Ok, eccomi qui con quella che è in
assoluto la mia prima ficcy… molto “nel mio stile”,
forse un po’ caotica, però capace di rendermi orgogliosa del risultato finale.
Perciò, solamente vi dico: Buona
Lettura ^^
L’UNICO
CHE ABBIA
Era stata la follia di quel
momento,di quell’unico attimo di piacere che l’aveva
condotta fin li, che l’aveva marchiata di un pregiudizio indelebile.
Erano l’uno dinnanzi all’altra, due vite indissolubili separate dalla fugacità del tempo.
Era stata la pazzia di qualcosa che lui non comprendeva, che
non sarebbe mai stato i grado di comprendere.
Era nata non voluta,era cresciuta
nell’onta di essere stata generata senza il dono, aveva avuto la sfrontatezza
lei, unica discendente di colui tra i più potenti,di nascere tale e quale a
coloro che lui disprezzava,aveva avuto la fortuna di crescergli lontano ,di
girare il mondo, di imparare a ragionare da sé e di essere indipendente,di aver
visto la sofferenza che, invece di lottare tra loro, essi avrebbero potuto
curare; aveva avuto la fortuna di accorgersi che il mondo non era precluso a
coloro i quali sono diversi ma anzi era a loro favore, perchè essi avevano la
libertà di essere più d’uno e di vivere
infinite vite all’interno di quella mortale, pur non potendo sottrarsi alle sue
leggi.
Aveva osservato il mondo, quell’orfanella
sola, l’aveva osservato con i suoi occhi di bimba e ne aveva compreso più di
quanto lui avesse mai; era riuscita a trovare il passaggio nascosto nel muro, ad
entrare in Diagon Alley, aveva saputo infiltrarsi tra colori i quali sarebbero
partiti per quella scuola che lei avrebbe frequentato di nascosto per quattro anni,
usando uniformi trafugate agli elfi preposti alla pulizia di queste e dormendo
in una strana stanza che le appariva e che si trasmutava, qualora lei lo avesse
voluto, nella sua aula, quella in cui aveva scoperto che maghi e uomini (poiché
a lei l’appellativo “babbani” non piaceva) avevano in fondo le stesse origini, lo
stesso modo di essere umani, la stessa capacità di pensieri e sensazioni e che
la loro unica differenza era quella di avere scelto vie diverse, gli uni la
razionalità di una vita basata sulla scoperta delle leggi naturali e sul
domarle per avvicinarsi al divino, gli altri l’illogicità di una vita da eremi
racchiusi in una confraternita di adepti devoti alla risoluzione dei propri
interessi per un progresso proprio solo degli iniziati, entrambe le categorie
costantemente occupate a lottare tra loro per l’illusione di un potere che
nessuno, in fondo, deterrà in eterno. Aveva scoperto, lei povera maganò che
aveva avuto la presunzione di nascere così per mettersi alla prova, per
complicarsi l’esistenza, la via per esprimere le potenzialità che aveva dentro,
e nonostante il dolore aveva masso in atto tutto ciò che aveva potuto, divenendo
lei stessa una di loro: e rivelandosi prepotentemente era entrata a far parte
di quella confraternita, era stata ammessa tra loro, aveva studiato con loro, si
era innamorata di loro di un amore che i pregiudizi avevano ucciso, gli stessi
pregiudizi che l’avevo cacciata via dalla scuola, che le avevano permesso di
usare ciò che era per curare e salvare, o semplicemente portare conforto, a
coloro i quali le società, entrambe, avevano voltato le spalle. Aveva vissuto
la sua vita e aveva espiato la sua colpa. Non aveva nessun rimpianto. Non aveva
più nulla da temere, nulla da perdere.
Erano l’uno di fronte all’altra, un futuro spezzato, un
passato da dimenticare.
L’Aveva amata pur non sapendo cosa fosse quel
sentimento e da questo amore oppresso aveva avuto lei, un disonore il suo
fiocco rosa, un disonore la sua incapacità di operare incantesimi, un dolore
veder sfumare la sua discendenza, uno strazio la consapevolezza che per la sua
vita Lei aveva sprecato la propria. Aveva sempre saputo che Lei non l’amava ma
ciò nonostante l’Aveva presa con la forza e l’aveva fatta sua; ciò nonostante
non v’erano riusciti, non ne erano stati in grado, Lei discendente da nobile
stirpe, lui padrone della magia. Aveva progettato per lei un matrimonio con il
suo Mangiamorte migliore, un’unione che avrebbe accresciuto il legame con i
suoi seguaci, aveva donato a lei una parte di sé che sapeva, a torto, essere al
sicuro. A quattro anni, quando ormai era chiaro che non sarebbe stata mai una
strega, l’aveva abbandonata, non sapendo bene perché, sulla porta dello stesso
orfanotrofio nel quale era cresciuto lui, pur osservando ogni suo passo non per
amore ma per ciò che lei aveva in sé; era ormai per lui solo una scatola, un
altro contenitore di sé. L’aveva osservata mentre entrava ad Hogwarts, l’aveva
vista nascondersi, imparare ed infine mostrarsi al pubblico mago rivelando che
lei, piccola babbana, era riuscita ad impadronirsi delle antiche arti magiche e
che ora poteva entrare in quella scuola, perché una strega a tutti gli effetti.
L’aveva vista essere giudicata ed infine ammessa, l’aveva vista essere
assegnata a Grifondoro, l’aveva vista stringere amicizia col suo peggior
nemico, con colui che l’aveva ridotto per anni ad una semivita durante la quale
non aveva comunque mai smesso di osservare quel piccolo pezzo della sua anima
al quale era ancora legato, dal quale non era mai riuscito a separarsi. L’aveva
vista legare con la compagnia di quell’Harry Potter dal sangue del quale era
rinato, più forte; l’aveva vista amare incondizionatamente, semplicemente, innocentemente
tutti coloro che le si presentavano: l’aveva vista amare con ardente passione i
gemelli traditori del loro sangue, fratelli dell’amico rosso del suo nemico, ed
essere da loro ricambiata. L’aveva vista venire espulsa ed imprigionata a causa
di quel marchio che aveva impresso sul petto, di quella serpe argentata che
dall’ombelico le risaliva tra i seni fino al collo, orribile segno che era
rinato dalla di lui rinascita e che le aveva rovinato la vita. L’aveva vista
fuggire da Azcaban e allora l’aveva rivoluta, aveva rivoluto l’esclusiva sul
suo dono prima che l’amore la spingesse a metterlo al servizio dell’Ordine, a
servizio dei suoi nemici, a servizio di colui il quale sconosciuto potere aveva
sempre temuto, Silente, nonostante sapesse quanto lei lo odiasse per non averle
concesso nemmeno una possibilità di essere diversa da colui che Silente
combatteva. L’aveva cercata mentre coloro che odiava e che si erano riuniti
sotto Potter lo combattevano, aveva ucciso entrambi i suoi amanti che Potter
stesso aveva spedito in prima linea, l’aveva fatto per distruggere in lei ogni
scintilla di quell’amore che lui non sapeva, non poteva, provare e che lei
aveva distribuito nel mondo prima che fosse chiamata alla guerra, durante
quegli anni trascorsi accanto ai bambini in quell’ospedale dimenticato da tutti
e nel quale lei altro non faceva che alleviare il dolore degli altri, accudirli
e fargli dimenticare per un attimo le loro pene mentre si avviavano verso
l’oblio al quale l’indifferenza umana li spingeva, quella morte che la sua
magia non era in grado di evitare e che un semplice dottore uomo o un Guaritore
mago avrebbero facilmente evitato. E mentre li vedeva morire, mentre vedeva
giovani vite e destini e sogni che non si sarebbero mai realizzati, e piangeva
e amava la vita disprezzando sé stessa per la
sua incapacità di salvarla, lui la osservava e di lei vedeva solo le
potenzialità magiche sprecate: ma l’anima che in lei aveva posto sentiva il
dolore e l’amore, e lo dilaniava.
Erano l’uno davanti all’altra, il passato e il futuro uniti in un presente rosso: intorno a loro morte e guerra, speranze e non più vite; si guardavano, padre e figlia, uniti da quella linea di sangue e storia.
Si guardavano e non c’era pietà negli occhi di lei: perché lui le aveva portato via tutto, l’amore, l’infanzia, l’intera vita e lei ben sapeva che è impossibile recuperare ciò che si è perso.
Erano l’uno dinnanzi all’altra, due vite indissolubili separate dalla fugacità del tempo, e iniziarono a lottare.
La battaglia era persa quando lui, guardandola, capì che non poteva essere sua, come non lo era stata sua madre che, in contrasto con l’anima diabolica di lui, l’aveva chiamata Angel, immaginando forse la battaglia che un giorno si sarebbe combattuta tra bene e male, tra passato e futuro, fra l’Angelo e il demone, fra Tom e Angel Riddle, erede della casata di Voldemort e di quella di Silente, figlia della sorella minore del suo peggior nemico.
E mentre si guardavano, lui spezzato, lei trionfante
dell’imminenza dell’estremo sacrificio, un lampo passò fra gli occhi, fra le
menti, fra le anime collegate dall’incanto che con la morte aveva spezzato
quella di lui e l’aveva posta in lei, suo Orcrux, erede ribelle e indesiderato;
la voce di lei nell’attimo prima dell’oblio, remota come se già il coltello che
reggeva nella mano destra l’avesse colpita, nella mente di quel corpo vivo solo
grazie a quell’anima che lei stava per distruggere:Se solo m’avessi saputa amare come Lei, Lilian, l’unico essere umano che tu abbia mai amato.
(Ispirato dalla canzone “Lilian” , Depeche Mode *.* ragazzi, quanto vi adoro!)