolce. Per me era stato il padre che era scomparso a sette anni e che non vidi più. Si era preso cura di me con tanto affetto, come se fossi stata sua figlia. 
“Sei l’unica persona di cui mi fidi. Non tradire la mia fiducia”. Me lo confidò al giorno del suo compleanno. Sentii le guance riscaldarsi. In quel momento mi resi conto quanto zio mi volesse bene. 
 
Mi rialzai dal letto. Il corpo era indolenzito e mi bruciavano gli occhi. Me li sfregai e feci un rumoroso sbadiglio. Mi sembrava di essermi risvegliata da un sonno durato anni, quando in realtà erano passate due ore. Balzai dal letto e mi stiracchiai. Quando passai davanti allo specchio della stanza, notai la coda ondeggiare placidamente dietro di me. Mi fece venire in mente quella volta, quando avevo dieci anni. Allora era autunno. 
 
Himitsu-san stava leggendo un libro con fare curioso. Sfogliava le pagine ingiallite del manoscritto delicatamente e non gli staccava gli occhi di dosso. Continuava a leggere lo stesso libro da settimane. 
“Che leggi?”, gli avevo chiesto. Con l’indice mi aveva invitato ad avvicinarmi a lui.
“Leggiamo assieme, così passiamo il tempo.”, esclamò. Mi ero seduta sulle sue gambe infilandomi dietro le sue braccia, mentre quest’ultime mi avevano circondato le spalle. Una volta messa comoda con lui ci eravamo messi a leggere. 
“È il diario di una ragazza giovane che fa carriera appena diventa maggiorenne.”, mi aveva introdotto la storia molto semplicemente, “E inizialmente viveva assieme alla sua famiglia, fino a quando lei e sua sorella non vengono vendute, ritrovandosi a Kyoto!”.
Avevo sgranato gli occhi. “Vendute?!”
“Esattamente!”, proseguiva allegramente, “La protagonista era così bella che era stata mandata in una casa di geishe, a differenza della sorella che era stata mandata in un quartiere bruttissimo rinomato per le sue sventure!”. 
E così avevamo passato un intero pomeriggio insieme, mentre zio leggeva ad alta voce ed io ascoltavo attentamente individuando le righe dal libro. 
La sua voce, così motivata nel leggere il romanzo, mi rendeva felice. Le sue risate, le imitazioni delle voci che adattava da persona a persona, il suo respiro. Non mi ero sentita mai così sciolta da quando avevo messo piede a casa sua. Notavo che anche lui era rilassato. 
“Mi piace quando leggi i libri!”, avevo detto girandomi verso di lui. L’avevo abbracciato e gli avevo sussurrato quasi sul punto di addormentarmi “Ti voglio bene.”. 
Mi aveva preso in braccio e mi aveva portato in camera, stendendomi sul suo letto. 
“Ti voglio bene anch‘io, piccola.”, aveva bisbigliato. Mi aveva baciato la fronte scostandomi leggermente i ciuffi arancio e aveva abbandonato la camera, spegnendo la bajour.
 
“Chissà se le geishe soffrivano in situazioni simili …”, pensai contemplando la mia figura riflessa sullo specchio. Imitai la posa di una geisha, facendo finta di impugnare dei ventagli immaginari in modo artistico. Rimasi seria, fino a quando non feci una boccaccia. Scoppiai a ridere.
“Quanto sono stupida!”, risi. Placai la risata pochi attimi dopo, finchè non vidi veramente la mia faccia. Inespressiva. Vuota. Triste. Mi misi il ciuffo dietro l’orecchio. Era appuntito, quanto i canini che sfoggiai in quel preciso istante.
“Come sono ridotta …”, dissi pensierosa con tono sommesso. 
Mi diressi verso il bancone della cucina. C’era ancora la tazza di Himitsu semipiena di caffè. La presi e la sciacquai nel lavandino. Vidi che attaccato al frigorifero con un magnete azzurro c’era un disegno. Raffigurava un fiore, la pervinca. Era colorato a pastello a cera blu acceso in modo grezzo. 
“Teneri ricordi …”, sussurrai accarezzando delicatamente la carta colorata. Sentii una grande nostalgia incombermi addosso.
 
Himitsu-san aveva molti passatempi, ma sicuramente il suo preferito era quello dei fiori. Aveva molti libri riguardo le piante e spesso me ne parlava. 
“Quello che fiore è, Himitsu-san?”, gli avevo domandato indicando il fiore vicino alla finestra della cucina. Era fatto da cinque petali tendenti ad un celeste violaceo accompagnato da una foglia color verde brillante appena sbocciata. 
“Quella è una pervinca, Mononoke.”, rispose l’uomo, “Significa teneri ricordi.”. 
Quel termine poteva significare tante cose, ma strettamente collegato ad una sola cosa. L’affetto. 
“Da piccolo mi innamorai di una bambina della mia scuola. Un giorno dovette trasferirsi in un’ altra città e, prima di lasciare il quartiere, passò a casa mia. Mi porse un fiore, una pervinca. Fu lei a dirmi che il significato di quel fiore era teneri ricordi…E allora nacque la mia passione per i fiori.”, mi aveva raccontato. La sua voce mi era arrivata filtrata dalla sua tristezza alla notizia della partenza di quella bambina. Himitsu-san contemplava quel fiore con tale nostalgia che avevo cercato di richiamare l’attenzione su un’altra pianta.
“Quello invece?”, gli chiesi tirandogli la manica nera. Si era voltato e aveva visto l’altra pianta, sopra la credenza.
“È un ibisco.”
“Che significa?”
“Delicata bellezza.”, disse prendendo il vaso e appoggiandolo sul tavolo in cui ero seduta, “Si addice perfettamente a te.”. Arrossii al suo complimento e sorrisi. 
“Grazie.”. Sorrise anche lui.
 
Mi strofinai la faccia, cercando di pensare ad altro. Ogni gesto che facevo mi ricordava Himitsu e mi voltavo al passato alla ricerca del suo corpo vivo. Ma purtroppo era impossibile e questo mi sconfortò così tanto da farmi chiudere gli occhi. 
Li riaprii dopo un paio di minuti, con l’intenzione di fare ciò che non avevo fatto in quei due giorni. Andai in camera mia e aprii l’armadio. Raccattai un paio di pantaloni scuri attillati, una camicia a maniche corte nera e una maglietta bianca. Mi sfilai la camicia di zio e indossai tutto. Presi le All Star rosse e infilai le chiavi di casa e il portafoglio in tasca. Quando uscii la luce del sole mi accecò e mi coprii con il braccio. 
“Accidenti!”, mugugnai quasi sul punto di imprecare. Mi ripresi e respirai a pieni polmoni l’aria frizzante mattutina. Quella che non avevo respirato per ore, se non in una camera impolverata. Cambiare non faceva affatto male.
Mi incamminai per la strada che si affacciava sul muretto color piombo che si estendeva per tutto il sentiero, finchè non mi trovai davanti al fiorista. Il tintinnio delle campanelle appese sopra il cornicione della porta avvertirono il negoziante del mio arrivo.
“Salve, ha bisogno di qualcosa?”, mi chiese pulendosi le mani sporche di terriccio con un panno.
“Del mirto.”, risposi. Per un attimo mi guardò stupito, ma cominciò a frugare tra i ripiani stracolmi di fiori colorati di tutte le sfumature possibili. Dopo cinque minuti ritornò da me con un mazzo dai piccoli fiori candidi, accompagnati da altrettante minute foglie color verde mela. 
Dopo aver pagato uscii dal negozio e svoltai a sinistra, per poi continuare sulla via. 
Arrivai ad un grosso cancello arrugginito che apriva la strada ad un’area completamente isolata dal quartiere. Lo oltrepassai, entrando così dentro il cimitero.
Il posto, immerso nella quiete, fu spezzato dai miei passi che qualche volta si fermavano perché ero alla sua ricerca. Quando mi rivenne in mente il luogo in cui si era celebrato il funerale arrivai finalmente davanti alla sua lapide.
Himitsu Kurosaki
nato il XXX e morto il XXX
“Buongiorno, Himitsu-san.”, sorrisi dolcemente. Silenzio totale. Mi chinai e gli porsi il mazzo di mirto.
“Ti ho portato dei fiori.”, precisai. “I miei preferiti.”. Esitai ad appoggiarli sull’erba, in attesa di una risposta. Il mirto mi piaceva molto. Esprimeva al meglio ciò che provavo per lui. Amore.
“È un fiore molto bello.”. 
Mi girai, allarmata. Qualcuno mi stava osservando con fare curioso, quasi ossessionato. La figura coprì la faccia, nascondendo il sorriso con parte del palmo, arricciando le dita sulla bocca.
“Lei chi è …?”, chiesi. Non rispose alla mia domanda subito, ma iniziò porgendomi la mano color lavanda. 
“Mephisto Pheles, piacere di conoscerla…”. Quando gliela porsi molto timidamente, mi strattonò la mano e mi ritrovai faccia a faccia con lui, col busto leggermente inarcato in avanti. 
“…Signorina Kurosaki.”, terminò la frase con classe. Mi spaventai ritrovandomi i suoi occhi verdi fissi sui miei. Mi allontanai lasciandogli il guanto.
“Mi dispiace per quello che le è successo.”, continuò l’uomo fingendo con una faccia dispiaciuta, “Condoglianze.”. 
Cercò di accarezzarmi la spalla, ma anticipai il suo gesto e indietreggiai rimanendo piegata per terra. L’uomo ritirò la mano riportandosela vicino al viso, sempre sghignazzante.
“Qualcuno è scontroso… non la biasimo.”, esclamò l’uomo con viso divertito. Mi arrabbiai.
“Cosa vuole da me??”, domandai mantenendo le distanze da lui. Non fece trasparire alcun sentimento dalla faccia, ma si voltò verso la lapide. Si tolse il cappello sgargiante dalla testa, facendo fuoriuscire un simpatico ciuffo giallo sulla capigliatura ordinata blu, e chinò la testa.
“Siamo in presenza di un morto, suvvia …!”, mi fece notare. Mi girai. Zio Himitsu stava davanti a noi. Rimasi in silenzio non trovando altro da dire.
Mephisto si rimise il cappello in testa due minuti dopo e mi fece capire che voleva parlarmi. Non mi mossi dalla mia posizione; rimasi a capo abbassato.
“Prima che morisse, suo zio mi fece promettere che al suo quindicesimo compleanno lei sarebbe entrata nell’Accademia della Vera Croce.”, mi informò l’uomo. 
Cosa? E soprattutto perché? Non avevo intenzione di andare da nessuna parte; volevo rimanere nel mio quartiere continuando a vivere la mia vita di sempre, anche senza Himitsu.
“E se le dicessi che non voglio andare dove ha detto lei?”, dissi scettica accarezzando con insistenza il mazzo di mirto. Lo strano individuo non si scompose; anzi, sfoggiò un sorrisetto divertito per poi aprire bocca.
“Guardi che non ha nessuno su cui fare affidamento.”. La frase mi allarmò. Alzai la testa sconcertata. Due occhi dall’aria sadica mi osservavano divertiti, accompagnati dal ghigno dai denti appuntiti.
“Non se la prenda con me se non ha qualcuno che si prenda cura di lei …”; si piegò sentendo le sue labbra all’altezza del mio orecchio.
“Che sia zio o padre …”, bisbigliò. Ghiacciai. Cosa voleva dire? Non è che …
“Sa di mio padre …?”, sibilai presa alla sprovvista.
… conosceva papà?
Si rimise col busto dritto e prese a camminare dalla parte opposta in cui ero coricata. Non si girò per controllare che lo stessi seguendo: obbedii senza protestare.
 
Non era affatto normale seguire uno sconosciuto comparso dal nulla dopo che mi aveva spinta ad andare con lui chissà dove. Ma sapeva qualcosa su mio padre e questo aveva catturato tutto ciò che era rimasto di me. Nonostante ciò, avrei dovuto ringraziare quello strano “Cappellaio Matto“. 
Mai ero stata così allerta come dopo quel casuale incontro. Sempre se casuale lo si potesse definire.


Ed ecco che la storia si vela di mistero ancora una volta. Grazie per chi mi segue! ^^
P.s: Quesito per voi, povere vittime: che libro sta leggendo Himitsu-san con Mononoke durante il ricordo? :)
Alla prossima!
DoubleLife
  
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