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Autore: Hazza_Styles_    03/02/2013    5 recensioni
Di me non ti dirò nulla. Sono una che ama le presentazioni.
-Antheas
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Fin dalla mia nascita, sono stata condannata all’ergastolo presso una vita infelice.
Non ho mai giocato con i bambini del mio asilo, non ho mai imparato filastrocche e giochi come la campana alle elementari, non sono mai andata ad una festa nel periodo delle medie, ed ora che ero alle superiori, le cose non erano cambiate affatto, se non peggiorate. A scuola ero definita quella cattiva o peggio ancora, una poco di buono, con la scritta in fronte a chiare lettere “Stammi lontano, sarei in grado di farti del male”. La mia espressione da dura nascondeva un volto costantemente triste. La vista di un mio sorriso si poteva definire leggenda, o un miraggio, perché il verbo sorridere non esisteva nel mio vocabolario, decisamente poco fornito. L’aria della dura mi riusciva bene, forse anche troppo, ma non so quanto sarei durata.
«Sei tu Sharkgirl?» mi disse un dodicenne che aveva l’aria del tipico tedesco biondo con gli occhi azzurri in cerca di guai.
«Dipende. Chi l’ha cerca?» dissi alzando un sopracciglio, e tenendo lo sguardo fisso sulla mazzetta di soldi che aveva in mano.
«Caspar, il figlio del sindaco. Avrei un lavoro “sporco” da far fare, e mi hanno parlato molto bene di questa Sharkgirl»
«Vai a casa dalla mamma, lattante. Sharkgirl non lavora per i marmocchi»
«Ma io sono il figlio del sindaco!» ribatté alzando lievemente la voce, che subito affievolì al mio sguardo truce.
«Per me potresti essere il figlio del cancelliere, non m’importa. Ora levati, devo andare in classe» e mi feci spazio tra quel gruppo di ragazzini per passare, spingendoli con noncuranza.
«Ah si, mi sono dimenticato di dirti che pago profumatamente» disse alzando leggermente la voce per farsi sentire da me.
Mi fermai di colpo, e con calma feci retromarcia.
Lo presi per il gomito e lo trascinai dentro al bagno dei disabili, dove nessuno entrava mai.
«Se è una presa in giro, non sai di cosa sarei capace moccioso. Insomma, parla, di cosa si tratta?»
«Fare uno scherzo al professor Gerwig, mi ha messo un brutto voto nell’ultimo compito in classe»
«E questo tu lo chiami lavoro sporco? Un banale scherzo al professore che ti ha messo il brutto voto. Come mai non sei corso a piangere da papi?»
«Ci stai?» disse con tono speranzoso, ed incapace di rispondere alle mie prese in giro per paura della mia reazione.
«Quanto sganci?»
«Venti»
Scossi la testa.
«Trenta»
Scossi di nuovo la testa.
«Cinquanta»
«Ragazzino, non ci siamo proprio, no, no» e lo guardai torvo, minacciandolo.
«Settantacinque, sono tutti quelli che ho» e mi consegnò la mazzetta che avevo notato prima.
«Ora si che c’intendiamo» e afferrai quei soldi uscendo da quel bagno dall’odore nauseante.
Mi accorsi che quel bambino mi aveva inseguito.
«Che vuoi ancora?» li ribadii con tono stufato.
«Non mi hai detto niente su cosa farai»
«Stasera, il resto particolari» e sbuffando mi liberai finalmente di quell’assillante e ridicolo essere.
L’ora di tedesco la dedicai interamente a pensare a cosa fare quella sera. Un semplice scherzo sarebbe bastato per quel lavoro.
Il professor Hugdietrich interruppe i miei pensieri.
«Signorina Kurgev, risponda lei a questa domanda?»
«Senta, ho altro da fare, non mi rompa»
«Vuole farsi bocciare anche quest’anno signorina? Non le è bastato l’anno scorso?»
«Alzando la voce pensa di farmi paura? Tutti i professori hanno ormai perso la speranza con me, come mai lei ancora insiste? Mi lasci in pace e non sprechi il suo tempo»
«Antheas Kurgev, lei ha grandissime potenzialità; se solo le usasse e non continuasse a rispondere male e finire un giorno si ed uno no in presidenza»
«È colpa mia se il preside ha così tanta voglia di vedermi?»
«Non scherzi signorina Kurgev»
«Mi chiami solamente Antheas, Kurgev è mio padre. Ora prosegui pure con la sua lezione, ed io me ne starò qui zitta. Cosa vuole di più?»
Si zittì e poi proseguì con la lezione. Anche lui tra qualche giorno avrebbe smesso, me lo sentivo. Ed ora avevo anche in mente cosa fare stasera.
Ritornai a casa, stremata, ed lanciai con indelicatezza la borsa con quel libro malridotto, il più piccolo tra tutti ed anche il meno pesante, e l’unico che portavo a scuola. Mio padre mi accolse con un viso lungo, stanco e quasi disperato. Mi squadrò dalla testa e i piedi, e tirò fuori dalla sua tasca una paglia. Mi aveva beccato, aveva frugato nella mia roba.
«Ho trovato questa nel tuo armadietto. È tua?»
«Buon Pomeriggio anche a te vecchio»
«Rispondi Antheas. È tua?»
«Si è mia. Ma è solo una paglia, non ne fare una tragedia»
«Non ne fare una tragedia? Non ne fare una tragedia dici?! Stai fumando, ed a mia insaputa inoltre. E chissà cos’altro ancora..»
«Si, sto fumando. E allora? Me lo impedirai? Sai come andrà a finire»
«Ti stai rovinando Antheas, ogni giorno di più. Tua madre..»
«Mia madre cosa?! Ogni volta che succede qualcosa la metti in mezzo, smettila! È morta, non è più qui» gridai quelle parole, e scandii bene l’ultima frase.
Sei mesi fa mia madre era “deceduta”, dicono i medici, ma in realtà è stato suicidio volontario causa una crisi depressiva di cui soffriva da anni ormai. I medici non pensavano che dopo tanto tempo lei potesse arrivare al suicidio, ed invece l’ha fatto, e mi ha abbandonato, qui, con mio padre. Quest’ultimo ha perso il lavoro, e quindi anche la casa in cui abitavamo. Siamo stati costretti a vivere in un lurido e piccolo appartamento, e quando la situazione è peggiorata, ci siamo trasferiti in un motel. Mio padre aveva chiesto aiuto alla mia ricca nonna, ma lei non ci avrebbe aiutato se prima non si fosse trovato un’altra moglie. Dopo settimane, ci rinunciammo. Il mio comportamento era anche dovuto alla scomparsa di mia madre, ma non lo facevo vedere, e recitare mi riusciva molto bene.
«Tua madre non sarà qui in questo momento, ma ci sono io»
«È una paglia, vecchio»
«Ti ho già detto di non chiamarmi in quel modo, non lo sopporto»
«Intendi vecchio? Ok Hänsel»
«Da quanto fumi?»
L’interrogatorio era cominciato, quindi dovevo essere pronta a rispondere a tutto.
«Tre mesi, non molto»
«Ma sentila questa qua, non molto?! Quante ne hai fumate?»
«Sulla ventina di pacchetti, non di più»
«Sei in punizione per il resto della tua vita»
«Come se non lo fossi già» dissi con una smorfia.
«Sei in punizione, e su questo non si discute»
«Ok. Ora esco» dissi alzandomi dalla sedia e dirigendomi verso l’uscita.
«Che cosa?!»
«Hänsel, non fare il polemico. Ci vediamo domani mattina»
«Dove dormi?»
«A casa di un’amica» menti ed uscii da quell’odioso motel.
Si fece sera, e nella borsa di plastica che portavo nella mia mano sinistra avevo tutto l’occorrente per lo scherzo: mi sarei limitata a far suonare l’allarme di casa sua, e creare un po’ di confusione.
Mezzanotte meno venti: era il momento perfetto.
Scavalcai quella recinzione da quattro soldi con un solo balzo, e feci attenzione alla borsa. Infiltrami in casa sua scassinando l’apertura della porta era una passeggiata, ma tralasciai in piccolo particolare. Non avevo la benché minima idea che quell’uomo potesse tenere in casa dei cani da guardia. Mi videro, e cominciarono ad abbaiare forte. Tirai fuori il mio coltellino svizzero, non per fargli del male, ma solo intimorirli un po’; nonostante questo continuarono ad abbaiare. Le luci di una stanza si accesero, e tentai la fuga inutilmente, per colpa di quei cani che m’istruivano il passaggio.
«Bastardi, levatevi da qui» li gridai contro. Sentii in lontananza il suono della sirena della polizia.
Decisi di non muovermi da lì, di consegnarmi personalmente. Il signor Gerwig uscì da casa sua in vestaglia, e squadrandomi bene, capì chi ero.
Mi guardò bieco, e trassi un filo di delusione dal suo volto.
La polizia raggiunse la casa, e non si stupì vedendomi. Fece per parlare, ma lo interruppi.
«Violazione di proprietà, disturbo alla quiete pubblica e tentato infiltramento in una proprietà vietata. Lo so. Cosa volete fare? Portarmi al carcere minorile di Berlino?»
I poliziotti mi guardarono, e poi rivolsero lo sguardo verso quell’uomo stanco, che scosse la testa. Mi trascinarono di peso verso la macchina.
«Per questa volta chiuderemo un occhio. Dov’è casa tua?»
Li dissi sbuffando la via del motel, e mi accompagnarono fino alla porta.
«Guarda che non ho due anni, non c’è bisogno che m’accompagnate alla porta»
Suonarono, ignorando le mie parole. Aprì mio padre, che sgranò gli occhi vedendomi a quell’ora accompagnata dalla polizia. Si strofinò gli occhi, pensando che fosse solo frutto della mia immaginazione, ma non fu così.
«È lei i signor.. Hänsel Kurgev?»
«Si»
«Bene. Abbiamo ritrovato sua figlia davanti alla casa del signor Gerwig. Ha scassinato la porta, ed era intenta ad entrare all’interno della proprietà»
«Cosa?!? Sta scherzando vero?!» il viso incredulo di mio padre, senza parole.
«Vecchio, digli di lasciarmi in pace. E poi non ho fatto niente di male, nemmeno avessi scassinato una cassaforte»
«La scusiamo per il disturbo. Arrivederla» e finalmente se ne andarono.
Mi accomodai nella sedia, e mi stiracchiai.
«Hai intenzione di farmi diventare pazzo. Dillo»
«Non voglio discutere Hänsel»
«Io non so più cosa fare con te. Comportandoti così peggiori sempre di più la situazione. Rischi di finire all’assistenza sociale, e trovare un’altra famiglia perché io non ti so educare, ecco cosa penserà la gente. Vuoi che pensano questo di noi? Io non voglio perderti, non voglio»
Mi avvicinai a lui, piano piano.
«Hänsel sei stanco. Vai a dormire; forse ne riparleremo domani» e se ne andò, ancora incredulo della faccenda appena accaduta.
Non mi pentivo di quello che avevo fatto. Andai a lavarmi il viso, per poi prepararmi a dormire.
In quel minuscolo specchio vidi una persona che odiavo tanto: me stessa. Non mi ero mai piaciuta con quei capelli mossi biondi, gli occhi grigi, le lentiggini, alta, magra, e un gusto nel vestire orribile, ma era una mia scelta. Un tatuaggio nella parte destra del collo: l’iniziale del nome di mia madre, la N, di Neele . Da giorni meditavo a come sarei stata con i rasta, o con un piercing sulla lingua, ma erano solo particolari. Odiavo quell’immagine nello specchio.
Scacciai tutti quei pensieri, e dormii, ancora con i vestiti addosso.
  
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