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Autore: Yssis    03/02/2013    16 recensioni
Nell'anime abbiamo assistito a una morte.
Una morte di cui ci hanno colpito la velocità e l'impatto.
Io ho deciso di complicare un po' le cose, ambientando l'omicidio nella società a cavallo fra il Duecento e il Trecento.
E proprio sulle rime del Poema dantesco, più precisamente del canto XXXIII - Inferno, ho scritto questa shot.
**
(…) Così, li osservai coricarsi, preparandosi al sonno.
Erano terribilmente magri e il biancore della loro pelle era spettrale.
I loro occhi erano spenti, non un’emozione trapelava da quelle cavità ormai trasparenti.
Non vedevano mai la luce, e il loro aspetto ne risentiva parecchio.
Il cibo mancava ormai da qualche giorno, e soprattutto i più piccoli si addormentavano con una mano sulla pancia, forse cercando di placare i morsi della fame.
Durante la notte, si abbracciavano forte, stretti sotto quella mantella rossa che li illudeva di possedere una coperta da cui ricavare un minimo di calore.
Io non dormivo nemmeno più: stavo a guardarli, vegliando sui loro corpi, e pregando che il mattino dopo si svegliassero ancora. (…)
**
A tutti voi che leggerete e mi lascerete un commento: grazie.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Afuro Terumi/Byron Love, Caleb/Akio, Jude/Yuuto, Kageyama Reiji, Paolo Bianchi/Fideo Ardena
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie '~ Universi paralleli ~'
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Salve a tutti.
Ho deciso di dire due paroline qui, prima di iniziare la lettura.
Devo ringraziare le mie amiche mi hanno sostenuto, incoraggiato e sopportato
nella lunga e difficile stesura di questa storia.
Grazie ragazze, questa fanfic è dedicata a voi; ve lo siete meritato! ^^”
Bene, concludo questo minispace dicendo che è stata una della storie più difficili e tristi che abbia mai scritto, ma lascio a voi l'arduo compito di commentare.
A tutti voi che leggerete e recensirete questo mio lavoro.

Buona lettura.

Non ti conosco, ma dalla tua faccia direi che sei un tipo esperto, in gamba.
Quindi conoscerai senz’altro la mia storia.
Quello che sicuramente non sai è come vissi i miei ultimi giorni.
Quindi ti racconterò come sono andati veramente i fatti, e poi toccherà a te commentare.

Volevano uccidermi.
Avevano mille modi per riuscirci.
Hanno usato quello peggiore.
Che non è stata la morte dalla fame.
I morsi nello stomaco erano niente paragonati a quelli nel cuore.
Ma forse, raccontandoti cosa è successo, potrai capire meglio come mi sento...

(...)

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.

Eravamo in una stanza.
Piccola, squallida e scura.
Solo un flebile velo di luce opaco traspariva da una sottile apertura nel muro.
Già da molto tempo osservavo il cielo farsi scuro per poi rischiarirsi, per far iniziare un nuovo giorno.
Lì invece, chiusi in quello spazio ristretto e buio, il tempo non sembrava scorrere.
Ed ecco, una notte feci un sogno.
Un sogno terribilmente spaventoso e oscuro.
Un sogno che mi rese irrequieto più di quanto non fossi già.
Un sogno mortale che purtroppo non risparmiò neanche i miei figli.
Il nostro destino era segnato, ma ce ne rendemmo conto solo qualche ora più tardi...

(...)

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.

(...)

Mi svegliai, rabbrividendo.
Il sole non era ancora sorto, e intorno a me c'era solo il buio.
Quel buio freddo e spaventoso che non vorresti mai vedere.
Sospirai e chiusi nuovamente gli occhi, tentando di riprendere sonno.
In quel momento li sentii.
Erano semplici sussurri, ma mi gelarono il sangue nelle vene.
I quattro ragazzi piangevano nel sonno e chiedevano del pane.
Pane che non ero in grado di dare loro.
A guardarli, sentii gli occhi inumidirsi.
Il mio figlio più grande aveva sentito durante la notte il fratello tremare dal freddo, perché erano uno abbracciato all'altro, stretti in quella mantella rossa che un tempo dava al maggiore un'aria di importanza e supremazia, e che adesso invece pareva solo uno straccio sbiadito e rovinato.
I due più giovani erano invece appoggiati sulla parete, con i volti pallidi cadenti sulle spalle e si stringevano forte la mano.
Uno spiffero gelido passò dall'apertura e mi sentii gelare le ossa.
Il sole stava per sorgere ma dentro di me temevo l'inizio di quel nuovo giorno.

Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;

I raggi del sole ormai alto picchiarono violentemente sui loro visi spenti, obbligando i miei figli ad alzarsi.
Vidi Fidio levarsi per primo e con un colpo improvviso svegliare il fratello, che dopo essersi ripreso dallo spavento tirò via la mantella dalle gambe del castano che le trasse subito indietro. Sorridendo per la vendetta ottenuta, Kidou si alzò in piedi e seguì il fratello che si stava avvicinando silenziosamente agli altri due bambini.
Io li guardavo senza dir nulla, contento in fondo che avessero ancora la voglia di divertirsi, e non fossero già completamente disperati.
Come al solito ci volle del tempo per svegliare Fudou; quello aveva un sonno pesante e né la fame né il freddo lo potevano disturbare.
Kidou però trovava sempre il modo per obbligarlo ad aprire gli occhi.
L'altro più piccolo non era da meno: Fidio faticò molto per svegliarlo, e come spesso accadeva, il biondino destatosi si arrabbiò molto e, deciso a punire il ragazzo, cominciò a rincorrerlo per la stanzina.
In quel momento intervenni io, sollevando Afuro per la vita e salvando Fidio dalla sua furia, almeno per quel giorno.
Si misero tutti a ridere, mentre io partecipavo al gioco sgridando con voce in falsetto il biondino, che faceva i capricci.
Era un coretto che facevamo spesso; era un modo per distrarsi, credo.
So che, in quei momenti, udendo le loro risa, sentivo l'animo farsi più leggero.
Ma quel giorno i sorrisi erano più tirati.
Me ne accorsi subito e nei loro occhi trovai le stesse immagini di terrore che avevo sognato quella notte.

e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: ``Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Un rumore metallico ci immobilizzò tutti.
Come statuine di ghiaccio rimanemmo immobili, sperando ognuno in cuor suo di aver sognato.
La verità la sapevamo tutti.
Guardai, senza riuscire a parlare, in viso i ragazzi: i loro volti erano più spenti e rabbuiati, come se il freddo della morte avesse già lasciato le sue cicatrici permanenti.
Gli occhi erano scuri, persino quelli di Fudou, e lucidi.
Piccole lacrime mi caddero poco distanti dai piedi, e in quel silenzio terribile risuonarono come cristalli che cadono per terra, frantumandosi.
La piccola figura di Afuro mi si parò davanti mentre io non riuscivo a parlare.
Sentivo la gola chiusa in un nodo; se non fosse stato per il piccolino probabilmente sarei soffocato.
Mi guardava con i suoi grandi occhi cremisi, dolci e innocenti…
Non so se, in quel momento, chiedendomi cosa mi stesse succedendo, fosse consapevole del significato del rumore che avevamo sentito qualche minuto prima.
So solamente che accarezzai quei capelli biondi come il grano, l’unica mia luce.
Il bambino mi avvicinò allora le mani al viso, e quel contatto mi impedì di versare lacrime.
Non potevo farmi vedere scoraggiato, non da loro.
Perché solo loro ne avrebbero pagato le conseguenze.
Per questo stetti muto, senza dire nulla che potesse spaventarli ancora di più.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

Restammo per qualche giorno in completo silenzio, a guardarci.
Anche i due bambini più piccoli non riuscirono nemmeno a giocare a rincorrersi al mattino.
Fidio provò una sera tarda ad avvicinarmi, ma il fratello lo fermò.
Si fidavano di me, lo lessi nei loro occhi.
Ma Kidou aveva capito che qualunque cosa avessi detto, la realtà non sarebbe cambiata.
Così li osservai coricarsi, preparandosi al sonno.
Erano terribilmente magri e il biancore della loro pelle era spettrale.
I loro occhi erano spenti, non un’emozione trapelava da quelle cavità ormai trasparenti.
Non vedevano mai la luce, e il loro aspetto ne risentiva parecchio.
Il cibo mancava ormai da qualche giorno, e soprattutto i più piccoli si addormentavano con una mano sulla pancia, forse cercando di placare i morsi della fame.
Durante la notte si abbracciavano forte, stretti sotto quella mantella rossa che li illudeva di possedere una coperta da cui ricavare un minimo di calore.
Io non dormivo nemmeno più: stavo a guardarli, vegliando sui loro corpi e pregando che il mattino dopo si svegliassero ancora.

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

e disser: ``Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".

I giorni cupi e spenti ci rendevano sempre più silenziosi e spaventati.
Ormai non si lamentavano neanche più, quei ragazzi.
Stavano zitti a guardasi fra loro, come aspettando la morte.
Ormai non c’era altro da fare, e nessuno sperava in qualche miracolo.
In fondo erano cresciuti senza fare affidamento su nessuno; “Potete contare solo su voi stessi” ripetevo spesso.
Tutti e quattro si erano resi conto, in quei giorni di lenta e straziante agonia, che nessuno sarebbe potuto venire a salvarci e noi, chiusi dentro, non potevamo fare altro che aspettare… E aspettare…
La noia e la paura agitavano le nostre menti e i nostri cuori a tal punto che neanche il dialogo poteva dare conforto.
Ad un certo punto – che fosse sera o giorno non ricordo bene – la rabbia si impossessò di me, e non riuscii a trattenermi.
Mi morsi le mani, fredde e scarne, e ne provai disgusto.
Non le riconoscevo mie: sembravano quelle di un morto.
Ma in fondo non eravamo destinati a quello?
A morire in quella torre, e i nostri corpi, gelidi e immobili, si sarebbero trasformati in polvere, volando finalmente via da quell’inferno.
E così rimasi a osservare le mani di un uomo più morto che vivo, perso in profonde e insulse riflessioni.
I ragazzi intanto avevano osservato tutta la scena.
Non lo notai, preso com’ero dall’osservarmi le mani, ma la loro attenzione si focalizzò solo su quel mio movimento, su quel mio sfogo.
E quelli, teneri nella loro disperata ignoranza, mi si avvicinarono, porgendomi le mani.
Li notai con la coda nell’occhio quando ormai erano a pochi centimetri dalla mia persona.
Nei loro occhi trovai un’esasperata determinazione.
I loro occhi brillavano di follia.

Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?

Mi chiesero di mangiare i loro corpi.
Così come tempo addietro li avevo fatti, così adesso potevo disfarli.
Questo mi dissero, con le loro voci flebili come sussurri.
Questo mi dissero, con i loro occhi orgogliosi e pieni di paura.
Questo mi dissero, con i loro visi sporchi e segnati dalla morte.
Questo mi dissero, con le loro piccole mani tese verso il mio viso pallido.
Tenni lo sguardo subito sul pavimento, mentre quelli mi guardavano.
Neanche loro avevano capito realmente cosa fosse accaduto in quei pochi minuti.
O forse erano ore? Giorni interi?
Tutto può essere: murati vivi, il tempo sembra scorrere a suo piacimento.
Presi in braccio il bambino biondo, che subito scoppiò a piangere sulla mia spalla.
Con l’altra mano, trascinai Fidio in un angolo della stanza, dove ci sedemmo tutti.
Il piccolo Afuro continuò a piangere per molto tempo.
Kidou… Lui faticò molto solo per muovere qualche passo.
La mia attenzione fu solo per lui, nei giorni che passarono.
Ogni notte, sentivo i suoi battiti farsi sempre più deboli e distanti…

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: ``Padre mio, ché non m'aiuti?".

Successe una notte.
Una notte buia, con un cielo senza stelle né luna.
Una notte gelida, capace di gelare i campi e il cuore.
Una notte di tempesta, un rumore fracassante che rompe specchi e anima.
Fudou come al solito si era addormentato distante dagli altri fratelli, e tremava.
Ormai ci avevo rinunciato a parlargli: conoscevo quel ragazzo e sapevo che non avrebbe cambiato atteggiamento.
Nonostante questo come tutte le notti lo presi in braccio, stendendolo vicino a Fidio, in modo che potesse ricevere un po’ di calore dal mantello che usavano come coperta.
Al fianco del castano dormiva tranquillo Afuro, tutto raggomitolato su se stesso.
Gli passai una mano sul volto scarno, una svogliata carezza, e stupito notai che non era poi così freddo.
Kidou invece mi spaventò.
Era fra tutti quello con il colorito più cadaverico, i capelli erano diventati crespi e grigi, gli occhi cremisi spalancati in un urlo di terrore congelato sul nascere.
Mi accovacciai subito su di lui, abbracciandolo, senza sapere realmente che fare.
Quello non si mosse, mentre mi fissava con occhi vuoti e morti.
Iniziò a boccheggiare in modo spaventoso; sembrava stesse annegando.
Protese le mani verso di me, chiedendo aiuto.
In quell’istante un timido raggio della luna chiara gli illuminò gli occhi che sembrarono riprendere vitalità; ma fu solo un secondo.
Poi cascò in avanti, come una marionetta a cui vengono tagliati i fili, e mi si accasciò accanto, mentre io lo guardavo, incapace di emettere un qualsiasi suono.
Fuori dalla finestra un tuono ruppe il silenzio.
Ma io non sentii nulla.
Mi lanciai solo verso il ragazzo al mio fianco, sussurrando il suo nome lentamente, quasi volessi svegliarlo.
Non si sarebbe più svegliato, no.
Guardai i suoi occhi che erano rimasti spalancati, in cui era rimasto inciso per sempre un dolore straziante e una paura folle.
Preso dalla disperazione cominciai a scrollare il corpo inerte del ragazzo, con forza brutale e spaventosa.
Era come se avessi sentito una lancia trapassarmi il ventre: e la ferita non si sarebbe mai più richiusa.
Kidou.. Il mio Kidou era lì, gelido e immobile; sul suo viso ormai latteo impressi con forza uno schiaffo che risuonò nella stanza.
Non sentivo neanche più la pioggia e i tuoni; tutto sembrava si fosse immobilizzato per farmi soffrire ancora di più.
Non sentivo i respiri dei ragazzi ma poco mi importava, in quel momento.
Rimasi per un tempo non quantificabile a guardare quel corpo.
La mente svuotata, gli occhi solo su Kidou.
Mi aveva chiesto aiuto… E io lo avevo lasciato cadere, così, senza fare niente.
Credo che neanche io respirassi in quel momento: non sentivo nulla, neanche la fame.
Delicatamente raccolsi il corpo di mio figlio da terra e con passi lenti mi diressi verso una parete.
Mentre camminavo gli parlai, dolcemente, come si parla a un bambino che si sta addormentando.
-Dormi bene Kidou. Vedrai che da domani andrà di nuovo tutto bene… Potrai uscire da qui, e tornerai a casa. Prima di tutto mangerai qualcosa, ti laverai, dormirai nel tuo letto e tutto tornerà normale… Potrai comperare un nuovo mantello, quello che ti piaceva tanto… Tornerai a scuola e rincontrerai tutti i tuoi amici… Vedrai, da domani tornerà tutto alla normalità. Sorriderai di nuovo e saremo una famiglia, come una volta… Adesso vai, ragazzo; i tuoi fratelli ti raggiungeranno presto… E non temere per me, me la saprò cavare. Tu prenditi cura di loro come hai sempre fatto, e sappi che sono fiero di essere stato padre di un ragazzo come te. Mi hai reso orgoglioso come nessun altro. Adesso dormi…-
Appoggiai il corpo al muro, delicatamente.
Respirando piano, allentai sempre più la presa sulla sua mano… Finché non ricadde sui fianchi.
Il contatto si interruppe, troppo brusco per sembrarmi normale.
Strinsi forte i pugni, allontanandomi dalla figura contro il muro.
Mi avvicinai stancamente alla fessura poco distante.
Traspariva una luce flebile e spaventosa, che mi fece battere forte il cuore.
Osservando dalla finestra, notai che pioveva ancora, e forte.
Scattai in avanti, urlando con forza il nome di Kidou: in quel momento, scoppiò un fulmine.
Il suo rumore bombardante sovrastò il mio urlo, che si spense nell’oscurità della notte.
Intanto, con un sorriso beffardo, la luna stava a guardare, lontana e bellissima…   
Aveva assistito ad un vero scempio: la morte di un ragazzo innocente, un fiore appassito prima ancora di sbocciare.
Sentii delle gocce bagnarmi il viso, ma non seppi mai distinguerle dalla pioggia…
Una morte lenta e inesorabile ci aspettava tutti, come pioggia che cade dal cielo.

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

Con la morte di mio figlio un velo scuro ricoprì anche i miei occhi, oscurandoli completamente.
Così, non riuscii neanche a vedere l’alba.
Le tenebre erano le padrone e il silenzio mi fracassava le orecchie più del rumore delle urla.
Li sentii svegliare, i miei bambini, dopo qualche tempo.
Stavo dalla finestra, cercando di scorgere qualche raggio di sole, e sentii i loro lamenti.
Si stringevano fra di loro, angosciati dalla sofferenza comune.
Non riuscivo a distinguere le parole; sembrava il pianto di un bambino, soffocato dalla morsa della disperazione.
Mi misi a cercarli, spaventato.
Avvertii Afuro vicino a me, lo sollevai.
Piangeva dal dolore.
Piangeva dalla fame.
Lo strinsi a me, finché non udii il suo ultimo sospiro.
Sentii il cuore congelare, mentre Terumi mi moriva tra le braccia, e Fidio mi stringeva alle gambe, senza più forze per chiamarmi.
Fudou cadde poco dopo; trovai il suo corpo di fianco a quello di Kidou, appoggiati al muro. Forse si tenevano per mano...
La pazzia si impossessò di me: continuavo a chiamarli, invocando i loro nomi, invano.
I miei figli erano morti tutti fra le mie braccia, e non una volta avevo fatto qualcosa per aiutarli…
Non rivolsi mai una parola di conforto a nessuno; parlai a loro solo quando ormai non potevano più sentirmi.
Desideravo la morte, perché il dolore che provavo era immenso e insopportabile.
La testa batteva, gli occhi scrutavano nel buio della stanza, mentre con voce soffocata ancora mi ostinavo a chiamarli.
Urlai finché abbi forza.
Poi, strisciando, arrivai alla fessura.
La pioggia batteva violenta, ma intorno a me c’era pace.
Respirai profondamente, e mentre i miei occhi si chiudevano per l’ultima volta, mi parve di scorgere la luna sorridere beffarda… 
Lei, solo lei, è stata testimone di quello che è successo veramente ma non ci ha mai confortati; solo a sorridere, è capace... La luna.

(...)

Che se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.

Non sono mai stato un uomo di parola.
Ho commesso i miei sbagli.
E quindi la pena che mi è stata assegnata è giusta.
Me lo sono meritato.
Ma loro...
Perché?! Perché loro?!
Che colpa avrebbero avuto?!
Sono solo nati nella mia casa, hanno solo ascoltato e imparato dal mio comportamento, dalla mia persona.
Sono solo i miei figli... i miei bambini.
Non hanno fatto niente per morire in quel modo terribile...!
Io non nego di essermi meritato la tragica fine che mi è toccata, ma odierò in eterno chi ha condannato con me quei giovani innocenti.
Perdonatemi figlioli, non volevo arrivare a tanto…
Vivrò la mia punizione eterna ma non sarà il gelo, il dolore o il sangue a farmi dolere il cuore.
Sarà solo la consapevolezza di essere stato la causa della vostra morte.
Prima di scomparire nelle tenebre eterne voglio dirvi una cosa; ricordatelo, quando sarete nella luce pura e celestiale del paradiso.
Vi ho amato, dal primo momento che vi vidi, all’ultimo.
E vi amerò per sempre.

  
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