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Autore: DoubleLife    04/01/2013    2 recensioni
"Ero qualcosa che non avevo mai visto prima nei miei quattordici anni di vita."
Genere: Comico, Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amaimon, Mephisto Pheles, Nuovo personaggio, Rin Okumura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi alzai di scatto. Ero completamente sudata e le coperte ribaltate per terra. 
“Ancora quell’incubo …”, mugugnai a denti stretti coprendomi gli occhi coi palmi.
Erano passati più o meno otto anni da quando mi ero trasferita da lui.
“Non preoccuparti, ho la situazione sotto controllo”, mi aveva sorriso dolcemente appena avevo varcato la porta di casa sua. Quelle parole mi erano sembrate così rassicuranti quanto quelle di papà. E proprio per questo non mi ero mai fidata di Himitsu. 
Mi aiutai con la luce che filtrava dalle tapparelle per avvicinarmi all’armadio dalle ante bianche scorrevoli. Afferrai i miei jeans attillati, una camicia e una maglietta blu: il solito abbigliamento. Mi chiusi in bagno e mi lavai velocemente, per poi vestirmi. Quando andai in cucina trovai un uomo sui quarantaquattro anni castano schiarito da qualche capello bianco, segno che stava invecchiando. Era rimasto sempre con la stessa faccia, anche se percorsa da qualche leggera ruga, e aveva sempre lo stesso paio di occhiali dalla montatura nera. 
“Buongiorno, zio Himitsu”, dissi allegramente abbracciandolo. Ricambiò l’abbraccio e mi sorrise.
“Buongiorno, Mononoke. Dormito bene?”, domandò. Sorrisi più convinta possibile.
“Come sempre.”
Himitsu mi invitò a sedermi e a bere un po’ di cioccolata calda. Riempì una tazza e me la porse facendola scivolare sulla superficie liscia del tavolo; la presi e cominciai a berla a piccoli sorsetti per non ustionarmi la lingua. 
Una volta finita la cioccolata, Himitsu si alzò dalla sedia e mi fece cenno di venire con lui.
“Oggi vieni con me in un posto speciale … ti va?”, disse entusiasta. 
Annuii energicamente alzandomi subito dalla sedia. Ero divorata dalla curiosità di sapere dove saremmo andati; presi la borsa in camera mia e uscimmo di casa.
Notai del nervosismo nei movimenti di zio. Ma feci finta di niente e continuai a seguirlo tenendo il passo.
 
Himitsu era solito ad uscire in modo nervoso, veloce. Il più delle volte mi appariva così. Poi c’erano casi particolari in cui era talmente rilassato che pensavo fosse sotto l’effetto di qualche calmante. Puntai su quella opzione, perché ingoiava sempre qualcosa prima di bere il caffè. Delle pillole. 
“Come mai prende dei calmanti prima di uscire?”, pensai. Questa è ansia. Capita che i sentimenti prendano il soppravvento in una persona e che quest’ultima provi stress. Poi se questo stress non viene scaricato in qualche modo si trasforma in ansia. Himitsu-san ne aveva molta. Col lavoro che faceva lo stress lo scaricava immediatamente: tornava a casa stanco, ma sereno. Però era una cosa che si ripeteva ogni giorno.
 
Improvvisamente si fermò: eravamo arrivati. 
Non dissi niente. Anzi, non riuscivo a dire niente. Rimasi a contemplarla, come se fosse stato un quadro. La casa di papà. 
“Entriamo.”, disse dolcemente. Risposi annuendo in modo vago.
La casa col tempo si era rovinata. Le erbacce nel giardino erano aumentate, nascondendo i pezzi di tegole provenienti dal tetto sfondato e i cocci delle finestre rotte, da cui uscivano le tende talmente sbrindellate che davano l’impressione di essere delle ragnatele. Quando arrivammo alla porta verde oramai scolorita dal tempo, notammo che la serratura era stata violentemente forzata. Ci limitammo a scostarla leggermente per entrare.
Le condizioni della casa erano pessime: il parquet sul punto di rompersi, le pareti invecchiate, i gradini delle scale scheggiate e cocci dappertutto. 
Non capii le intenzioni di zio. 
“Perché qui..?”, gli chiesi. Non mi rispose. Indicò la porta aperta sul garage e con un gesto delle mani volle farmi capire che dovevamo scendere. Rabbrividii. Avevo desiderato in tutti quegli anni di non ripercorrere le scale. Costretta a farlo scesi gradino per gradino, cercando di non farli scricchiolare. Il cuore mi batteva a mille, le mani inspiegabilmente tremolanti. Rivivevo la paura di quell’episodio così struggente e orribile. Se avessi avuto la possibilità di farlo, sarei fuggita dalla casa. Dal giardino. Sarei fuggita lontano da lì e grazie al mio disorientamento sarei giunta ad una stradina sconosciuta. L’unica cosa che avevo messo sottochiave in fondo al mio cuore. Il mio passato non lo doveva sfiorare nessuno. Lo avevo imposto a tutti, anche a me stessa.
Arrivammo al garage. Poi Himitsu-san mi diede qualcosa. Una lettera. 
“Tuo padre mi chiese di darti questa una volta che avessi compiuto 15 anni, anche se ancora manca qualche giorno al tuo compleanno.”. Aprii la busta: c’era una foto. Una ragazzina in costume da bagno rosso, dai capelli arancio chiaro, sui sette anni stava in braccio ad un uomo abbronzato bellissimo dai capelli mogano arruffati e dagli occhi color nocciola. Entrambi erano così felici da far venire il sorriso al solo sguardo. Quei due eravamo noi. Io e papà.
Una lacrima rigò la mia guancia. 
“Papà.”, dissi sconvolta guardando zio. Mi sorrise dolcemente, comprendendo i miei sentimenti. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e me lo porse. Mi asciugai gli occhi e mi ripresi subito.
“Poi c’è anche questa, è meglio se …”. Non finì la frase. Notò il mio viso impallidito rivolto verso l’alto. Lo alzò anche lui. Aggrappato come una scimmia al soffitto, un demone stava origliando. Anche se era buio intravedevo parte del suo corpo. Due pupille brillanti verdi quanto i capelli ci stavano osservando. 
Tutto avvenne in un attimo. Il demone cercò di avventarsi su di me, ma fu interrotto da una spinta che mi diede zio per farmi cadere per terra. I due combatterono a lungo; Himitsu riuscì a bloccarlo per le braccia.
“Scappa!! Vai il più lontano possibile da qui!!”, mi urlò. Io ero paralizzata. Le mie gambe, le mie braccia. Erano immobili. I miei occhi erano ancora fissi sul demone che cercava di liberarsi dalla stretta dell’uomo. Per un attimo sembrò che stesse sorridendo. 
Mi alzai da terra e corsi più in fretta che potevo verso le scale. Il demone si liberò dello zio Himitsu e si lanciò al mio inseguimento. Inaspettatamente riuscì a prendermi un piede e a farmi sbattere la faccia su ogni gradino, trascinandomi a sé. Himitsu lo prese per il collo e lo sbatté per terra in un colpo solo; riuscii ad allontanarmi dal demone. Tossii; la mia mano si macchiò di sangue. Sbiancai.
“Adesso hai la possibilità di scappare mentre lo trattengo!”, ansimò l’uomo. Io non mi mossi. Tremavo come una foglia.
Il demone approfittò del momento di distrazione e lo scaraventò al muro con un calcio. Si girò verso di me, spalancando gli occhi e facendo un ghigno agghiacciante. 
“Himitsu-san!!”, urlai spaventata.
Il demone si alzò e camminò dalla mia parte. Indietreggiai più che potevo aiutandomi coi talloni, finché non ebbi il muro alle spalle. Poi mi prese per i capelli con una sola mano e avvicinò il suo viso al mio per guardarmi meglio. Trattenni il respiro. Mi annusò il collo; gelai quando mi sfiorò appena con le sue dita fredde l’orecchio. E poi cominciò a sghignazzare compiaciuto, divertito della situazione.
“Il fratellone è stato generoso …”, si limitò a dire. 
Mi trascinò per la stanza tenendomi sempre per i capelli. Mi dimenai per essere lasciata andare, ma era troppo forte la sua presa.
“Mononoke!!”, urlò zio cercando di rialzarsi. Il demone non si curò dell’uomo e si avviò verso l’uscita del garage; cercai di opporre resistenza, ma anche il secondo tentativo di ribellione fallì.
“Lasciami andare! Subito!”, ringhiai al mostro minacciosamente. Questo si girò, mi alzò da terra e disse: “Sai che faccio adesso? Ti ammazzo.”. Mi scaraventò per terra e mi diede un calcio in pieno stomaco; urlai per il dolore. Non contento me ne diede altri quattro, paralizzandomi per terra. Sputai parecchio sangue. Mi ripulii la bocca e cercai, in qualche modo, di fuggire. Il mostro mi prese per il colletto della camicia e mi lanciò al muro. 
Respirai affannosamente massaggiandomi il ventre, ormai massacrato. Poi mi accovacciai su me stessa, aspettando solo che il demone mi finisse. Sentivo il cuore scoppiare per la paura. La paura di morire.
Ma non sentii nessun dolore. Incredula alzai la faccia. Qualcuno era stato colpito, ma non io. Cadde per terra non molto distante da me. Mi precipitai subito da lui. Zio Himitsu si era fatto colpire al posto mio. Toccai la sua pancia: era sporca di sangue.
“Perché l’hai fatto?”, gli chiesi con voce pacata ma tremante. Mi si offuscò per un attimo la vista e sentii la faccia avvampare. 
Lui mi sorrise malgrado la ferita e mi accarezzò la guancia affettuosamente come se fossi stata la cosa più importante della sua vita.
“Perché ti voglio bene.”. Ritirò lentamente la mano a sé e chiuse pian piano gli occhi. “Ora va via …”
Non percepii più alcun battito cardiaco.
In quel momento il mio cuore si arrestò come il suo. Come se parte del mio mondo fosse finita con lui. Ma non provai tristezza o gioia. Sentii una gran rabbia crescere. A dismisura. 
Il bastardo da dietro mi prese per un braccio; molto lentamente girai la testa. Aveva le unghie della mano sinistra sporche di sangue. Il sangue di Himitsu-san. Non riuscii più a controllarmi. 
Mi girai e gli diedi un pugno in faccia; il demone rotolò a pochi metri da me. Mi alzai molto velocemente e gli andai incontro restituendogli i quattro calci che mi aveva dato prima, mettendoci tutta la forza che avevo.
“Questi sono per il dolore che mi hai inferto!”, urlai. Sputò del sangue.
Pestai col piede lo stomaco spingendolo sul pavimento, come lui aveva fatto prima a me.
“Questo è per il calcio di Himitsu-san!”.
Lo presi per il colletto della sua giacca con entrambe le mani e lo lanciai più lontano possibile verso l’aperto. 
Il demone cominciò a ridere di gusto con la bocca tinta di rosso.
“Ma allora è vero!”, esclamò felice rialzandosi, “Hai ereditato le sue fiamme!”.
“Le fiamme?”, pensai non seguendo il discorso.
Vidi in fondo alla stanza uno specchio frammentato che rifletteva ciò che ero diventata. Avevo le orecchie lunghe e a punta, dei canini appuntiti simili a quelli dei vampiri, una coda color pece che ondeggiava dietro le gambe semiaperte e, soprattutto, ero ricoperta di fiamme azzurre. Ero qualcosa che non avevo mai visto prima nei miei quattordici anni di vita.
Il demone mi afferrò per il collo e mi sollevò da terra. Infilzai nel suo avambraccio le mie unghie con l’intento di liberarmi, ma senza successo. 
“Adesso ti porto dal nostro signore, così diventerai completamente una di noi.”
“NO!” 
Improvvisamente il braccio che mi teneva sospesa in aria prese fuoco e mi lasciò cadere per terra. Massaggiai la trachea e respirai a pieni polmoni affannosamente. Tutto il corpo di quel mostro venne avvolto dalle fiamme. Si dileguò cercando di spegnere il fuoco. Ma dubitai che sarebbe sopravvissuto più di una giornata.
Mi guardai le mani: erano sporche di sangue. Rimasi inquietata da questo mio lato nascosto.
Allora ripresi il controllo di me stessa. Vidi che il fuoco attorno a me si stava calmando e che il calore era diminuito. 
Mi rialzai molto lentamente ed andai dal corpo morto di zio. Gli toccai la mano. Versai una lacrima. Per colpa mia si era sacrificato e per colpa mia era morto. E tutto questo prima che compiessi quindici anni.
Ripresi la foto mia e di papà da terra; la piegai e la misi nel taschino della camicia. Sollevai il corpo di zio con tutta la forza che avevo e me ne andai.
 
Era una giornata cupa e piovosa quando si celebrò il suo funerale. Erano presenti tutti i suoi colleghi e gli amici più stretti. Qualcuno piangeva, qualcuno rimaneva col capo abbassato. 
“Fatti forza, Mononoke.”, disse uno di loro cercando di consolarmi. Abbassai gli occhi.
 
Quando arrivai in quartiere mi venne incontro tutto il vicinato. 
“È morto zio Himitsu. Qualcuno ci ha assaliti; lui si è sacrificato per proteggermi.”, mi limitai a dire. 
Nessuno comprese più di quello che dissi. Aspettarono solo che facessi trasparire qualcosa dalla mia faccia. Volevano solo una mia reazione.
Corsi a casa come una forsennata e quando arrivai mi chiusi a chiave in bagno. Aprii l’acqua della doccia e mi misi subito sotto, malgrado fosse gelida. Mi coprii gli occhi con le mani. 
“Adesso mi sveglio e scopro che è un incubo”, ripetei più volte ad alta voce nervosa. Quando li riaprii la prima cosa che vidi fu la coda tremare. La mia prima reazione fu gridare per la disperazione; mi coprii la bocca per soffocare l’urlo.
 
Quando il prete fece il segno della Croce rivolto alla bara tutti i presenti lo imitarono e nel giro di pochi secondi se ne andarono tutti. Rimasi solo io, in piedi davanti alla sua lapide. 
“Amen.”. E me ne andai pure io, trattenendo lacrime e dolore.

 
  
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