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Autore: The queen of darkness    31/01/2013    4 recensioni
La normalità sembra essere cementata nella vita quotidiana dei nostri amati personaggi...ma siamo sicuri che tutti siano d'accordo a queste condizioni?
--Naturalmente non possiedo nessun diritto su questa magnifica storia, creata dal genio di Miss Rumiko Takahashi--
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti | Coppie: Inuyasha/Kagome
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rin sapeva per certo che sarebbe venuto, lo sapeva, anche se tutti quanti la scoraggiavano cercando di farle pensare il contrario. Chi erano loro per prevedere le mosse del Signor Sesshomaru?
Un demone potente come lui non poteva certo essere compreso da dei contadini in mezzo al nulla, né tanto meno ciò che lo legava a lei.
In effetti, nemmeno lei avrebbe saputo classificare la gratitudine che provava per il Signor Sesshomaru, però era una cosa sconfinata e indiscutibile basata, essenzialmente, sulla fiducia reciproca.
Lui, l’ultima volta che era andato a trovarla, le aveva detto che sarebbe tornato al novilunio.
E quella notte ci sarebbe stato il novilunio.
Quindi, perché dubitare? Era l’unica creatura che non le avrebbe mai mentito, né saltato un appuntamento.
Infatti , per quanto cercasse di negarlo a sé stesso, non riusciva ad abbandonare la ragazza in quel villaggio solitario. La presenza del fratello non c’entrava nulla; a conti fatti, chi era un imperatore senza un’imperatrice?
Rin non aveva la presunzione di essere tale, ovviamente, e non credeva neppure di aver catturato il cuore freddo e spietato bisognoso d’amore del demone, semplicemente credeva che lei, per lui, fosse essenziale.
Così come il Signor Sesshomaru rappresentava per lei l’aria, l’acqua, la terra su cui poggiava i piedi, passava i pomeriggi a cullarsi che qualsiasi luna stesse vedendo, qualsiasi femmina stesse baciando, lui pensasse lo stesso, e che un angoletto del suo nobile cervello tornasse da lei, seguito dal corpo.
Ignorava cosa il suo adorato Signore facesse, e la sua unica speranza era che, una volta finito, tornasse a casa.
Da lei.
Ormai, infatti, non era così piccola ed ingenua come una volta. Più di un ragazzo le aveva chiesto la mano, nonostante facesse di tutto per scoraggiare tali richieste. Era giovane, questo sì, però non stupida a tal punto da non vedere le viscide occhiate maschili sulle gambe che si stavano allungando e sul kimono teso sul fondoschiena.
Naturalmente non aveva nessunissima intenzione di unirsi in alcun modo con un uomo, e il solo pensiero le causava un moto di ribrezzo incredibile.
Preferiva dedicarsi senza riserve al suo demone centenario, perché era l’unico che non l’avesse mai delusa, e che avrebbe continuato a non farlo.
Scaricò il barile pieno di acqua sporca nel secchio apposito e si trascinò il pesante fardello sul fianco, come al solito. Faceva quei lavori quasi con piacere, perché il Signor Sesshomaru ci teneva che imparasse un mestiere.
Fare la levatrice non le dispiaceva nemmeno così tanto, in effetti, ed era un lavoro interessante rispetto ad una contadina. Inoltre la venerabile Kaede era una brava insegnante, severa, puntigliosa ma efficace.
Con lei imparava velocemente, e ormai le donne che stavano per mettere al mondo un bambino cominciavano a fidarsi di lei. Era particolarmente brava nel curare le ferite in seguito al parto, e la vecchia sacerdotessa pensava fosse a causa dei suoi viaggi con il Signor Sesshomaru, in quanto aveva dovuto arrangiarsi se si faceva male, diventando inconsciamente abile con pezze e cuciture.
Era insensibile alla vista del sangue, perché aveva visto di peggio: dopo la violenza carnale sperimentata sulla propria pelle, non aveva battuto ciglio nemmeno quando il suo demone era tornato per divorare un braccio umano davanti ai suoi occhi. Gli aveva persino domandato se poteva assaggiare.
Sistemò la borsa di Kaede, lasciata aperta in bella vista sul pavimento. Quella signora doveva stare più attenta, quando si cambiava dopo un viaggio. Va bene che stava invecchiando, ma da qui a dimenticarsi l’arsenale sparso in giro, ne passava di acqua sotto i ponti.
Con un sospiro, richiuse il kit nell’armadio, serrando le ante in legno. Non era la prima volta che capitava, purtroppo.
Prese l’arco, e nella luce del pomeriggio,  prese a lucidarlo minuziosamente.
Non aveva la minima idea di come la donna e Kagome riuscissero a maneggiarlo tanto abilmente, in quanto lei era colta da una specie di timore reverenziale solo quando doveva oliarlo.
Era assolutamente incapace quando si trattava di incoccare frecce o tendere corde, e lasciava questo mestiere alle due protettrici del villaggio. Passò i panno sul legno prezioso, rendendolo lucido e funzionale.
Poi prese il prodotto speciale per le rifiniture e si dedicò al lavoro più difficile aguzzando la vista.
La luce filtrava copiosamente dalle imposte spalancate, ma la stanchezza dovuta al compito appena finito nel villaggio vicino le rendeva difficile qualsiasi operazione che andasse oltre al meccanico strofinare.
Era stato un parto difficile: la bambina avrebbe dovuto nascere qualche settimana più tardi, e le contrazioni avevano sorpreso tutti. All’inizio la donna non ci aveva dato importanza, ma quando l’avevano trovata dolorante nella propria capanna le avevano subito mandate a chiamare.
Però il tragitto difficoltoso e la distanza da percorrere non erano stati dalla loro parte, rallentandone l’arrivo di quasi un’ora, nonostante i cavalli spinti al massimo.
La puerpera aveva perso moltissimo sangue, e faticarono non poco per assicurarsi che entrambe rimanessero in vita. Alla fine, però, tutto si era risolto bene, e la ragazza aveva stretto fra le braccia una neonata che avrebbe portato il suo nome. La piccola Rin, quando partirono, già dormiva.
Mentre si dedicava alla corda, la ragazza sperò sul serio che la Rin appena nata avesse la fortuna di incontrare un demone speciale, com’era successo a colei che l’aveva fatta nascere. La sua vita avrebbe potuto avere un senso, se fosse successo, e lei lo voleva veramente.
-Scusate, nobile Rin…siete sola?
Una voce alla porta la fece sobbalzare, col rischio che l’arco le sfuggisse dalle mani. –Eh? Che c’è?
Nel riquadro di luce violenta stava un ragazzo, che le pareva di aver visto al villaggio un paio di volte. Un tipo alto, reso muscoloso dalle fatiche di contadino.
-Scusatemi – disse imbarazzato. –Non volevo spaventarvi.
-Per favore, entrate dentro, questa luce mi abbaglia e non riesco a vedervi in faccia.
L’altro obbedì, rimettendo a posto la stuoia sullo stipite in legno, accomodandosi su un cuscino davanti a lei.
-Se cercate la venerabile Kaede, credo stia dormendo – disse Rin, sorridendo cordiale. Ricordava la domanda fatta dal giovane, e aveva imparato per esperienza che con gli uomini bisognava far credere di non essere mai e poi mai sole e indifese. In effetti non aveva idea se la sacerdotessa ci fosse oppure no, ma di solito si ritirava sul suo giaciglio in paglia per cedere alla stanchezza.
-No, no, non cercavo lei…ero venuto per voi – ammise arrossendo. Quella storia cominciava a non piacerle affatto.
-Vi servono delle erbe?
-Ehm..il motivo della mia visita è leggermente diverso -. Quando parlava non la guardava negli occhi e si torceva le mani callose, sfiancate dal lavoro.
Rin prese in mano una freccia posando invece l’arco. Anche se non la sapeva usare, la punta acuminata conficcata in un occhio doveva fare male lo stesso, no?
-Ecco, vedete… - continuò, spronato dal silenzio della ragazza. –Anche se capisco che ci siamo visti pochissime volte e che non vi ricordate di me…volevo lo stesso chiedervi se vorreste diventare mia moglie.
Alzò lo sguardo e le sorrise timidamente, piegando le spalle dall’umiltà.
La futura levatrice rimase zitta, non osava parlare. Probabilmente, se avesse avuto una famiglia normale, quella presentazione educata e rispettosa avrebbe deciso il suo destino, ovvero abbandonare l’arte che stava apprendendo e dedicarsi al fare bambini e cucinare.
Purtroppo per lui, però, la sua intera esistenza, per quanto misera, era assorbita da un capolavoro chiamato Signor Sesshomaru. Il suo mestiere, la sua anima, il suo cuore e tutto ciò che possedeva appartenevano a lui, e non esisteva nessuno in grado di spezzare questa convinzione.
Apprezzava, naturalmente, il coraggio che aveva avuto il giovane, e il fatto che avesse ignorato la presenza di un demone che andava regolarmente a trovarla lo rendevano ammirevole fra i suoi simili, però sarebbe stato costretto a subire un rifiuto.
La ragazza sorrise, cercando di essere il più delicata possibile. –Mi dispiace, ma io non posso accettare. Non dipende da voi, credetemi, anzi, ho molto apprezzato le vostre parole. Mi sento lusingata, dico davvero. Se questo può consolarvi, non mi vedrete mai sposata con un altro fra i vostri compaesani. È un voto con me stessa, se così si può dire, e la mia vita per il momento non ha spazio per il matrimonio.
Il giovane fece un sorriso triste e sconsolato. –È per quel demone che viene a trovarvi, vero?
Rin annuì, piano. Che senso aveva mentirgli, povero diavolo?
Lo vide scuotere piano la testa, rassegnato. –Mi dispiace se vi ho disturbato. Scusatemi.
Detto questo, uscì dalla porta, nascondendo il viso perché lei non vedesse le lacrime.
In cuor suo le dispiaceva, ma dubitava sarebbe stata una buona moglie. E poi, dopo un po’ di tempo, avrebbe anche dovuto rinunciare a Sesshomaru, e questo era impossibile anche solo da pensare. Lui era il suo sole, la sua ragione di vita. Come avrebbe fatto senza?
O meglio: come avrebbe fatto a sostenere il suo sguardo freddo mentre teneva in braccio figli di cui non era il padre?
Come avrebbe fatto a non aspettarlo nella capanna vuota, trepidante, ma in un’altra a concedersi ad un  marito stanco e così dannatamente umano?
Semplicemente, non ce l’avrebbe fatta.
Sentì l’aria cambiare, in uno scatto repentino, e il vento sul retro della capanna virò improvvisamente direzione. Il suo cuore palpitò: possibile che fosse davvero lui?, si chiese emozionata. Era raro che venisse alla luce del sole.
Subito, si inginocchiò davanti alla specchiera, mettendo a posto i capelli come meglio poteva, abbandonando la faretra in un angolo, ben lucidata. Non c’era verso di cambiare pettinatura: a lui piaceva solo  e sempre la solita, con un infantile codino di lato, allegro.
Si lisciò il kimono, e non pensò nemmeno di truccarsi. I cosmetici l’avrebbero resa ridicola davanti ai suoi occhi, ed era l’ultima cosa che voleva. Bene, era in ordine, anche se ancora indegna di presentarsi davanti a lui.
Per Sesshomaru, avrebbe voluto indossare le stoffe migliori, acconciarsi i capelli nel modo più elegante possibile, raffinare il viso secondo lei spoglio con un trucco sofisticato, ma non poteva. Le mani curate in modo indispensabile, le stoffe semplici che le regalava, i capelli sempre messi al solito modo. Ecco come la voleva vedere.
Che non lo attraesse? Che la vedesse sempre e solo come una bambina innocente? Lei sperava vivamente di no.
Arrossì, mentre girava intorno alla casetta tranquilla, senza riuscire a domare i battiti impazziti del proprio cuore.
Non aveva conferme che fosse arrivato in pieno pomeriggio solo per vederla, ma se conosceva abbastanza il turbine leggero che si lasciava dietro, allora era più che certa che fosse lui.
Con la sola presenza, aveva scacciato il ricordo del ragazzo.
-Rin -, disse solo. Era quello il suo saluto.
Un demone possente, fiero, invincibile, nell’elegante e sobrio kimono bianco temuto dai nemici. Il viso ovale e conosciuto, la cascata gelida di capelli perfetti lungo la schiena forte, l’armatura semplice a coprire un petto sublime. Possibile che potesse essere resa partecipe dallo spettacolo di quegli infiniti occhi gialli senza nessun prezzo da pagare?
-Signor Sesshomaru – rispose, sorridendo. Lui non parlò. –Cosa vi è successo? – chiese allora, preoccupata.
-Nulla -. Non poteva avvicinarsi se voleva vedergli il viso, a causa dell’altezza, così nettamente superiore alla sua.
-È stato un viaggio lungo?
-Sì.
Silenzio. Non aveva bisogno di nient’altro, per farsi cullare da quella freddezza. Era lei l’incaricata di coprire il silenzio, in quel misero spazio erboso circondato dal nulla.
-Sapete, oggi ho fatto nascere una bambina e le hanno dato il mio nome. Aveva anche lei i capelli scuri, nonostante le si vedesse un ciuffo soltanto. Prima, nella capanna, ho pregato per la sua anima. Ho sperato che il mio nome le portasse fortuna – confidò, cercando di essere allegra, celando l’imbarazzo.
Si voltò, senza dargli propriamente le spalle, visto che lui aveva il busto appoggiato ad una possente quercia e la stava guardando. Raccolse delle margherite candide, e le tenne in grembo.
-Secondo voi il nome Rin è di buon auspicio? – chiese, pentendosi subito dopo. Era sbagliato porre certi interrogativi, anche se lui non le aveva mai vietato nulla del genere.
-Devi saperlo tu.
-Giusto, avete ragione. Scusatemi, credo sia stata la stanchezza a parlare per me.
Per un attimo si distrasse, a guardare il cielo. Quando stava sul retro, o in una radura, aveva la sua pace, l’attimo in cui rilassarsi. Poi il suo padrone partiva e lei contava i minuti per il prossimo incontro.
-Rin – disse lui, col suo tono profondo. –Sei in età da marito, ormai. Le ragazze grandi come te a quest’ora sono tutte incinte.
Queste parole la ferirono nel profondo, scavandole un solco difficilmente rimarginabile, intenso e bruciante. Lei si stava sacrificando per il Signor Sesshomaru, si negava una vita stabile per morire sola, nell’attesa di sporadici incontri dietro alla capanna di una sacerdotessa vecchia e raggrinzita, passando le giornate con le mani nei genitali donne altrui per cavarne fuori esseri urlanti condannati all’ignoranza e alla fame, alla miseria. Come poteva dirle esplicitamente una cosa simile?
-Cosa state cercando di dirmi? – chiese cauta. Il sorriso onnipresente smise di illuminarle la bocca.
-Sto dicendo –rispose imperturbabile, - che dovresti trovarti un marito.
-Cosa? – scattò lei. Cosa significava tutto questo? Aveva quattordici anni! Voleva forse vederla gravida e abbandonarla ad una vita infelice?
-Vorrei che tu avessi una vita stabile, Rin.
-Non si chiamerebbe vita stabile, Signor Sesshomaru. Si chiamerebbe vita infelice. Vorreste davvero vedermi portare in grembo un figlio umano? – una lacrima le solcò una guancia. – Avevo sbagliato credendo che voi foste diverso.
Qualcosa di essenziale si era rotto, in lei. In realtà, la sua felicità era costruita su una bugia. –Se volevate liberarvi di me, bastava dirlo subito. Addio – concluse, prima di voltarsi e scappare via.
-Rin, aspetta…- cercò di trattenerla lui, ma fu tutto inutile. Ormai non era più il suo demone.
Le margherite caddero a terra, e lì restarono. 
  
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