CLOSER
Era bello sentirsi
amata,
nei suoi occhi vedevi
il mare.
Silvia era in grado di scorgere il
mare negli occhi di
Davide: un colore chiaro, azzurro, che ogni tanto era capace di
incresparsi
come le onde, assumendo una sfumatura di un blu intenso. Le sue iridi
cambiavano
tonalità a seconda delle emozioni – o forse era
Silvia a vedere la felicità o
la tristezza dell’uomo riflettersi nell’azzurro
– rivelando confusione,
imbarazzo, allegria; aveva notato che, ogni volta che Ettore bussava
alla porta
dell’appartamento che i due avevano iniziato a condividere da
un anno, gli
occhi di Davide erano in grado di assumere un colore del tutto diverso.
- È amore! –
aveva esclamato una volta Manuel, sospirando.
Azzurri, blu, ricordavano il mare.
Silvia si chiese quale
sarebbe stata la sfumatura delle iridi di Davide quando gli avrebbe
annunciato
la notizia.
♫
Si erano conosciuti quasi sei anni
prima, quando Davide
aveva rimpiazzato Manuel al basso nel nuovo gruppo della sua migliore
amica,
Aurora, dopo che la rottura tra lei e il chitarrista Marco –
di cui proprio
Manuel aveva preso il posto – aveva portato allo scioglimento
della vecchia
formazione. A dire il vero, Silvia aveva notato Davide tra il pubblico
già
durante i concerti dei Moonlight Sonada, ma lui era troppo occupato a
fare in
modo di attirare le attenzioni delle ragazze più formose e
provocanti del
locale per riuscire a degnare anche solo di uno sguardo lei, una
ventenne
piccola ed esile che esibiva una chioma dal colore indefinito, che
andava dal
castano al rossiccio. Non appena Davide era entrato a far parte dei
Lilim,
Silvia aveva chiesto ad Aurora – lo
aveva
preteso – che li presentasse, accompagnandola
inoltre a ogni prova per
stare in compagnia del ragazzo. Davide, all’epoca
ventottenne, aveva la fama di
“compagno di una notte”, per cui Silvia aveva ben
poco da sperare; erano
diventati amici fin da subito, affibbiandosi i soprannomi di Peter Pan
– Silvia
– e Capitan Uncino – Davide. Sembrava fosse
impossibile che il ragazzo mettesse
la testa a posto e si innamorasse finalmente di qualcuno, tuttavia un
anno e
mezzo dopo era successo: erano diventati a tutti gli effetti una coppia.
Ora Silvia aveva quasi ventisette
anni, ma non si sentiva
ancora adulta.
Non
abbastanza.
Davide, dal canto suo, riusciva a
mietere ancora vittime ai
concerti o durante le uscite con Ettore, però non aveva
più avvicinato troppo
una ragazza da quando stava con Silvia.
Non che lei
sapesse.
Silvia scosse la testa, percorrendo
la strada che l’avrebbe
portata al loro appartamento, e si disse di smetterla, con certi
pensieri,
perché non le facevano bene. Davide la amava, ne era certa e
lui glielo aveva
dimostrato più volte, quindi era inutile preoccuparsi, sia
per quanto
riguardava le ragazze, sia…
Fece un respiro profondo,
preparandosi ad affrontarlo: la
sorpresa di vederla tornare prima dal lavoro – a cui non era
andata affatto –
non sarebbe stata niente a confronto con quello che aveva da dirgli.
Chissà come avrebbe
reagito: era questo a spaventarla
realmente, quasi più del contenuto del suo discorso. Lo
immaginava fissarla con
gli occhi spalancati, incredulo, la bocca aperta in
un’espressione “idiota”,
come Ettore l’aveva definita quando un tempo Davide avvistava
una ragazza
particolarmente procace; forse avrebbe balbettato, forse si sarebbe
chiuso in
un mutismo imbarazzante, forse le avrebbe chiesto di non farsi
più vedere. Silvia
non escludeva quest’ultima possibilità, nonostante
si rendesse conto di quanto
fosse inverosimile. E i suoi occhi che colore avrebbe avuto? Davide
avrebbe
sorriso, mentre le lacrime si offuscavano per la tristezza
di…?
Non riuscì a completare la
frase, si disse ancora una volta
di non lasciarsi andare a riflessioni negative che non avrebbero
comunque
cambiato il corso degli eventi. Davide avrebbe reagito in un modo tutto
suo,
senza che lei potesse prevederlo; sperava solo che l’avrebbe
aiutata a decidere.
Infilò la chiave di casa
nella serratura e spinse la porta,
entrando nell’appartamento silenzioso; stava per chiamare
Davide con la voce
acuta per il nervosismo, quando si accorse che qualcosa non andava.
Fu un attimo: il suono di una risata
femminile, i piedi di
Silvia che la portarono immediatamente alla camera da letto e poi
vomito,
vomito nella gola. Si coprì la bocca con la mano,
impedendosi di urlare o
buttare tutto ciò che stava risalendo dallo stomaco sopra quei due.
Davide non
era affatto
cambiato.
Se non lo aveva fatto lui, Silvia
nemmeno poteva dire di
avere assunto nel tempo un carattere diverso. Si lanciò sul
corpo – si rifiutava di aggiungere
aggettivi –
della ragazza, facendo sussultare Davide, la afferrò e la
spinse fuori
dall’appartamento così com’era. Davide
cercò una scusa, una spiegazione, ma
bastò uno sguardo da parte di Silvia per costringerlo a
tacere.
- Da quanto? –
ringhiò: aveva sempre avuto un’ottima
memoria, le era bastato poco per riconoscere in quella sgualdrina
una fan dei Lilim da almeno tre mesi.
Davide inspirò
profondamente, cercando di evitare i suoi
occhi e passandosi imbarazzato una mano tra i capelli. La ragazza fuori
dalla
porta bussava insistentemente, reclamando a gran voce i propri vestiti
senza
rendersi conto di quanto si stesse rendendo ridicola.
- SE NON LA PIANTI, ESCO E TI STACCO
LA TESTA A MORSI,
PUTTANA! – gridò Silvia furiosa, per poi tornare a
guardare Davide. –
Bell’acquisto, complimenti. Allora, da
quanto? Due, tre settimane?
Davide inspirò di nuovo,
preparandosi alla risposta. – Due
mesi.
La ragazza si portò di
nuovo le mani alla bocca, capendo che
lui la stava tradendo anche allora.
Che dargli quella notizia non avrebbe significato niente, che lui non
aveva mai
voluto che tra loro potesse crearsi qualcosa di serio. O forse
sì, ma non in
quel momento, e questo a Silvia bastava.
Corse in camera e spalancò
la finestra, gettando in strada
tutto ciò che apparteneva a Davide: vestiti, libri, regali
che lui le aveva
fatto e che Silvia non voleva vedere mai più;
buttò via anche le foto, facendo
fracassare le cornici sull’asfalto. Aveva visto quella scena
in molti film,
disprezzandone ogni volta la banalità, ma ora capiva il
significato di quel
gesto: era liberatorio, era il modo migliore per sbarazzarsi di Davide
senza
affondargli un coltello nel petto.
E Davide era lì, in piedi
sulla soglia con solo un paio di
jeans addosso, e la lasciava fare, pavido come era sempre stato. Quando
Silvia
afferrò anche il suo basso Ibanez, però, si
lanciò su di lei, cercando di strapparglielo
dalle mani; solo in quel momento Silvia parve ricordarsi della sua
presenza e
lo spinse fuori dalla casa, proprio come aveva fatto con la sua amante.
Nessuna resistenza: Davide sapeva che
lei era nel giusto,
che non potevano più vivere insieme da quel momento.
- Sparisci! –
urlò per l’ultima volta Silvia, sbattendo la
porta e lasciandosi scivolare a terra, il volto bagnato affondato nelle
mani.
♫
Da quando aveva risposto alla
chiamata, Manuel era rimasto
con la testa fra le nuvole per il resto della giornata, punzecchiando
distrattamente la Gibson nel tentativo di riflettere meglio.
Non era certo la persona
più affidabile del mondo e
raramente si preoccupava dei sentimenti di persone che non fossero
Marco o
Heather; tuttavia la voce rotta dal pianto con cui Silvia aveva parlato
al
telefono lo aveva spinto a cercare di tranquillizzarla, nonostante lei
si
rifiutasse di dire cosa non andasse.
- So-sono al
lav-lavoro… - aveva singhiozzato. – Ci sono
do-dovuta andare, ho p-preso troppi
giorni queste ultime s-settimane…
- Eri a casa?
La domanda
di Manuel
era sorta spontanea: aveva chiamato diverse volte in quelle due
settimane per
chiedere dove fosse finito Davide, che non si era più
presentato alle prove, ed
era passato anche un paio di volte al loro appartamento, ma in nessuno
dei casi
aveva ricevuto risposta. Forse erano partiti, si era detto; per lui,
che aveva
conosciuto Heather proprio durante una “fuga” negli
Stati Uniti, non avvertire
nessuno della vacanza non sembrava un’ipotesi assurda.
-
S-sì… Ti prego, ho
bisogno di pa-parlare con qualcuno, non ne po-posso
più…
- Il tuo
turno finisce
alle otto, vero? Ti vengo a prendere e ceniamo insieme da qualche parte.
Manuel controllò
l’orologio: era ora di andare. Salì in
macchina e percorse il breve tragitto da casa sua agli uffici in cui
lavorava
la sua amica, tamburellando sul volante in attesa mentre la radio
passava le
ultime canzoni del momento; inserì nello stereo
l’unico disco che i Lilim
avessero inciso, dopo anni di concerti nei locali di Roma.
Silvia entrò nella
macchina all’improvviso e il suo sguardo
triste al suono di quelle note spinse Manuel a spegnere lo stereo.
Aveva gli
occhi gonfi e doveva essersi tolta il trucco colato da ore,
probabilmente
quando lo aveva chiamato: la immaginava chiusa in un piccolo
ripostiglio, tra
fogli di carta e stampanti fuori uso, le gambe strette al petto mentre
digitava
insicura il suo numero.
L’abbracciò
immediatamente, cercando di trasmetterle il
calore necessario, ma Silvia era rigida e non sembrava riuscire a
parlare. Non
gli parve opportuno chiedere di Davide, immaginando che fosse lui la
causa del
suo dolore, per cui si limitò a proporle un ristorante
vicino casa sua che
conosceva molto bene.
Silvia annuì, mantenendo
un amaro e significativo silenzio.
Fortunatamente Manuel era provvisto
della capacità di
parlare in ogni momento e di qualsiasi cosa, riuscendo così
a non costringere
Silvia ad aprirsi per allentare la tensione; durante la cena lei
continuò a
rimanere in silenzio, ma dopo le prime portate riuscì a
spiccicare qualche
parola a bassa voce e con lo sguardo rivolto al piatto.
- Ho composto un nuovo pezzo, -
annunciò Manuel, - penso che
ad Aurora potrebbe piacere, è proprio il suo genere!
Ultimamente la sento poco,
Ettore deve sfiancarla, la capisco! Anche se ci sono volte in cui
lui…
- Mi sento sbagliata.
Manuel si interruppe, felice che
Silvia si fosse finalmente
decisa a introdurre il discorso.
- Non è vero che sei
sbagliata, - tentò di confortala,
sorridendole dolcemente.
- Invece io credo proprio di
sì. Non… non sono capace a fare
niente. Mi sono illusa per così tanto tempo che
lui… - Silvia si bloccò,
incapace di continuare.
- Silvia, - la esortò
Manuel, - cos’è successo?
Silvia fece un profondo respiro,
alzò gli occhi su Manuel e
poi distolse di nuovo lo sguardo, abbattuta.
- Sono incinta.
♫
- Silvia,
facciamo un
bambino.
La voce di Davide le rimbombava nella
testa da due
settimane, da quando aveva scoperto di essere incinta. E subito dopo di
essere
stata ripetutamente tradita.
Quando Davide aveva pronunciato
quelle parole, lei aveva
fatto una smorfia, credendo che la stesse prendendo in giro. Non
avrebbe mai
pensato, a mente lucida, di provare ad avere un bambino con lui
– non ora; tuttavia
stavano disfacendo con
foga il letto, avvinghiati l’uno all’altra, e a
Silvia era bastato dirsi che erano
grandi, che Davide ormai aveva trentatre anni, perché
rimandare? Aveva solo
dovuto ripetersi quelle parole e aveva lasciato che Davide non
prendesse
precauzioni per una volta.
Si era resa conto di quanto fosse
stata stupida a non
pensare all’opportunità di essere rimasta incinta
per un intero mese quando il
ciclo, semplicemente, non si era presentato. Un giorno di permesso, la
visita
dal ginecologo e sì, Silvia aspettava un bambino.
Tenerlo? Abortire? Se l’era
chiesto per tutto il tragitto
dall’ospedale a casa: Davide le aveva chiesto di fare un
figlio, ma
probabilmente era soltanto confuso dalla foga del momento, inoltre non
poteva
certo dirsi maturo per una responsabilità del genere. E
aveva dimostrato di non
esserlo affatto.
–
Due mesi.
Due mesi.
Quello
che faceva più male a Silvia era sapere che lui le aveva
detto quella frase
proprio nel periodo in cui la tradiva con un’altra.
Perché l’aveva fatto?
Aveva bisogno di parlare di quella
situazione con qualcuno,
ma non con Aurora, assorta nei preparativi per le nozze; aveva scelto
Manuel
perché sapeva di potersi fidare di lui, dopo che le sue dita
avevano scorso la
rubrica più volte: era l’unico tra i suoi amici
che potesse esserle accanto in
una situazione simile, l’unico di cui non fosse riuscita a
prevedere il
consiglio che avrebbe potuto darle.
Più del conforto, a Silvia
serviva proprio quello, un
consiglio.
- Sono incinta.
Manuel aveva spalancato gli occhi, la
bocca aperta e sul
volto l’espressione che lei aveva immaginato di trovare in
Davide. Avvertì una
fitta allo stomaco.
- Davide lo sa?
Aveva fatto il suo nome dopo
un’intera cena passata ad
evitare di pronunciarlo; forse aveva pensato che fosse la gravidanza il
problema, che lei non riuscisse a trovare la forza per dirglielo o non
fosse
pronta a tenere il bambino. Tutte ipotesi esatte, in effetti.
- L’ho trovato a letto con
un’altra, - si limitò a spiegare,
senza osservare la reazione di Manuel.
- Forse hai interpretato
male…
- Posso dirti anche quanti nei avesse
sul sedere quella
puttana. L’ho buttato fuori da casa, ma prima mi ha
confessato che si vedevano
da due mesi.
Manuel esitò prima di
farle una seconda domanda scomoda. –
Di quanto sei incinta?
- Un mese e mezzo, l’ho
scoperto due settimane fa, lo stesso
giorno in cui ho trovato quello stronzo che si faceva
un’altra -. Silvia rimase
qualche secondo in silenzio prima di parlare di nuovo. – Non
è cambiato per
niente.
- No, - la corresse Manuel, -
è diventato più bastardo di
prima.
♫
Non sapeva cosa dirle: Silvia aveva
bisogno di un consiglio,
era evidente, ma lui non lo aveva. Tutto ciò che gli veniva
in mente era
scovare Davide, dovunque fosse, e tentare di affogarlo in una piscina,
per poi
salvarlo e ucciderlo definitivamente con una pugnalata. Davide aveva
tradito,
anche a Manuel era capitato e quando Aurora era andata a letto con
Ettore, ai
danni di Marco, aveva inizialmente pensato di non poterla perdonare
– il suo
migliore amico aveva sofferto per mesi, il gruppo si era sciolto
– ma non aveva
mai desiderato di vedere una folgore abbattersi su di lei; Silvia,
invece,
aveva un’aria così spaventata da fargli provare
una rabbia indescrivibile nei
confronti di Davide. Certo, non sapeva di averla messa incinta, ma lei
era così
esile e indifesa… Doveva aiutarla, anche solo ascoltandola.
Poi si sarebbe
messo alla ricerca di quel bastardo.
- L’hai detto solo a me?
Silvia annuì, seduta nella
macchina di Manuel ancora
parcheggiata fuori dal ristorante.
- Forse dovresti parlarne ai tuoi.
- Non ne ho il coraggio. Forse
sarebbero stati felici per me
sapendomi ancora con Davide, ma in questa situazione… Come
posso andare da loro
e annunciare di aspettare un figlio che non avrà un padre?
Me li immagino già: mio
padre su tutte le furie e mia madre che mi guarda delusa! No, non ci
riuscirei…
- Prima o poi dovrai farlo.
- Forse no.
Manuel scoppiò a ridere
forzatamente. – Vuoi che lo scoprano
quando avrai una pancia enorme?
Silvia lo guardò, lui
sapeva quale pensiero la stesse
torturando da giorni, ma tentava di allontanarlo. Aveva sempre
immaginato il
momento in cui uno dei suoi migliori amici gli avrebbe annunciato di
aspettare
un figlio come un’esplosione di gioia e festeggiamenti: non
erano più dei
bambini, erano responsabili delle proprie vite e godevano di una
relativa
stabilità economica, non avrebbero potuto fare altro che
essere contenti
dell’arrivo di una nuova vita; tuttavia quella situazione gli
aveva mostrato
che non tutti i problemi si potevano superare con
l’età e un lavoro.
- Non so darti nessun consiglio, -
sospirò, premendo la
testa di Silvia contro la sua spalla. – Forse…
forse devi solo sentire se
davvero vuoi questo bambino.
- Non lo so, - mormorò
Silvia, mentre le lacrime
cominciavano a scorrerle sui solchi ormai visibili del viso.
– Ci penso tutte
le notti, ma non ho nessuna idea di come… di
come… Manuel, con che coraggio
potrei crescere il figlio di Davide? Io non sono così forte,
Aurora forse
l’avrebbe fatto, ma sapere che nella mia pancia
c’è qualcosa di suo…
Però è un bambino… Oddio, sono
così
sbagliata…
- Tu non sei niente del genere: sei
solo una ragazza
spaventata, e detesto dover dire certe frasi banali.
- Di recente ho scoperto che la
banalità ha i suoi motivi.
- L’ho appena capito
anch’io.
♫
- È un caso che siamo qui?
Non lo era, Silvia lo sapeva bene,
non serviva chiedere:
Manuel, senza pensarci, aveva guidato la macchina per diversi
chilometri prima
di fermarsi proprio là.
Il pensiero di Davide tra le braccia
di quella ragazza la
faceva soffrire immensamente; aveva stretto più volte le
palpebre quella notte,
costringendosi a dormire, ma non c’era riuscita.
Davide era
lì.
Lo vedeva sorridere nella sua mente,
quel sorriso
impertinente che le rivolgeva fin dai primi tempi; era bello, poteva
scompigliargli i capelli mossi e immaginare il suo sguardo contrariato,
poi la
mano che afferrava la sua e le regalava un bacio; lentamente le labbra
si
avvicinavano alle sue e Silvia si detestava perché sognava
che fosse ancora con
lei, ancora nella sua vita.
Aveva tentato di chiamarla solo
cinque volte in quelle due
settimane, forse non voleva essere un disturbo: preoccupazione inutile,
tanto
era sempre presente.
Si accarezzò la pancia
distrattamente, mentre la decisione
si faceva sempre più forte nella sua testa. Non era per
Davide che lo stava
facendo, era per lei.
Aprì la portiera, ma
Manuel le poggiò una mano sul braccio.
- Vuoi che ti accompagni?
Silvia rivolse un sorriso triste a
quello sguardo pieno di
sonno e preoccupazione. – Non serve.
L’ospedale era di nuovo
davanti ai suoi occhi, a distanza di
due settimane. La prima volta era andata lì per sapere se
avesse dovuto
prendere una decisione, ora ci si trovava perché
l’aveva presa.
Inspirò profondamente
– quante
volte l’aveva fatto in quei giorni? – e
scese dalla macchina, avvicinandosi
in silenzio mentre il sole illuminava gli infermieri del turno di notte
che,
assonnati, si incamminavano verso il parcheggio.
Lo stava
facendo
perché non era giusto tenere quel bambino.
Avvertiva lo sguardo di Manuel sulla
schiena, lo ringraziò
per quel sostegno che le stava dando. Si fermò davanti al
portone, prendendosi
qualche momento per riflettere un’ultima volta, anche se la
decisione era
presa.
Era presa, e allora perché
indugiava?
Alzò gli occhi al cielo,
li chiuse e cercò di ragionare: era
pronta, non doveva fare altro che attraversare quel portone; non sapeva
quanto
l’avrebbero fatta aspettare, ma sarebbe andato tutto bene.
Nessun problema.
Perché
indugiare?
Perché indugiare? Perché indugiare?
Perché abortire?
Spalancò gli occhi, lucida.
Davide non faceva più
parte della sua vita.
Ma lei era adulta, era ora di
prendere decisioni da sola.
Stava vivendo e agendo in funzione di lui.
Far nascere un bambino senza dargli
un padre… Era crudele,
forse, ma non era neanche un caso eccezionale; avrebbe potuto dargli
tutto,
avrebbe potuto…
Crescerlo.
♫
Manuel osservava la copertina del
disco dei Lilim,
riflettendo su tutto quello che ognuno di loro era quasi sei anni
prima, quando
si chiamavano Moonlight Sonada e Marco era ancora nel gruppo. Aurora
era appena
diventata la loro cantante e non riusciva a distogliere lo sguardo da
Ettore,
che forse era proprio il motivo per cui lei si trovava lì;
Simona tentava
ancora di riconquistate il suo ex fidanzato e Marco la sosteneva in
silenzio,
sperando che in quel modo avrebbe potuto avere Aurora tutta per
sé; c’era anche
Davide, il migliore amico del loro batterista, che si contornava di
belle
ragazze a ogni concerto e che la timida Silvia – Manuel se
n’era accorto subito
– osservava di nascosto, senza il coraggio di farsi avanti e
conoscerlo. Sei
anni dopo, Simona si era ormai rassegnata ed era Aurora quella che
stava per
sposare Ettore dopo la breve parentesi con Marco – parentesi
che non era
affatto tale, ma quando se ne fossero resi conto sarebbe stato ormai
troppo
tardi per entrambi. Sei anni dopo Manuel aveva Heather, la ragazza che
aveva
conosciuto a Brooklyn e di cui aveva perso la testa in sole tre
settimane
insieme. Sei anni dopo Silvia era finalmente riuscita a conquistare
Davide, ma
lui non era ancora cambiato. E l’aveva persa.
La malinconia lo colse
all’improvviso, generata da una notte
insonne e alimentata dall’empatia che provava per il dolore
di Marco e Silvia.
Non andava, non andava niente come sarebbe dovuto andare: Marco non
aspettava
trepidante il matrimonio con la donna della sua vita, Silvia non
esplodeva
dalla felicità tra le braccia di un Davide in lacrime.
Al contrario, era Manuel a piangere
in quel momento,
trasportato dall’affetto per quelle persone che stavano
soffrendo e per le
quali non poteva fare niente: gli era sempre piaciuto immaginarsi come
colui
che risolveva i problemi di tutti, invece era stato solo capace a
crearne
altri. Forse, se quella notte avesse dormito, non sarebbe stato
così triste e
si sarebbe perfino sentito un po’ stupido a piangere
per…
Mentre lo pensava rivolse lo sguardo
a Silvia, la vide ferma
sul portone dell’ospedale. Perché era ancora
lì? E poi Silvia si voltò.
Corse verso la macchina di Manuel,
una strana luce negli
occhi castani, come se avesse appena avuto una rivelazione;
aprì la portiera,
salì e disse solo: - Vai.
- Dove? – chiese Manuel,
disorientato. Anche se forse lo
sapeva, anche se forse lo aveva sempre saputo.
- Via, via, lontano, dove ti pare!
– rispose Silvia con un
enorme sorriso: era emozionata, euforica. Aveva
deciso.
Manuel mise in moto, asciugandosi le
lacrime con il dorso
della mano e sentendosi finalmente
uno stupido. – Ai suoi ordini! –
esclamò, allontanandosi più in fretta
possibile dall’ospedale, mentre Silvia accendeva la radio e
cominciava a
cantare, l’alba che appannava i vetri dell’auto.
Mentre
l’alba ci appanna i vetri,
tu sorridi a un amore
nuovo.
Sotto il sole ti
porto a casa
ed in macchina vuoi
cantare,
sei felice come una
sposa
perché
adesso lo sai, che fare,
perché
adesso ti senti amata
e dai tuoi occhi si
vede il mare.
♫
Silvia camminava lungo la strada che
attraversava il parco,
mentre i bambini accompagnati dalle madri giocavano e strillavano
intorno a
lei.
Silvia passeggiava con le mani nelle
tasche dei jeans,
passando accanto a una coppia di innamorati che si prendeva
scherzosamente in
giro.
Silvia avanzava in silenzio tra le
aiuole e i fiori in una
splendida giornata estiva, i raggi del sole che si facevano largo tra
le rade e
sottili nuvole.
Silvia camminava e non vedeva niente.
Se avesse osservato
gli alberi, non li avrebbe visti rigogliosi, ma con i rami colmi di
foglie
rosse, gialle e arancioni; nessuno gridava, nessuno si rincorreva e
nessuno si
dava teneri baci sulle labbra.
Istintivamente Silvia si
portò una mano sul ventre e
socchiuse gli occhi, immaginando di sentire battere il cuore del
bambino che
stava crescendo dentro di lei. O della bambina. In ogni caso, un
piccolo senza
padre.
Da quando aveva scoperto Davide con
un’altra, nel loro
letto, nella loro casa, era passato ormai un mese; non lo aveva cercato
né aveva
risposto alle sue ormai frequenti chiamate. Per due settimane aveva
vissuto
piangendo negli angoli più nascosti del proprio
appartamento, cercando di
dimenticare l’anno che aveva passato là dentro con
Davide, cercando di
dimenticare i suoi occhi azzurri, la sua risata contagiosa, il modo in
cui le
accarezzava i capelli. Cercando di dimenticare come l’avesse
tradita senza
pietà per due mesi, privo di qualunque motivazione.
Aveva pianto, si era disperata,
indecisa su cosa fare con il
bambino. Dopotutto sarebbe dovuto vivere con un solo genitore e lei non
aveva
che un lavoro da poco, non poteva permettersi di mantenerlo; dopo
innumerevoli
riflessioni aveva preso la decisione: tenerlo. Avrebbe lasciato
quell’appartamento preso con Davide, sarebbe tornata a vivere
con i suoi,
avrebbe fatto qualunque cosa, ma non voleva rinunciare al bambino.
Dopo avere preso la decisione,
davanti al portone
dell’ospedale, per qualche ora le cose sembrarono andare
meglio: si sentiva
euforica, credeva di avere ripreso in mano la propria vita e aveva
risposto al
primo messaggio che Aurora le aveva mandato – che cosa era
successo? Perché era
scomparsa anche lei? Solo ora che a Silvia cominciava a importare di
nuovo
qualcosa del resto del mondo si era resa conto che la sua migliore
amica non l’aveva
neanche cercata. Non era andata a trovarla, pensò,
all’improvviso colta da
un’inspiegabile tristezza.
O forse non era troppo inspiegabile.
Sorrideva nell’appartamento
vuoto di Roma, senza che nessuno
le corresse incontro innamorato o la chiamasse dalla camera per dirle
che
stavano trasmettendo Harry Potter;
finché aveva pianto c’erano state la rabbia e
quella tremenda indecisione sulla
nascita del bambino, ma ora che aveva scelto l’assenza di
Davide le era
piombata addosso, fredda come il metallo. Lui non c’era
durante la colazione,
per questo Silvia aveva cominciato a ordinare un cornetto al bar e in
seguito a
non mangiare per niente fino al pranzo; non c’era quando si
rientrava dopo il
lavoro, non c’era quando si raggomitolava nel letto
matrimoniale e poteva
stringere solo le coperte. Davide le mancava, le mancava maledettamente.
Rabbrividì, avvertendo un
freddo improvviso.
Poi qualcosa la scosse, la
riportò alla realtà. Una mano si
posò sulla sua spalla e una voce la chiamò, una
voce amica e allo stesso tempo
dolorosa, perché le ricordava lui.
- Silvia?
Le voci dei passanti le arrivavano
attutite, poteva sentire
bene solo quella di Ettore, il ragazzo che ora la stava fissando con
espressione preoccupata. Poi fece un gesto che Silvia non si sarebbe
mai
aspettata da lui: la abbracciò. Avvertì le
lacrime salire agli occhi e la
mascella vibrare, come se tutto il dolore che aveva tenuto solo per se
stessa
in quelle settimane stesse per scoppiare; afferrò la
maglietta di Ettore, la
strinse con le unghie alla ricerca di un appiglio.
♫
Dieci giorni dopo Ettore si sarebbe
sposato con Aurora,
eppure non era la strana felicità che non cessava mai di
esprimere la sua
fidanzata né il matrimonio imminente a preoccuparlo: era
arrabbiato con Davide,
lo avrebbe preso a schiaffi fino a farlo sanguinare per ciò
che aveva fatto, e
in ansia per Silvia, che solo Manuel era riuscito a reperire due
settimane
prima; era stata una notizia provvidenziale, dal momento che Ettore,
dopo
averle lasciato quei giusti giorni di sfogo in solitudine, era pronto a
buttare
giù la porta del suo appartamento per controllare che stesse
bene.
-
L’ho tradita.
Ettore si
immobilizzò
alle parole con cui Davide esordì non appena lui ebbe aperto
la porta, ma più
che ciò che disse furono il tono, gli occhi rossi e le
lacrime del suo migliore
amico a sorprenderlo. Aveva tradito Silvia ed Ettore, in fondo, si
aspettava
che sarebbe successo prima o poi: un bacio non premeditato, una ragazza
molto
bella e disposta ad accoglierlo nel suo letto… Sapeva,
però, che sarebbe corso
da lui in preda al panico, implorando aiuto perché doveva dirlo a Silvia, doveva
spiegare che era stato solo uno sbaglio.
Non avrebbe mai immaginato che Davide avrebbe pianto.
-
Lei… ci ha trovati
insieme… - continuò il suo amico con il fiato
rotto.
Questo forse
spiegava
le lacrime.
Davide si
portò una
mano alla fronte, continuando a piangere. – Oddio, non posso
crederci… Io… io
la amo, Ettore… Dovrei amarla, non è vero? Ma per
due mesi…
Ettore
avvertì una
strana fitta allo stomaco. – Per due mesi cosa?
Lo sguardo
affranto di
Davide bastò come risposta. Ettore gli afferrò il
collo della maglietta e lo
spinse contro il muro, adirato. Non era per Silvia che si stava
infuriando
sempre di più, ma per la cocente delusione di Davide: non
era affatto cambiato.
Suo fratello
era
sempre stato un dongiovanni, la prima relazione seria era stata proprio
quella
con Silvia; fino a quel momento aveva avuto tantissime donne, alcune
delle
quali erano durate diversi mesi, ma erano state tradite da lui
più e più volte.
Tutte ragazze dalle gambe lunghe e dal poco cervello, non meno
innamorate di
Davide come lo era stata Simona di lui – almeno negli ultimi
tempi – quando non
faceva altro che trascinarlo con sé per mostrarlo alle
amiche come un trofeo.
Poi era arrivata Silvia e il mondo di Davide era crollato,
perché per la prima
volta aveva trovato una ragazza che per lui fosse importante quanto, se
non
più, di Ettore, una persona timida, ma dotata di cervello e
in grado sia di
essere una complice di Davide nelle passioni che avevano in comune, che
di
tenergli testa.
Ettore aveva creduto veramente
che Davide fosse maturato.
- Tienila
d’occhio per
me, ti prego, perché non vuole vedermi… Controlla
che stia bene…
Due settimane, la notizia portata da
Manuel e poi altri
giorni perché Ettore cominciasse a cercare Silvia senza
piombarle in casa, ma
gli impegni per il matrimonio lo tenevano lontano
dall’obiettivo; poi, quel
pomeriggio, l’aveva trovata.
E ora erano seduti su una panchina di
fronte al laghetto
dell’Eur, Ettore in silenzio mentre Silvia gli raccontava
tutto. Tutto.
Di come Davide le avesse chiesto in
un momento di follia di
avere un bambino, di come in quel periodo lui stesse già
frequentando un’altra,
di come Silvia avesse saputo della gravidanza solo un’ora
prima di scoprire il
tradimento, di come non avesse voluto piangere sulle spalle di Aurora
perché la
sapeva troppo indaffarata con il matrimonio in arrivo, di come dopo due
settimane avesse trovato il coraggio di chiamare Manuel e farsi portare
da lui
all’ospedale, di come all’ultimo momento avesse
deciso di portare avanti la
gravidanza perché non dipendeva da Davide, perché
né lei né il bambino
dipendevano da quel fottuto Davide.
Gli raccontò tutto ed
Ettore la ascoltò, pazientemente, fino
a che la voce di Silvia si spezzò.
- Davide è venuto da me
quel giorno, - le rivelò, - nemmeno
io sapevo di… di lei. Mi
ha
assicurato che non era importante, ma non è bastato a farmi
placare: l’avrei
ammazzato di botte se solo non fosse il mio migliore amico da anni.
- Se non era importante,
perché lo avrebbe fatto? – chiese
prevedibilmente Silvia con un sorriso triste.
- Avevo
paura.
- Chi lo sa? Perché
è un bambino, perché non è capace di
fare le cose nel modo giusto, perché…
- Avevo
paura.
Ettore scacciò ancora una
volta quel pensiero: era la motivazione
più stupida che avesse sentito, eppure, proprio per questo,
l’unica vera.
Sospirò, arrendendosi.
- Perché aveva paura.
- Di me? –
L’irritazione di Silvia era percepibile nel tono
sarcastico con cui replicò. – Aveva paura di
essersi innamorato?
- Non ha mai avuto una storia seria
prima di te, Silvia.
Siete andati a vivere insieme, non sono cose che si fanno con
tutti…
- E questo lo giustificava a
tradirmi, Ettore?
“Come Aurora ha tradito
Marco con te,” sembrava dire Silvia.
- Non lo sto difendendo, credevo di
essere stato chiaro: io
non tradirei mai Aurora perché sono sicuro di voler passare
tutta la vita con
lei, sono sicuro che mi ama.
Lo sei?
Ettore scacciò anche quel
pensiero, tentando di concentrarsi
sul problema di Silvia. Tuttavia, quando le rivolse nuovamente lo
sguardo, la
ragazza si stava già alzando.
- Dove vai?
- Torno a casa, - rispose
semplicemente lei, legando i
lunghi capelli castani in una coda. – Ho deciso di prendermi
cura del bambino e
per iniziare dovrò rinunciare all’appartamento che
avevamo… All’appartamento.
Non posso permettermi di pagare l’affitto con le nuove spese
in arrivo; ho già
cominciato a mettere via qualche vestito, ma devo finire di riempire
gli
scatoloni prima di giovedì, quando i miei verranno ad
aiutarmi per il trasloco
-. Abbassò lo sguardo al ventre, una rapida occhiata, poi si
fermò a osservare
il laghetto di fronte. – A proposito, dovrò
trovare anche il modo di dirgli che
avranno un nipotino, - concluse con un sorriso amaro.
- Vuoi che ti dia una mano?
- Non serve, grazie, e
poi… forse sarebbe anche peggio: mi
sentirei in colpa a sottrarti ad Aurora durante i preparativi per la
cerimonia.
- Ti preoccupi troppo, Silvia -.
Anche Ettore si alzò dalla
panchina e salutò l’amica con un leggero bacio
sulla testa. – È questo che ti
frena.
♫
-
È questo che ti
frena.
Le parole di Ettore risuonavano nella
testa di Silvia
incessantemente, come se volessero suggerirle qualcosa. Si riferiva
forse alla
rottura con Davide? Secondo lui avrebbe dovuto perdonarlo? No, si
rispose, era
stato proprio Ettore a dirle che si era arrabbiato con lui come non
aveva mai
fatto prima. Però…
L’ascensore si
bloccò al terzo piano e il rumore della porta
che si apriva rimbombò nel silenzio del condominio. Silvia
frugò nelle tasche
alla ricerca delle chiavi di casa – aveva il pessimo vizio di
non tenerle mai
in mano, nemmeno subito dopo avere aperto il portone del palazzo
– finché il
tintinnio del metallo sostituì il fracasso
dell’ascensore; osservò le diverse
chiavi, cercando quella rossa che serviva per la porta del suo
appartamento, ma
una voce vicina la immobilizzò.
- Avevo pensato a una serenata, poi
però mi sono ricordato
che non è il tuo genere.
Silvia deglutì avvertendo
l’odore di Davide alle sue spalle
– non avvertiva alcun profumo, aveva perennemente il naso
chiuso, e allora
perché quello di Davide si manifestava sempre
prepotentemente, facendole
dimenticare tutto il resto? Cercò di darsi un contegno e,
dopo avere trovato la
chiave, la infilò nella toppa della porta e girò,
il mento sollevato e lo
sguardo deciso rivolto all’appartamento che le stava
apparendo davanti.
- No, è Aurora ad amare
queste cose.
- Lo suggerirò a Ettore,
visto che ha paura che non voglia
più sposarlo.
Silvia si voltò di scatto,
sorpresa da quelle parole; la
vista del volto del suo ex ragazzo, dei suoi brillanti occhi azzurri la
fece
vacillare, ma cercò ancora una volta di sembrare tranquilla.
Almeno per quanto
concerneva la sua vicinanza.
- Che intendi dire?
- Non è successo niente, a
quanto ne so, - rispose Davide,
passandosi nervosamente una mano fra i capelli chiari, - ma sembra
molto
agitata, Ettore teme che ci stia ripensando…
- È normale essere agitata
qualche giorno prima delle nozze.
Non convinse neppure se stessa:
Aurora aveva sempre sognato
di sposare un uomo come Ettore, il suo turbamento non doveva essere
dovuto a
dei dubbi; tuttavia la parola che risuonava nella mente di Silvia era
“Marco”.
Possibile che, a cinque anni di distanza, il ragazzo si fosse deciso a
fare il
passo? A tentare di riconquistarla?
Avvampò improvvisamente
quando si rese conto che Davide non
aveva più detto niente, che era di fronte a lei, che stavano
parlando di Ettore
e Aurora piuttosto che di loro due.
Tre.
- Entra.
Lo precedette
nell’appartamento e si diresse verso la cucina
per prendere qualcosa dal frigorifero. Forse per lei e Davide non
c’erano più
speranze, però lui avrebbe continuato a far parte della sua
vita, in modo da
poter stare accanto al bambino; non sarebbe fuggito, ora ne era certa
–
nonostante non ne comprendesse il perché – e
parlarne di fronte a una fetta di
torta e una tazza di caffè avrebbe reso la situazione molto
più simile a una
riunione d’affari. Potevano discutere fin da subito di come
il bambino avrebbe
passato le vacanze, di chi lo avrebbe tenuto per Natale e di quali
sarebbero stati
i suoi padrini, ma non sarebbe stato l’ambiente adatto per
parlare di loro. Trovò
una torta di mele e la mise
su un vassoio, trattando Davide come un ospite e dimenticando
volontariamente
che, fino a poco tempo prima, anche lui abitava lì. Che
anche lui aveva usato
quel vassoio per servire Ettore o Manuel. Che anche lui aveva rovistato
nella
credenza per cercare la caffettiera.
Eppure Davide non era un semplice
ospite: Silvia tentava di
comportarsi in modo naturale, ma allo stesso tempo evitava di voltarsi
e
ricordarsi così della sua presenza. Aspettò
finché non fu pronto il caffè per
farlo, poi gli porse una tazzina e afferrò una fetta di
torta, che tuttavia
lasciò presto abbandonata nel piatto perché, a
ogni battito di palpebre di
Davide, il suo stomaco minacciava di smettere di funzionare.
- Sono riuscito a farmi rivolgere la
parola tirando in ballo
Aurora ed Ettore, - osservò Davide dopo qualche altro minuto
di silenzio.
- Mi ero preoccupata.
- Ti
preoccupi troppo,
Silvia.
E in attimo la frase di Ettore
risultò chiara.
- Hai parlato di loro
perché sapevi che così non ti avrei
sbattuto la porta in faccia?
- Già -. Davide si
passò la tazzina ancora piena di caffè
tra le mani tremanti, ma non sembravano i ventotto gradi che regnavano
nell’appartamento a disturbarlo. – Sapevo che i
problemi degli altri sono il
tuo punto debole: ti comporti sempre come se le tue preoccupazioni
possano
essere messe da parte per accorrere a salvare gli amici. Chi hai
chiamato
quando non sei più riuscita a trattenerti?
Per qualche motivo, sembrava una
domanda retorica. Non aveva
chiamato la sua migliore amica o Ettore, entrambi immersi nei
preparativi per
le nozze, e non aveva nemmeno chiamato Marco, intuendo quanto stesse
soffrendo
in quel periodo.
- Manuel. Come fai a saperlo? Te ne
ha parlato?
Davide scosse la testa. –
Due giorni fa ho trovato un enorme
“STRONZO” scritto sulla mia auto. Sulla portiera,
intendo, non sul parabrezza: qualcuno
l’aveva rigata.
Suo malgrado, Silvia trattenne a
stento una risata che a
Davide non sfuggì.
- L’unica persona che
poteva essere stata era lui, ma anche
tu potevi avermi seguito nel parcheggio della Conad
all’angolo per tendermi un
agguato… Poi però ogni dubbio è stato
chiarito quando sono entrato in sala
prove dopo settimane e Manuel mi ha lanciato uno sguardo assassino. Mi
chiedo
solo come avrebbe reagito la vecchietta del secondo piano se Manuel
avesse
confuso le due auto!
- Davide -. Finalmente Silvia
trovò il coraggio di portare
gli occhi verso i suoi, deglutendo a fatica; lui ricambiò e
aspettò che
parlasse, di nuovo serio. – Aspettiamo un figlio.
Aspetto un
figlio.
Aspetto un
bambino.
Sono incinta.
Silvia avrebbe potuto dirlo con
svariate formule, ma scelse
inconsciamente di utilizzare il plurale, di includere Davide in
quell’affermazione. Era il padre, dopotutto.
- Da quanto?
- Ne sei
certa?
- Sono io il
padre?
Questa volta fu Davide a
sorprenderla: non fece domande, si
limitò a boccheggiare e a sbattere le palpebre per qualche
secondo; poi saltò
in piedi, afferrò la vita di Silvia e, mandando goffamente
il piatto con la
torta a infrangersi per terra, la sollevò in aria. La fece
volteggiare più
volte, il volto in preda all’eccitazione e anche Silvia
sorrise suo malgrado.
Quasi non se ne accorse, ma le labbra si erano distese naturalmente,
come se in
cuor suo non aspettasse altro.
Davide le faceva ancora battere il
cuore. Non era la solita
storia del “ragazzo bastardo”, quel tipo di persona
che una donna si illude
ostinatamente di redimere, non si trattava neppure
dell’inerzia che spinge un rapporto
durato anni a prolungarsi nel tempo. Silvia amava Davide –
nonostante l’avesse
tradita per paura di una relazione seria, nonostante non fosse ancora
maturato,
nonostante avrebbe potuto ferirla ancora.
E quel sentimento, almeno per il
momento, bastava.
Forse un giorno, non tanto tempo
dopo, si sarebbero
lasciati, forse al secondo tradimento lei avrebbe chiuso
definitivamente la
storia con lui, però al momento c’era un figlio di
cui occuparsi ed era meglio
andare avanti così.
♫
Silvia afferrò la
copertina che avvolgeva il neonato e la
sollevò leggermente per coprirgli anche il piccolo collo;
tenne suo figlio
stretto tra le braccia con enorme attenzione, cullandolo lentamente
nonostante
fosse già immerso nel mondo dei sogni. Cercando di fare
più silenzio possibile,
posò l’esile corpicino nella carrozzina accanto al
tavolo e accarezzò
delicatamente i pochi capelli biondi.
Si concesse un rapido sospiro di
fatica prima di
apparecchiare, maledicendosi ogni volta che faceva tintinnare un
bicchiere
contro l’altro e che il bambino, di conseguenza, emetteva un
suono molto simile
allo sbuffo. Era certa di essere ormai al sicuro
dall’ennesimo pianto del
giorno finché qualcuno non suonò alla porta,
svegliando il neonato e facendolo
agitare nella carrozzina.
- Su, su, amore, va tutto
bene… - tentò di calmarlo Silvia
dopo averlo ripreso in braccio. Si avvicinò alla porta,
maledicendo ora chi
sapeva trovarsi dall’altra parte, e infine aprì,
scocciata. – Sei arrivato,
finalmente.
Davide, i capelli più
arruffati come quelli di Silvia erano
ora più corti, le rivolse un’espressione di scusa
e afferrò suo figlio tra le
braccia nude.
- Scusa, ho avuto dei problemi a
lavoro… Ehi, piccolino,
come stai?
Mentre giocava con il nasino del
bambino, Davide allungò una
mano verso la tavola imbandita, ma Silvia gli diede un leggero schiaffo.
- È per gli ospiti, abbi
almeno la decenza di aspettare!
Sapeva di essere acida quando passava
troppo tempo in
compagnia del figlio appena nato, che sembrava essersi promesso,
scaraventato
violentemente fuori dal tranquillo calore dell’utero materno,
di rendere la
vita della madre un inferno, piangendo tutte le notti a intervalli di
due ore e
agitandosi più in sua presenza che quando si lasciava
accarezzare dalle mani gigantesche
del padre. Per fortuna anche
Davide sapeva cosa frullava nella testa di Silvia e, invece di
prendersela come
avrebbe fatto un tempo, le sorrise dolcemente e le stampò un
casto bacio sulle
labbra.
- Gabriele ha fatto il bravo oggi?
- Più del solito, -
rispose ironicamente Silvia, osservando
innamorata il corpicino che Davide stava cullando. – Hai
sentito Ettore? Posso
aggiungere un posto per lui o…
Davide sbuffò, rassegnato.
– Ha inventato una scusa anche
per oggi. “Devo lavorare al cantiere,” ha detto, ma
so che avrebbe trovato il
modo di farsi sostituire qualche ora per venire a trovare Gabriele.
Prima o poi
gli passerà. Manuel?
- A quanto sembra è
partito con Heather.
- Quando? Non lo sapevo.
- Stanotte. La solita storia: erano
stati troppo tempo senza
viaggiare, volevano visitare posti nuovi… e sono volati a
Las Vegas.
- Dieci euro che tornano sposati.
- Sei pessimista, io ne ho
già scommessi cinquanta con il
fratello di Manuel. Che si sarebbero sposati lì, intendo.
- Per cui stasera saremo solo noi,
Marco e Aurora.
- Esattamente.
- E invece sta ancora
dormen…
- Pa.
La domanda di Davide venne interrotta
dalla vocina
arrabbiata di una bambina; l’uomo restituì il
secondogenito a Silvia e si
inginocchiò davanti alla “figlia
prediletta” – sebbene la sua ragazza odiasse
che la chiamasse così.
- Cosa c’è,
Laura?
- No mmai sautato.
- Hai ragione! – Davide si
diede uno schiaffo sulla fronte e
sollevò Laura per cercare di toglierle il costante broncio
dal viso lentigginoso.
– Ma non mi ero dimenticato di te, credevo stessi dormendo.
Sai che papà non si
dimenticherebbe mai della sua… Chi sei tu?
- A sua pincipesina! –
rispose la bambina ridendo mentre il
padre la faceva volteggiare in aria.
Silvia osservò ogni minimo
dettaglio: le guance di Laura che
diventavano rosse, la manina di Gabriele che le stringeva il dito,
l’espressione felice che
ormai era
impossibile togliere dal volto di Davide. Gli occhi azzurri
dell’uomo con cui
viveva, del padre dei suoi figli e forse, un giorno, del suo futuro
marito – ma
non importava, a lei andava bene così –
incrociarono il suo sguardo, luminosi,
raggianti di felicità.
Bastava.
Buonasera (credo, ormai) a tutti quelli che sono arrivati fin qui: vi ringrazio profondamente.
Prima di parlare della storia in sé, vorrei spiegare che i personaggi che sono apparsi in queste righe fanno parte di una serie e che la storia di partenza si intitola Sulle note di Cat Stevens - i cui protagonisti sono Marco e Aurora, qui solamente citati. Credo che non abbiate avuto problemi a leggere questo racconto, però, ho cercato di riassumere alcuni eventi che accadono nelle altre storie della serie (e principalmente nella prima).
I versi che appaiono ogni tanto all'interno della storia sono tratti da Cenerentola innamorata di Marco Masini, ma ho voluto basarmi su questa canzone (di cui nel testo sono rintracciabili diverse citazioni) solo per due terzi del racconto; l'occhio che ho scelto come immagine, inoltre, appartiene a Jude Law, che da qualche mese è diventato nella mia testa il prestavolto di Davide.
Sono consapevole del fatto che il finale lasci un po' l'amaro in bocca: Davide ha tradito Silvia per due mesi, perché lei dovrebbe perdonarlo? Forse sarebbe stato meglio scrivere di un nuovo personaggio che avrebbe conquistato il cuore della ragazza, che l'avrebbe aiutata a dimenticare Davide e a crescere la bambina; in fondo lui si è comportato male, "non merita" di essere felice accanto a Silvia.
Ma non sarebbe stata la realtà. Davide ama Silvia, nonostante tutto, e lei lo ricambia, nonostante tutto. E questo "le basta", le dà la speranza di credere che un giorno lui possa finalmente maturare; cosa che, in effetti, avverrà, altrimenti non avrebbe deciso di far nascere un secondo bambino, se non avesse avuto la sicurezza di dargli una famiglia.
Perché questo titolo, allora, se il messaggio che la storia trasmette (un messaggio che non vuole dare consigli, ma è rivolto solo a questi due personaggi) è ben diverso dal film Closer - in cui, tra l'altro, recita lo stesso Jude Law? Per l'amaro in bocca, appunto: non sto spoilerando il finale, mi riferisco all'amarezza di diverse scene del film. Avevo pensato anche a Cenerentola innamorata, ma avrebbe coperto solo una parte della storia.
In più closer significa "più vicino": al termine del racconto, Silvia e Davide, nonostante gli ostacoli (messi anche da loro stessi), si sono avvicinati più di quanto lo fossero stati fino ad allora, quando Davide aveva ancora paura di un rapporto duraturo e Silvia viveva nella paura che lui potesse tradirla.
Se vi interessa leggere altro su questa coppia, potete scoprire la nascita del loro amore in Cosa sarebbe il mondo senza Capitan Uncino?
Ringrazio ancora tutti coloro che hanno letto e che recensiranno, metteranno la storia nelle preferite/ricordate o anche solo cliccheranno su quel "mi piace" in alto per consigliare ad altri questa lettura.
Una menzione speciale merita ferao, la beta di questa storia. Grazie, twincest <
Medusa