Buonasera
meraviglioso fandom!
Non ho parole per definire questa storia. Dirò
solo che il sabato mattina mi fa uno strano, stranissimo effetto.
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
Don’t
forget the milk (or the strange case of the broken heart)
*
Ormai, ero decisa ad
andare fino in fondo.
Non sarei mai, mai e poi mai finita
in un sacchetto della spazzatura senza prima raggiungere lo scopo della
mia
vita su questa terra, quel brevissimo periodo di tempo che, al
contrario di
ogni mia aspettativa, stavo trascorrendo per lo più
nell’oscurità e tra la
pessima compagnia -Mai provato a discutere
con una testa umana?- di uno squallido frigorifero.
Continuavo a maledirmi per essere cascata in quella trappola senza
neppure
rendermi conto del guaio in cui mi stavo impelagando, ma fatto stava
che appena il mio
sguardo aveva incrociato quello di Sherlock Holmes, un bellissimo,
imbronciato –avrei scoperto solo in seguito quanto
odiasse fare la spesa- Consulting Detective,
ogni pensiero
razionale era andato a farsi benedire.
Giù alla centrale mi avevano detto di stare attenta, di
tentare di sembrare il
più indifferente possibile nei confronti degli esseri umani,
e io mi ero detta
più di una volta che avrei resistito, che di certo non sarei
rimasta
affascinata da un uomo dopo aver
rifiutato le avances di quel
grandissimo pezzo di figo di Moët et
Chandon.
Naturalmente non avevo fatto nemmeno in tempo ad arrivare a
casa, perdonandogli
anche il terribile tragitto a piedi sballottata qua e là
insieme ad un
maleducatissimo barattolo di fagioli, che già ero
perdutamente, inguaribilmente
innamorata di quell’uomo. Un colpo di fulmine in tutto e per
tutto.
Col tempo, poi, la situazione era soltanto peggiorata.
Di solito era il suo coinquilino a usufruire di me più
spesso, una volta per il
suo tè, un’altra per la torta al cioccolato
preparata appositamente per
Sherlock che mi aveva reso fiera di poter essere stata utile, e in un
paio di
occasioni per la colazione del mattino.
John aveva un tocco gentile per lo meno -probabilmente dovuto alla
delicata
pratica medica-, nonostante mi trovassi a non
sopportarlo a prescindere: lui era l’unico, il solo a cui fosse concessa la
possibilità di toccare, sfiorare, baciare
Sherlock ogni volta che volesse,
senza l’impedimento di
essere una sciocca
tanica di plastica senza fascino alcuno.
Avevo rischiato di morire d’invidia il giorno in cui avevano
deciso di
lasciarsi andare ad appassionate effusioni
di fronte a me, abbandonata e dimenticata sul tavolo della cucina e
costretta
ad assistere all’assalto
–perché quello
era stato, mai visto John tanto
atletico- al mio uomo da parte di qualcuno che non ero io.
La vita può essere davvero crudele, a volte.
Man mano che la mia data di scadenza si avvicinava –e io la
temevo come non
avevo mai temuto nulla in vita mia- cominciai a pensare che non sarei
mai e poi
mai riuscita nel mio intento di strappare anche solo un bacio
al mio amato. Fino a quel momento non mi aveva neppure mai
toccato a mani nude, al banco frigo di Tesco aveva usato quegli odiosi
guanti
scuri, e temevo non avrei mai goduto della sua dolce carezza sulla mia
superficie liscia o la stretta dolce delle sue labbra paffute intorno
al mio
fremente e desideroso beccuccio.
Poi, inaspettatamente –e quasi rischiai di andare
a male per l’emozione- la situazione si
sbloccò.
Una mattina, mentre ero intenta a sedare un battibecco tra le banane e
un
sacchetto di dita sanguinolente nel vano frutta, il frigorifero si
aprii stranamente
di buon ora. Immaginai fosse John, magari alzatosi prima del solito per
un
turno extra all’ambulatorio, e riuscii a stento a trattenermi
dall’esplodere imbrattando
l’intera cucina,
quando invece vidi Sherlock in piedi davanti al frigo.
Si guardò intorno con sguardo attento, come se stesse
selezionando mentalmente
–oh, che uomo intelligente!-
gli
oggetti che gli sarebbero serviti per qualunque
cose avesse intenzione di fare. Che volesse semplicemente
fare colazione,
sballottarmi su e giù come una specie di maracas
improvvisata o usarmi per uno
dei suoi esperimenti, io avrei accettato di buonissimo grado. Ero
talmente
cotta e agitata, che sarei potuta diventare panna
da un momento all’altro.
Mi sfiorò finalmente con quelle lunghe e affusolate dita da
violinista -oh quanto
adoravo sentirlo suonare, nonostante la quasi totale insonorizzazione
di quel
maledetto frigo- e sentii un brivido attraversarmi dal tappo alla base.
Rischiai
seriamente la vita quando il palmo della sua mano si
appiattì contro il mio lato,
come se mi stesse davvero intenzionalmente accarezzando.
Oh. Sì.
Svitò il mio tappo azzurro e si
affrettò ad afferrare il suo microscopio,
piazzandolo al solito posto sul tavolo, apprestandosi in seguito a
raccogliere
qualche strano strumento che non avevo mai visto da uno scaffale della
cucina.
Poi, con mia somma gioia ed enorme
tripudio, toccò a me.
Mi strinse con forza a sé mentre versava qualche goccia del
mio contenuto su un
vetrino, giocò distrattamente con la mia maniglietta di
plastica durante
l’osservazione al microscopio, lisciò di nuovo
–meraviglia, meraviglia, assoluta
meraviglia- il mio dorso come se
fossi la sua innamorata e lui mi
stesse adorando con un semplice tocco delle mani.
Continuò a farlo ad intervalli regolari e non so davvero
quale forza mi
trattenne dall’impazzire completamente, squagliandomi su quel
tavolo come se mi
avessero gettata nel fuoco acceso di un caminetto.
Purtroppo, non durò oltre qualche ora.
John tornò dal lavoro, sempre il solito guastafeste,
e naturalmente trovò da ridire sulla confusione in cucina,
sul fatto che Sherlock
non riordinasse mai dopo aver messo in subbuglio l’intera
stanza e tirò in
ballo anche me, rimproverandolo del fatto che se mi avesse tenuto
ancora un po’
fuori dal frigo avrei rischiato di guastarmi.
Tzk!
Mi rimise in frigo lui, appioppandomi la compagnia di un nuovo
arrivato, una
viscida e presuntuosa bottiglia di birra Foster’s
assolutamente disgustosa. Se solo John avesse perso quel dannato treno
della schifosamente puntuale Tube,
se una
volta uscito dall’ambulatorio fosse stato talmente stanco dal
ritirarsi in
camera senza nemmeno dare un’occhiata alla cucina, sarei
rimasta ancora un po’
in compagnia del mio Sherlock.
Invece no, lui era arrivato e mi aveva costretta a tornare in
quell’orrido
posto in balia delle spudorate
proposte di quella cosa accanto a
me.
Che razza di palla al piede che era John, certe volte.
Il giorno tanto temuto, alla fine,
arrivò inesorabile, e io
persi
completamente ogni speranza di riuscire nella mia sciocca impresa. Come
se non
bastasse, ci si mise anche quell’antipatico di William, la
testa nel frigo di
turno, a mettersi a borbottare sulla stupidità delle mie
idee.
“Vorresti che ti sposasse, piccina?” mi prese in
giro, sbeffeggiandomi. “Non
hai nemmeno un dito dove infilarti un anello. Dove lo fareste il
viaggio di
nozze poi? Allo smaltimento rifiuti?”.
“Sempre meglio dell’obitorio, comunque”
replicai acida, e la sua risatina
sarcastica si bloccò come se gli avessero appena mozzato la
testa. Insomma, ipoteticamente.
Quando la svolta arrivò, poi, improvvisa come la
prima volta, fu il giorno più bello della mia vita.
Il realtà fu John il fautore di tutto –comico come
mi spingesse tra le braccia
del suo uomo così spudoratamente- e quando mi
afferrò con presa salda
appoggiandomi poi sul tavolo, non avrei mai creduto che mi avesse
tirato fuori dal
frigo per poi concedermi a Sherlock.
Fu una sorpresa vederlo arrivare, bellissimo e vestito impeccabilmente
con
quella camicia viola che mi faceva impazzire, e ancora più
sconvolgente fu
vederlo rivolgere tutte le sue attenzioni verso di me.
“Quindi devo solo berne un po’?” Sherlock
disse impaziente, guardandomi
famelico. Mi eccitai terribilmente. “Poi mi darai quello che
voglio?”.
Vidi John sorridere, assolutamente deliziato dal fatto che Sherlock
fosse così
propenso a soddisfare qualunque richiesta lui avesse fatto. Se avessi
posseduto
un cuore, a quel punto mi sarebbe letteralmente schizzato via dal petto.
“Oh sì,
Sherlock. Se
proprio non vuoi mangiare, fammi contento almeno così. Poi
potrò adeguatamente
perdonarti per lo…scherzetto
di ieri
sera” John sussurrò, tenendomi ancora stretta
mentre con l’altra mano
accarezzava uno zigomo di Sherlock. Quel gesto mi rese gelosissima,
ma tentai di trattenermi.
Il detective sorrise, ed era un sorriso diabolico che non avevo mai
visto sul
suo viso, come se nell’intera conversazione tra i due ci
fosse un sottointeso
che non riuscivo a capire. La mia euforia
s’incrinò un pochino, a quella
prospettiva.
Sherlock si avvicinò e mi strappò con impeto
–oh, quanto avevo atteso quel
momento!- dalle mani di John, alzando l’altra mano per
svitare il grosso tappo.
Mi godetti nuovamente, anche se questa volta non c’era
delicatezza nei modi ma
solo un impetuosa passione, la
stretta della sua mano e attesi con trepidazione che quello che avevo
tanto
aspettato accadesse.
“Non ho mai trovato questa cosa
così irresistibilmente affascinante,
John”
Sherlock disse ancora, indicandomi, e sorvolai sul fatto che mi avesse
definita
cosa e mi concentrai su
quell’irresistibilmente affascinante
che
rimbombava nel mio cervello –o insomma, in qualunque cosa in
me fungesse da
cervello- in loop, come una specie di disco rotto. Sentivo la meta
avvicinarsi
sempre di più, vedevo John allontanarsi a
velocità sempre più spedita lasciando
spazio a noi due, a quel nuovo amore nascente, al vero sentimento
capace di
scavalcare ogni diversità.
“Oh, ma quanti complimenti” John
ridacchiò, appoggiandosi con i gomiti al
tavolo e fissando il suo coinquilino, una
volta suo amante. “Sembra quasi che tu lo stia
dicendo sinceramente e non
per un…secondo fine”
lo stuzzicò. Se
possibile, la mia leggera antipatia per lui
sì’intensificò ai massimi livelli.
Come osava dubitare della sincerità dei sentimenti di
Sherlock? Di lì a poco,
gliel’avremmo dimostrato.
Il mio detective sembrò sbigottito quanto me.
“Uomo di poca fede” rimbrottò John, con
aria altezzosa. Finalmente cominciò ad
avvicinarsi, pian piano, come in uno di quei film che John guardava
alla TV e
per i quali Sherlock lo prendeva in giro per giorni, e vidi le sue
labbra
schiudersi con lentezza esasperante, come se volesse che io mi godessi
quel
momento in ogni suo attimo. Oh, stava per succedere, ero ad un passo,
era
fatta! Come avrei voluto che quel presuntuoso di William potesse
vedermi!
Finalmente, le sue labbra si poggiarono al mio beccuccio con dolcezza,
senza
fare troppa pressione ma lasciando che sentissi comunque la sua bocca
sulla mia
–o insomma…avete capito- il più
possibile. Cominciò a trangugiare avidamente il
mio contenuto, non avevo mai provato sensazione più bella in
tutta la mia vita,
e mi sentii decisamente in Paradiso per un momento, quando le sue mani
arrivarono alla mia vita –cingendo
la
mia circonferenza, in altre parole- stringendomi in un appassionato
abbraccio
focoso. Desiderai che quel momento non avesse mai fine, che lui
continuasse a
stringermi e che John, l’intero appartamento e quella
ficcanaso di Mrs Hudson
scomparissero e ci lasciassero soli a vivere il nostro imperituro amore.
Alla fine, con mio sommo rammarico, Sherlock mi lasciò
andare.
E del tutto inaspettatamente,
non certo come lo avevo immaginato nelle mie fantasie, mi
sbatté con violenza
sul tavolo, lasciandomi scossa e rintronata per qualche secondo.
Oh, che uomo impetuoso!
Immaginai che presto avremmo ricominciato, che un sentimento
così grande non
avrebbe certo limitato le nostre effusioni a quel semplice bacio, e non
feci in
tempo a riprendermi e ad attendere la prossima mossa del mio amato che
lo
ritrovai a fissarmi con aria disgustata.
“Oh John, e credevo che con le giuste motivazioni sarebbe
andata meglio” sbottò,
fissando me e poi il dottore, asciugandosi la bocca con una manica
della
vestaglia. “Anche con la prospettiva del ‘un
solo sorso e potrai di nuovo fare sesso con John’
non cambia assolutamente
nulla. Il latte non mi piacerà mai”.
Mi sentii come schiacciata da un invisibile pressa, come quelle che
c’erano giù
in fabbrica per il riciclo bottiglie di plastica. Il mondo mi
crollò addosso
quando finalmente capii il gioco di colui che avevo creduto ricambiasse
finalmente il mio sentimento. Ero
servita solo come subdolo mezzo per far sì che il suo amante
lo perdonasse, mi
aveva usata soltanto per raggiungere il suo scopo, illudendomi
e poi tornando tra le braccia del suo dolce, amorevole
–ricattatore- John Watson.
Come avevo potuto innamorarmi di un tale orribile manipolatore
di sentimenti?
Sperai vivamente che la conversazione non fosse udibile
dall’interno del frigo
o, altrimenti, appena tornata lì dentro sarei stata
costretta a subirmi tutte
le prese in giro di quella testa maledetta, i supponenti ‘te l’avevo detto!’
dello scatolo di uova sull’ultimo ripiano e le
risatine ironiche del grosso fegato umano chiuso nel tupperware blu
piazzato di
fronte a me. A quel punto, avrei preferito venir buttata via come una
cartaccia
qualunque, anche con quel dito e mezzo di latte ancora dentro.
Perché ero a
lunga conservazione? Non potevo essere un semplice cartone destinato ad
una
famigliola di cinque o sei persone?
Che mondo.
“Sherlock, sei crudele” John commentò, e
io, stranamente, accantonai per un
momento il mio mal di vivere e mi soffermai
sulla voce del dottore. “Insomma, non ferire i sentimenti di
quella povera
bottiglia”.
Rimasi semplicemente shockata dal vedermi difesa così
accoratamente dal mio più
acerrimo nemico. Sherlock sbuffò, alzando le spalle.
“Non sono crudele. Sono obiettivo”
Sherlock
puntualizzò “Ricordo quando mia madre mi
costringeva a berlo caldissimo, per il
raffreddore. Orribile” quasi tremò al ricordo.
Sentii un moto di rabbia
crescere dentro di me facendomi letteralmente ribollire
come fossi sopra un fornello. Che mi era passato per la
testa? Perché ero stata così cieca da non
accorgermi del guaio al quale stavo
andando incontro? Magari fossi stata davvero in un pentolino sul fuoco,
mi
sarei volentieri sacrificata per provocargli una qualche ustione di
primo grado
su quelle mani di fata.
John ridacchiò e venne verso di me, scuotendo la testa.
Forse stava per mettere
fine alle mie sofferenze, portandomi a far compagnia alle scatole di
take-away
cinese gettate il giorno prima, o magari era in procinto di fare di me
un
innaffiatoio improvvisato per le piante rachitiche –colpa
dell’intruglio
versatoci dentro da Sherlock qualche giorno prima- del pianerottolo.
Sperai solo che mi togliesse dalla vista di quell’uomo
spregevole.
“Invece a me piace” John affermò,
prendendo le mie difese ancora una volta.
“Anzi, credo proprio che finirò quello che hai
lasciato” disse, con tono
minaccioso. Non riuscii a credere alle mie –ehm- orecchie.
Sherlock aggrottò le sopracciglia ed emise un grugnito di
disapprovazione.
“Poi i tuoi baci sapranno di quella roba” lo
accusò, e John scoppiò a ridere.
“Magari lo faccio per questo. Oltre che per risollevare il
morale a terra di
questa poveretta”.
“John, le tue ripicche sono così infantili.”.
“Oh, detto da te è stranamente comico”.
“Sei esasperante”.
“Mai come te” John mise fine al battibecco
sollevandomi dal tavolo dove
Sherlock mi aveva malamente sbattuta, con una delicatezza inaspettata.
Qualcosa
dentro di me si smosse quando mi accorsi di quello che lentamente si
stava
facendo strada dentro di me, quando mi resi conto di come
quell’uomo, fino a
quel momento detestato e bollato come mio più ostico
avversario, stesse
acquistando tutta un’altra immagine ai miei occhi.
Quando la sua bocca si poggiò sui bordi plastificati della
mia, una scossa
elettrica mi attraversò come se mi avessero appena gettato
dentro un paio di
cavi scoperti dell’alta tensione. Fu una sensazione cento
volte più bella di
quella provata con Sherlock, mille volte più intensa e
diecimila volte più
eccitante. John era così delicato, così premuroso
e gentile che mi sentii una
stupida ad averlo odiato e temuto per tutto quel tempo senza
riconoscere le sue
innate qualità.
Quando si staccò e mi posò di nuovo sul tavolo
senza gesti bruschi o smorfie
disgustate di alcun genere -quasi come fossi un bebè
bisognoso di cure e dolcezza-,
compresi chiaramente cosa avrei
dovuto fare, quale sarebbe dovuto essere il mio nuovo obiettivo da quel
momento
in avanti.
Avevo sempre, stupidamente, rivolto le mie attenzioni al coinquilino sbagliato.
“Ora che avete finito di amoreggiare, cosa ne diresti di
cominciare a farlo con
me?” Sherlock
esclamò, fingendosi
stizzito, con occhi pieni di aspettativa. John ghignò
furbamente e fece
spallucce, come se concedendogli la propria compagnia stesse compiendo
un enorme
sacrificio.
“Oh beh, una promessa è una promessa”
disse, con un gran sospiro. Sherlock non
aspettò ulteriormente e gli afferrò una mano,
impaziente, costringendolo a
seguirlo in camera loro, quella in cima alle scale che una volta era
appartenuta a John.
Li sentii ridere e udii John rimproverarlo, prima che la porta di
chiudesse con
un rumore fragoroso.
Non m’importava che fossero in quella stanza, insieme, a fare
ciò che sapevo avrebbero fatto,
ora che avevo
scoperto su chi davvero puntare in quell’improbabile coppia.
Dopo aver finalmente capito dove avessi sbagliato fino a quel momento,
quale
incredibile cantonata avessi preso innamorandomi –o credendomi cotta- di Sherlock, avrei
fatto seriamente di tutto, trovando
un modo per rimanere ancora a lungo in quell’appartamento,
fino a
quando sarei riuscita a conquistare finalmente l’uomo
perfetto per me.
John non sarebbe sfuggito, nossignore, non avrei mollato
l’impresa nemmeno se avessero
minacciato di tagliuzzarmi per fare di me qualche soprammobile eco-chic.
Questa volta, avrei
raggiunto il mio obiettivo senza tollerare ostacoli sul mio cammino.
Il gioco era cominciato.
***
Mrs. Hudson
s’intrufolò di
soppiatto nell’appartamento di Sherlock e John, incurante che
al suo squillante
“cucù!” non avesse ricevuto alcuna
risposta. Si guardò intorno, mentre
socchiudeva la porta insinuandosi nello spazio appena guadagnato e
richiudendola dietro di sé lentamente, per non fare rumore.
Non aveva tecnicamente il diritto
di
entrare lì dentro a piacimento, i due inquilini avevano
certo diritto alla
propria privacy, ma nessuna rassicurazione vocale
da parte di Sherlock sul fatto che non
sarebbero saltati in aria quel giorno, avrebbe potuto davvero
convincerla
come il constatarlo di persona. Sbirciò in salotto e
tirò un sospiro di
sollievo nel vederlo sgombro da qualunque macchinario infernale, con un
semplice giornale posato sulla poltrona e una tazza di tè
dimenticata sul
tavolino.
In cucina, per fortuna, fu felicissima di notare che il microscopio
fosse
ancora riposto nello scatolone all’angolo della stanza, che i
piatti fossero sul
lavello ad asciugare e che le uniche cose fuori posto fossero una
tanica di
latte vuota sul tavolo e qualche grossa briciola di biscotto sparsa per
il
piano sotto la credenza.
“Oh, bravi ragazzi” sussurrò per non
farsi sentire, ben conscia di dove i due
fossero –erano quasi esclusivamente
al piano di sopra negli ultimi tempi- e zampettando in salotto contando
sulle
sue babbucce antirumore, afferrando la tazza dimenticata per riporla
nel lavandino.
Pulì i frammenti di digestive dal
piano in marmo scuro accanto ai fornelli e, afferrando il sacco scuro
della
spazzatura, vi gettò dentro il panno sporco e la bottiglia
vuota di latte,
richiudendola col laccetto giallo.
“Bene bene bene” sussurrò, tra
sé e sé. “Se faccio in tempo riesco
anche a
beccare il camion dello smaltimento rifiuti”.
Uscì dall’appartamento di soppiatto e scese
velocemente le scale –o almeno
rapidamente quanto il suo fianco gli consentiva- e appena aperta la
porta che
dava sulla strada, come aveva predetto, si ritrovò davanti
il viso gentile di
uno degli addetti alla spazzatura. Gli porse il sacco con un sorriso e
l’altro
lo gettò nel grosso camion, ringraziando la donna e
lasciando che questa
gongolasse per la sua puntualità e il suo innato senso
civico.
Lo guardò poi allontanarsi, con la consapevolezza di aver
fatto del bene a
tutti, che Sherlock e John avrebbero certamente sorvolato sul fatto che
si
fosse introdotta in casa loro di soppiatto, quando avrebbero visto la
cucina linda
e pulita. Fosse mai che si dicesse che Mrs. Hudson lasciasse uno dei
suoi
appartamenti in uno stato meno che impeccabile.
Soddisfatta, senza poter udire le silenziose maledizioni di qualcuno
rinchiuso
in un sacco puzzolente d’immondizia, chiuse la porta dietro
di sé.