Broken Inside
Capitolo I
Devastazione
[Mamma, moriremo tutti.
Oh, Mamma, andremo tutti all’inferno.]
Deserto. Avere per giorni solo quella immensa distesa di color beige nel proprio campo
visivo era davvero insopportabile. Ovunque si posasse lo
sguardo, solo sabbia. Così come il caldo, affievolito appena dal
vento leggero. Sole che brucia sadico sulla pelle.
Avrebbero dovuto viaggiare di notte, se solo avessero avuto tempo. Ormai erano
tre giorni che viaggiavano a cavallo in quella landa rovente. E lui conduceva
gli altri due, come era sempre stato. Come sarebbe
sempre stato. I suoi occhi di
ghiaccio si posavano sulla linea dell’orizzonte, cercando qualcosa,
qualsiasi cosa. I suoi due compagni stavano poco dietro di lui. Erano tutti
stanchi e lui tremendamente sotto pressione.
“Qui c’è
semplicemente il niente in mezzo al niente” sentenziò uno dei suoi
compagni che ormai era giunto al limite della
sopportazione. Nonostante fossero abituati tutti e tre a quel clima, quello era veramente
troppo. Gli altri non risposero, lasciando che le parole si perdessero nel
vento. Si accinse a stropicciarsi
gli occhi stanchi. Frustrazione. Aumentava d’attimo in attimo e lui
sentì il suo destriero fremere sotto di lui, selvaggio. Il cavallo
abbassò all’indietro le orecchie, impaurito, per poi fermarsi,
impennarsi e sgroppare pieno di terrore.
Quando si fu calmato, gli accarezzò
lentamente il collo sudato, per poi spronarlo bruscamente a continuare. Il
magnifico animale si era lanciato in un galoppo velocissimo, mentre gli altri
due cavalli lo seguivano altrettanto veloci. Sentiva i muscoli
dell’animale in tensione, il suo respiro affannato. Il vento gli sferzava la pelle candida,
mentre lo privava del cappuccio del mantello, rivelando morbidi, ribelli,
capelli rossi. Un cavallo riuscì ad affiancarlo seppur a stento:
“Dannazione, quanto manca, Gaara?” era stato suo fratello Kankuro a
parlare, seppur fosse una semplice domanda al ragazzo era sembrata una vera e
propria presa in giro. Fastidioso. Si limitò ad indicare l’orizzonte,
aumentando la velocità e distanziando i due. Mancava poco. Eccolo,
proprio davanti a loro.
Raggiunsero il piccolo
villaggio. Avevano ricevuto il comunicato, anonimo, di un potenziale
saccheggio. Che fossero stati ingannati? Il tutto
appariva così tranquillo. Tanto. Troppo. Legarono i tre purosangue ad
uno steccato per addentrarsi nella piccola cittadina. Fu
subito chiaro che il paese fosse disabitato. Le abitazioni erano distrutte.
Tutto era stato dato divorato dalle fiamme.
“Che scenario apocalittico” mormorò Temari,
guardandosi intorno. Bastò avanzare ancora qualche metro per capire. Forse
la ragazza avrebbe detto qualcos’altro, ma le parole le morirono in gola, strozzate da quella vista. Gli occhi sbarrati, le labbra tremanti, le mani sudate. Distolse
lo sguardo da quello spettacolo disgustoso.
“Cos’è
questo?” Balbettò Kankuro. Dinanzi ai loro
occhi, una bimba con la gola dilaniata e le interiora ormai riverse a terra.
Poco distante un uomo sospeso a mezz’aria, sostenuto da
un enorme palo conficcato nel petto, il volto sfigurato dagli sfregi e dal
terrore. E ancora oltre c’erano gli abitanti
della piccola cittadina, morti. Li avevano ammazzati
tutti, non avevano risparmiato nessuno. Cosa
aveva portato a tanto? Gaara si guardava intorno, gli occhi ridotti a due
fessure, mentre la sorella dava di stomaco, reggendosi al braccio di un Kankuro
che ancora non voleva credere a ciò che vedevano
i suoi occhi pitturati “Non sono stati uccisi quando è arrivato il
comunicato”, fece lui esaminando il corpo dell’uomo, mentre Gaara
quasi sembrava non dargli retta.
“Sono già in
decomposizione. Dallo stato in cui si trovano… tenendo
in considerazione il sole di questi giorni…”
“Quanto?!”
Gaara si era voltato verso il fratello, non aveva voglia di ascoltare le sue ciance.
“Più di una
settimana.”
Gaara avanzò ancora,
arrivando a quello che avrebbe dovuto essere un piccolo mercato. Ovunque posasse lo sguardo vedeva solo colpi dilaniati e
mutilati orribilmente. Una punta d’incertezza lo fece indugiare su una
scalinata: ai lati, ancora cadaveri. Che macabro
ornamento.
“Ehi,
ragazza…” Aveva sentito la voce stranamente incerta del fratello. Che qualcuno si fosse salvato? Non appena
gli fu vicino gli posò una mano sul braccio, facendolo spostare. Temari
era accucciata di fianco ad una figura sottile che gli dava le spalle, in
ginocchio. I vestiti ridotti a brandelli lasciavano scoperte,
sul corpo esile, ferite d’ogni genere, incrostate di sangue ormai
secco e raggrumato. La sorella la guardava compassionevole. Quando Gaara le fu di fronte, comprese lo sguardo di Temari, o almeno
così gli parve. Era solo una ragazza, più morta che viva, in realtà. Il viso coperto di sangue, terra, e
quanto ancora. Gli occhi aperti, vuoti. Guardava nel vuoto, probabilmente non
aveva realizzato che era al sicuro.
“Non vuole farsi toccare
da nessuno, Gaara, ho provato a sentirle il polso… e per poco non mi
mordeva”. Kankuro era stato il primo a riaversi da quella visione e,
immediatamente, si era sfilato il mantello per posarglielo sulle spalle ustionate
dal sole. Non fece altro, non si chinò su di lei sussurrandole che era
al sicuro. Contrariamente all’aspettative fu
Gaara a prenderla tra le braccia, coprendola al meglio col mantello
dell’altro.
“Andiamo. Qui non
c’è più nessuno”, disse il
Kazekage avanzando tra i corpi con quel fagotto in braccio. Nessun altro
l’aveva toccata. Forse troppo sconvolti e schifati dal
villaggio… e da lei.
Montarono a cavallo, diretti ad
un gruppo di rocce dove sarebbero stati al riparo, protetti dal freddo della
notte, un posto dove riposare.
Gaara si sistemò la
ragazza seduta di lato tra le sue gambe, la testa abbandonata contro la propria
spalla. La cinse con la mancina, mentre con la destra guidava il cavallo tra le
opache dune di quel deserto che ormai sapeva di casa.
Durante il tragitto, la ragazza
trovò la forza di sollevare piano una mano. Voleva la prova che quello fosse reale? Quel viso di porcellana e quelle
iridi di ghiaccio… erano davvero reali? Con un dito andò a
carezzare una guancia. I suoi occhi si mossero lenti su di lei, per poi
risollevarsi.
A Gaara parve di sentire un
flebile sospiro, ma non ne fu mai sicuro. E quegli
occhi d’ametista si chiusero tranquilli, permettendogli di portare
chissà dove il suo corpo ferito… permettendogli forse di toccare
con un dito la sua anima, rinchiusa nei meandri di quel cuore così puro,
ormai nulla più di una pietra arsa dal sole.
Un sogno d’ametista in un
mare di sabbia.
La sua
coscienza riemerse lenta dall’oblio in cui era sprofondata tra le braccia
di quel ragazzo. Provò a muovere appena una mano, sentendo
sotto le sue membra qualcosa di soffice e caldo. Un letto? Schiuse leggermente
gli occhi impastati dal sonno. Dove si trovava? Non riconosceva quella stanza.
No, decisamente. Con quel briciolo di forze che le
rimanevano, si mise a sedere. La stanza parve girare, no, improbabile che una
stanza girasse, probabilmente era la sua testa.
Cominciò a massaggiarsi
le tempie in senso antiorario, chiudendo gli occhi. Dopo qualche secondo, che
in realtà le sembrò un’eternità, i mobili smisero di
danzare, tornando al loro posto.
Cercò anche di
stiracchiarsi un braccio, prima di avvertire una fitta atroce alla spalla,
notando che il proprio corpo era quasi completamente ricoperto di fasciature, a
coprire gli squarci nella carne. Altra cosa che la sorprese nel suo corpo era
la straordinaria pulizia: “Ma come…” esitò lei
toccandosi i capelli liscissimi, che avevano sostituito quell’orrendo
groviglio di nodi che lei si divertiva a strappare “…Allora
all’inferno non ti fanno entrare se sei sporca e con i capelli tutti
annodati?” rise di sé. Quell’umorismo nervoso che la rendeva tanto insopportabile ai suoi stessi
occhi.
‘No’ si disse mentalmente
“Come puoi anche solo sorridere?
Eh, bestia schifosa?”
S’impose di esplorare il
luogo in cui si trovava, qualunque esso fosse. Così, anche se con immane
fatica, riuscì ad alzarsi e a compiere i primi passi verso una delle
piccole finestrelle che davano luce all’ambiente. Si appoggiò al
vetro, voltandosi verso quella camera. Semplice, arredata con cura. Niente di
particolare, tutto sommato. Ma
un’altra cosa attirò maggiormente la sua attenzione, non appena se
ne rese conto. Il paesaggio mozzafiato che si stagliava sotto
i suoi occhi. A quanto poteva capire era veramente in alto, tanto da
riuscire a scorgere un’immensa città sotto di sé, o almeno
ne vedeva la maggior parte da lì. Che si
trovasse in una specie di palazzo?
“Sei fottuta. Adesso dove cazzo speri di
scappare?”
La testa stava rischiando di
esploderle, non stava più capendo niente, cosa
doveva fare? Forse aspettare che qualcuno entrasse da quella porta? E poi? Cosa ne sapeva lei di che
ruolo avesse in quel funebre giochino?
“Aspetta un
momento” rifletté “Quella porta. Beh, tanto vale fare un
tentativo.” Arrivò alla porta non senza
fatica. Si asciugò una gocciolina di sudore che le scendeva su una
guancia con la manica del vestito corto che aveva addosso. Era di un bel lilla
con dei deliziosi ricami viola. Ottima fattura. Ma
quello non era esattamente il momento per rimirare quello che aveva addosso. Però… C’era sempre quel dannato
‘però’ a rimbombarle in testa.
“Chi diamine può
aver provveduto così a me? Che sia stato lui?
No… in ogni caso se qualcuno non si fosse occupato di me a quest’ora non sarei qui a parlare da sola e a fare congetture
assurde!”
Mosse la mano
sulla maniglia dorata, appoggiandosi con una spalla al telaio di legno della
porta, sembrava tutto così antico e prezioso! La porta si
aprì lenta e silenziosa, mentre la ragazza si affacciava sul lunghissimo
corridoio, notando che, effettivamente, non c’era nessuno. Lo percorse rasente il muro, percependo un vago senso di
protezione, che svanì quando capì di essere allo scoperto su
un’immensa rampa di scale di pietra ormai lise dal tempo. Si
aggrappò con forza alla balaustra per non cadere giù. Si
bloccò di scatto sentendo delle voci, voltandosi poi nella loro
direzione, capendo che alla base delle scale stava una scrivania, appena
svoltato l’angolo a sinistra. La vide perché leggermente sporgente
sulle scale e illuminata dalla luce del tardo pomeriggio. Altro dettaglio
fondamentale, il pacchetto di sigarette poggiato su di essa,
proprio nell’angolo. Irresistibile per lei. Così decise di
rischiare il tutto per tutto, scendendo fino all’ultimo scalino. Si era
accucciata alla meglio dietro la pesante scrivania, cercando di capire in
quanti fossero. Tre probabilmente, ognuno intento
nelle proprie mansioni, che quella fosse una postazione di controllo per
appurarsi di chi entrava o usciva? Tuttavia non erano
alla base del palazzo, dato che poco prima, sporgendosi appena dalla balaustra
a cui s’era accollata, aveva scorto altri piani, pur non avendoli
contati. La sua mente a circuito chiuso giunse alla
conclusione che in ogni piano ci fossero delle guardie. Aspettò
nascosta lì dietro qualche istante, per poi afferrare di scatto il
pacchetto di sigarette: fortunatamente insieme a quello
c’era anche una scatolina di fiammiferi. Sì, ma ora? Non poteva di
certo scendere, sarebbe dovuta tornare di soppiatto da
dove era venuta. Già considerava un miracolo il non essere stata
scoperta e si diede dell’idiota per aver rischiato tanto per un pacchetto
di stupide sigarette, le aveva dato di volta il
cervello. Lo sapeva. In una situazione del genere, poi? Invece di procurarsi
un’arma?
“E adesso cosa fai se ti scopre una
guardia, gli offri una sigaretta?” No, assolutamente. A risalire le scale aggrappata all’inferriata le dolevano le
braccia, ma quello era il male minore. Una volta arrivata in cima alla rampa
volse lo sguardo all’insù, osservando che vi era un’unica, ultima scalinata da salire e poi…
“E poi? Figuriamoci se non trovi
un’altra guardia! Stupida, dai, suicidati almeno avrai
una morte con un briciolo d’onore!” Ma
quale onore! Aveva sbagliato tutto, non aveva più niente, che scopo
aveva morire con onore, poi? Quel sentimento avrebbe dovuto portarlo a testa
alta molto, ma molto tempo prima. Decise che tanto
valeva tentare, viva o morta non faceva differenza, lei non aveva più
nessuno che avrebbe sofferto per la sua morte. Salì
gli ultimi gradini, aveva il fiato corto. Un’altra maniglia.
Aprì con decisione la porta, serrando gli occhi, ritraendosi per una
forte folata di vento. Un terrazzo, un immenso terrazzo…
vuoto. Spalle al muro scivolò a terra, esausta.
Sorrise pensando a quanto quella fosse stata una mossa
stupida. L’unica via d’uscita era gettarsi dal palazzo. Non
ci stette troppo a pensare, al fatto che era in trappola, mentre estraeva con i
denti una sigaretta e l’accendeva con un fiammifero. Poche boccate di
fumo, il vento la faceva consumare così velocemente… Proprio come alcune persone.
C’è chi decide di fumarti velocemente, d’altro canto
c’è chi decide di lasciarti consumare lentamente, macerando in un
incandescente dolore senza fine.
“Perché
sei qui?” le aveva chiesto un’atona seppur sensuale voce di
velluto. Lei in tutta risposta aveva sollevato di scatto la testa, mentre gli
occhi si sbarravano e la sigaretta le scivolava dalle labbra ferite, toccando
terra di punta in mille scintille. Rotolando sul terrazzo. Sospinta da vento e
sabbia color beige.
Ma a volte la sabbia si macchia di sangue, no, più precisamente
l’assorbe, facendolo raggrumare.
Gli
occhi sgranati a guardare la figura che si stagliava potente tra lei e il sole.
L’essere che aveva di fronte si mosse nella sua direzione. Puro terrore che s’insinua nelle vene. L’aveva
trovata.
Continua…
Nashiko: Allora, che
ve ne pare? Vorrei davvero sapere cosa va ne pare…
E’ la prima che pubblico e vorrei sapere la vostra opinione! Spero di non
ricevere troppi insulti… XD In ogni caso aggiornerò molto, ma
molto spesso!
Colgo
l’occasione per ringraziare di cuore Vitani, per
il suo immenso supporto morale! ^_^ Poi, ovviamente, tutti coloro
che si sono dati la pena di leggere questo primo capitolo.
Che altro dire…? A prestissimo!