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Autore: MedusaNoir    04/02/2013    1 recensioni
Silvia si chiese quale sarebbe stata la sfumatura delle iridi di Davide quando gli avrebbe annunciato la notizia.
-
Davide inspirò di nuovo, preparandosi alla risposta. – Due mesi.
-
Bastava.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CLOSER

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Era bello sentirsi amata,

nei suoi occhi vedevi il mare.

 

Silvia era in grado di scorgere il mare negli occhi di Davide: un colore chiaro, azzurro, che ogni tanto era capace di incresparsi come le onde, assumendo una sfumatura di un blu intenso. Le sue iridi cambiavano tonalità a seconda delle emozioni – o forse era Silvia a vedere la felicità o la tristezza dell’uomo riflettersi nell’azzurro – rivelando confusione, imbarazzo, allegria; aveva notato che, ogni volta che Ettore bussava alla porta dell’appartamento che i due avevano iniziato a condividere da un anno, gli occhi di Davide erano in grado di assumere un colore del tutto diverso.

- È amore! – aveva esclamato una volta Manuel, sospirando.

Azzurri, blu, ricordavano il mare. Silvia si chiese quale sarebbe stata la sfumatura delle iridi di Davide quando gli avrebbe annunciato la notizia.

 

 

Si erano conosciuti quasi sei anni prima, quando Davide aveva rimpiazzato Manuel al basso nel nuovo gruppo della sua migliore amica, Aurora, dopo che la rottura tra lei e il chitarrista Marco – di cui proprio Manuel aveva preso il posto – aveva portato allo scioglimento della vecchia formazione. A dire il vero, Silvia aveva notato Davide tra il pubblico già durante i concerti dei Moonlight Sonada, ma lui era troppo occupato a fare in modo di attirare le attenzioni delle ragazze più formose e provocanti del locale per riuscire a degnare anche solo di uno sguardo lei, una ventenne piccola ed esile che esibiva una chioma dal colore indefinito, che andava dal castano al rossiccio. Non appena Davide era entrato a far parte dei Lilim, Silvia aveva chiesto ad Aurora – lo aveva preteso – che li presentasse, accompagnandola inoltre a ogni prova per stare in compagnia del ragazzo. Davide, all’epoca ventottenne, aveva la fama di “compagno di una notte”, per cui Silvia aveva ben poco da sperare; erano diventati amici fin da subito, affibbiandosi i soprannomi di Peter Pan – Silvia – e Capitan Uncino – Davide. Sembrava fosse impossibile che il ragazzo mettesse la testa a posto e si innamorasse finalmente di qualcuno, tuttavia un anno e mezzo dopo era successo: erano diventati a tutti gli effetti una coppia.

Ora Silvia aveva quasi ventisette anni, ma non si sentiva ancora adulta.

Non abbastanza.

Davide, dal canto suo, riusciva a mietere ancora vittime ai concerti o durante le uscite con Ettore, però non aveva più avvicinato troppo una ragazza da quando stava con Silvia.

Non che lei sapesse.

Silvia scosse la testa, percorrendo la strada che l’avrebbe portata al loro appartamento, e si disse di smetterla, con certi pensieri, perché non le facevano bene. Davide la amava, ne era certa e lui glielo aveva dimostrato più volte, quindi era inutile preoccuparsi, sia per quanto riguardava le ragazze, sia…

Fece un respiro profondo, preparandosi ad affrontarlo: la sorpresa di vederla tornare prima dal lavoro – a cui non era andata affatto – non sarebbe stata niente a confronto con quello che aveva da dirgli.

Chissà come avrebbe reagito: era questo a spaventarla realmente, quasi più del contenuto del suo discorso. Lo immaginava fissarla con gli occhi spalancati, incredulo, la bocca aperta in un’espressione “idiota”, come Ettore l’aveva definita quando un tempo Davide avvistava una ragazza particolarmente procace; forse avrebbe balbettato, forse si sarebbe chiuso in un mutismo imbarazzante, forse le avrebbe chiesto di non farsi più vedere. Silvia non escludeva quest’ultima possibilità, nonostante si rendesse conto di quanto fosse inverosimile. E i suoi occhi che colore avrebbe avuto? Davide avrebbe sorriso, mentre le lacrime si offuscavano per la tristezza di…?

Non riuscì a completare la frase, si disse ancora una volta di non lasciarsi andare a riflessioni negative che non avrebbero comunque cambiato il corso degli eventi. Davide avrebbe reagito in un modo tutto suo, senza che lei potesse prevederlo; sperava solo che l’avrebbe aiutata a decidere.

Infilò la chiave di casa nella serratura e spinse la porta, entrando nell’appartamento silenzioso; stava per chiamare Davide con la voce acuta per il nervosismo, quando si accorse che qualcosa non andava.

Fu un attimo: il suono di una risata femminile, i piedi di Silvia che la portarono immediatamente alla camera da letto e poi vomito, vomito nella gola. Si coprì la bocca con la mano, impedendosi di urlare o buttare tutto ciò che stava risalendo dallo stomaco sopra quei due.

Davide non era affatto cambiato.

Se non lo aveva fatto lui, Silvia nemmeno poteva dire di avere assunto nel tempo un carattere diverso. Si lanciò sul corpo – si rifiutava di aggiungere aggettivi – della ragazza, facendo sussultare Davide, la afferrò e la spinse fuori dall’appartamento così com’era. Davide cercò una scusa, una spiegazione, ma bastò uno sguardo da parte di Silvia per costringerlo a tacere.

- Da quanto? – ringhiò: aveva sempre avuto un’ottima memoria, le era bastato poco per riconoscere in quella sgualdrina una fan dei Lilim da almeno tre mesi.

Davide inspirò profondamente, cercando di evitare i suoi occhi e passandosi imbarazzato una mano tra i capelli. La ragazza fuori dalla porta bussava insistentemente, reclamando a gran voce i propri vestiti senza rendersi conto di quanto si stesse rendendo ridicola.

- SE NON LA PIANTI, ESCO E TI STACCO LA TESTA A MORSI, PUTTANA! – gridò Silvia furiosa, per poi tornare a guardare Davide. – Bell’acquisto, complimenti. Allora, da quanto? Due, tre settimane?

Davide inspirò di nuovo, preparandosi alla risposta. – Due mesi.

La ragazza si portò di nuovo le mani alla bocca, capendo che lui la stava tradendo anche allora. Che dargli quella notizia non avrebbe significato niente, che lui non aveva mai voluto che tra loro potesse crearsi qualcosa di serio. O forse sì, ma non in quel momento, e questo a Silvia bastava.

Corse in camera e spalancò la finestra, gettando in strada tutto ciò che apparteneva a Davide: vestiti, libri, regali che lui le aveva fatto e che Silvia non voleva vedere mai più; buttò via anche le foto, facendo fracassare le cornici sull’asfalto. Aveva visto quella scena in molti film, disprezzandone ogni volta la banalità, ma ora capiva il significato di quel gesto: era liberatorio, era il modo migliore per sbarazzarsi di Davide senza affondargli un coltello nel petto.

E Davide era lì, in piedi sulla soglia con solo un paio di jeans addosso, e la lasciava fare, pavido come era sempre stato. Quando Silvia afferrò anche il suo basso Ibanez, però, si lanciò su di lei, cercando di strapparglielo dalle mani; solo in quel momento Silvia parve ricordarsi della sua presenza e lo spinse fuori dalla casa, proprio come aveva fatto con la sua amante.

Nessuna resistenza: Davide sapeva che lei era nel giusto, che non potevano più vivere insieme da quel momento.

- Sparisci! – urlò per l’ultima volta Silvia, sbattendo la porta e lasciandosi scivolare a terra, il volto bagnato affondato nelle mani.

 

 

Da quando aveva risposto alla chiamata, Manuel era rimasto con la testa fra le nuvole per il resto della giornata, punzecchiando distrattamente la Gibson nel tentativo di riflettere meglio.

Non era certo la persona più affidabile del mondo e raramente si preoccupava dei sentimenti di persone che non fossero Marco o Heather; tuttavia la voce rotta dal pianto con cui Silvia aveva parlato al telefono lo aveva spinto a cercare di tranquillizzarla, nonostante lei si rifiutasse di dire cosa non andasse.

- So-sono al lav-lavoro… - aveva singhiozzato. – Ci sono do-dovuta andare, ho p-preso troppi giorni queste ultime s-settimane…

- Eri a casa?

La domanda di Manuel era sorta spontanea: aveva chiamato diverse volte in quelle due settimane per chiedere dove fosse finito Davide, che non si era più presentato alle prove, ed era passato anche un paio di volte al loro appartamento, ma in nessuno dei casi aveva ricevuto risposta. Forse erano partiti, si era detto; per lui, che aveva conosciuto Heather proprio durante una “fuga” negli Stati Uniti, non avvertire nessuno della vacanza non sembrava un’ipotesi assurda.

- S-sì… Ti prego, ho bisogno di pa-parlare con qualcuno, non ne po-posso più…

- Il tuo turno finisce alle otto, vero? Ti vengo a prendere e ceniamo insieme da qualche parte.

Manuel controllò l’orologio: era ora di andare. Salì in macchina e percorse il breve tragitto da casa sua agli uffici in cui lavorava la sua amica, tamburellando sul volante in attesa mentre la radio passava le ultime canzoni del momento; inserì nello stereo l’unico disco che i Lilim avessero inciso, dopo anni di concerti nei locali di Roma.

Silvia entrò nella macchina all’improvviso e il suo sguardo triste al suono di quelle note spinse Manuel a spegnere lo stereo. Aveva gli occhi gonfi e doveva essersi tolta il trucco colato da ore, probabilmente quando lo aveva chiamato: la immaginava chiusa in un piccolo ripostiglio, tra fogli di carta e stampanti fuori uso, le gambe strette al petto mentre digitava insicura il suo numero.

L’abbracciò immediatamente, cercando di trasmetterle il calore necessario, ma Silvia era rigida e non sembrava riuscire a parlare. Non gli parve opportuno chiedere di Davide, immaginando che fosse lui la causa del suo dolore, per cui si limitò a proporle un ristorante vicino casa sua che conosceva molto bene.

Silvia annuì, mantenendo un amaro e significativo silenzio.

Fortunatamente Manuel era provvisto della capacità di parlare in ogni momento e di qualsiasi cosa, riuscendo così a non costringere Silvia ad aprirsi per allentare la tensione; durante la cena lei continuò a rimanere in silenzio, ma dopo le prime portate riuscì a spiccicare qualche parola a bassa voce e con lo sguardo rivolto al piatto.

- Ho composto un nuovo pezzo, - annunciò Manuel, - penso che ad Aurora potrebbe piacere, è proprio il suo genere! Ultimamente la sento poco, Ettore deve sfiancarla, la capisco! Anche se ci sono volte in cui lui…

- Mi sento sbagliata.

Manuel si interruppe, felice che Silvia si fosse finalmente decisa a introdurre il discorso.

- Non è vero che sei sbagliata, - tentò di confortala, sorridendole dolcemente.

- Invece io credo proprio di sì. Non… non sono capace a fare niente. Mi sono illusa per così tanto tempo che lui… - Silvia si bloccò, incapace di continuare.

- Silvia, - la esortò Manuel, - cos’è successo?

Silvia fece un profondo respiro, alzò gli occhi su Manuel e poi distolse di nuovo lo sguardo, abbattuta.

- Sono incinta.

 

 

- Silvia, facciamo un bambino.

La voce di Davide le rimbombava nella testa da due settimane, da quando aveva scoperto di essere incinta. E subito dopo di essere stata ripetutamente tradita.

Quando Davide aveva pronunciato quelle parole, lei aveva fatto una smorfia, credendo che la stesse prendendo in giro. Non avrebbe mai pensato, a mente lucida, di provare ad avere un bambino con lui – non ora; tuttavia stavano disfacendo con foga il letto, avvinghiati l’uno all’altra, e a Silvia era bastato dirsi che erano grandi, che Davide ormai aveva trentatre anni, perché rimandare? Aveva solo dovuto ripetersi quelle parole e aveva lasciato che Davide non prendesse precauzioni per una volta.

Si era resa conto di quanto fosse stata stupida a non pensare all’opportunità di essere rimasta incinta per un intero mese quando il ciclo, semplicemente, non si era presentato. Un giorno di permesso, la visita dal ginecologo e sì, Silvia aspettava un bambino.

Tenerlo? Abortire? Se l’era chiesto per tutto il tragitto dall’ospedale a casa: Davide le aveva chiesto di fare un figlio, ma probabilmente era soltanto confuso dalla foga del momento, inoltre non poteva certo dirsi maturo per una responsabilità del genere. E aveva dimostrato di non esserlo affatto.

– Due mesi.

Due mesi. Quello che faceva più male a Silvia era sapere che lui le aveva detto quella frase proprio nel periodo in cui la tradiva con un’altra. Perché l’aveva fatto?

Aveva bisogno di parlare di quella situazione con qualcuno, ma non con Aurora, assorta nei preparativi per le nozze; aveva scelto Manuel perché sapeva di potersi fidare di lui, dopo che le sue dita avevano scorso la rubrica più volte: era l’unico tra i suoi amici che potesse esserle accanto in una situazione simile, l’unico di cui non fosse riuscita a prevedere il consiglio che avrebbe potuto darle.

Più del conforto, a Silvia serviva proprio quello, un consiglio.

- Sono incinta.

Manuel aveva spalancato gli occhi, la bocca aperta e sul volto l’espressione che lei aveva immaginato di trovare in Davide. Avvertì una fitta allo stomaco.

- Davide lo sa?

Aveva fatto il suo nome dopo un’intera cena passata ad evitare di pronunciarlo; forse aveva pensato che fosse la gravidanza il problema, che lei non riuscisse a trovare la forza per dirglielo o non fosse pronta a tenere il bambino. Tutte ipotesi esatte, in effetti.

- L’ho trovato a letto con un’altra, - si limitò a spiegare, senza osservare la reazione di Manuel.

- Forse hai interpretato male…

- Posso dirti anche quanti nei avesse sul sedere quella puttana. L’ho buttato fuori da casa, ma prima mi ha confessato che si vedevano da due mesi.

Manuel esitò prima di farle una seconda domanda scomoda. – Di quanto sei incinta?

- Un mese e mezzo, l’ho scoperto due settimane fa, lo stesso giorno in cui ho trovato quello stronzo che si faceva un’altra -. Silvia rimase qualche secondo in silenzio prima di parlare di nuovo. – Non è cambiato per niente.

- No, - la corresse Manuel, - è diventato più bastardo di prima.

 

 

Non sapeva cosa dirle: Silvia aveva bisogno di un consiglio, era evidente, ma lui non lo aveva. Tutto ciò che gli veniva in mente era scovare Davide, dovunque fosse, e tentare di affogarlo in una piscina, per poi salvarlo e ucciderlo definitivamente con una pugnalata. Davide aveva tradito, anche a Manuel era capitato e quando Aurora era andata a letto con Ettore, ai danni di Marco, aveva inizialmente pensato di non poterla perdonare – il suo migliore amico aveva sofferto per mesi, il gruppo si era sciolto – ma non aveva mai desiderato di vedere una folgore abbattersi su di lei; Silvia, invece, aveva un’aria così spaventata da fargli provare una rabbia indescrivibile nei confronti di Davide. Certo, non sapeva di averla messa incinta, ma lei era così esile e indifesa… Doveva aiutarla, anche solo ascoltandola. Poi si sarebbe messo alla ricerca di quel bastardo.

- L’hai detto solo a me?

Silvia annuì, seduta nella macchina di Manuel ancora parcheggiata fuori dal ristorante.

- Forse dovresti parlarne ai tuoi.

- Non ne ho il coraggio. Forse sarebbero stati felici per me sapendomi ancora con Davide, ma in questa situazione… Come posso andare da loro e annunciare di aspettare un figlio che non avrà un padre? Me li immagino già: mio padre su tutte le furie e mia madre che mi guarda delusa! No, non ci riuscirei…

- Prima o poi dovrai farlo.

- Forse no.

Manuel scoppiò a ridere forzatamente. – Vuoi che lo scoprano quando avrai una pancia enorme?

Silvia lo guardò, lui sapeva quale pensiero la stesse torturando da giorni, ma tentava di allontanarlo. Aveva sempre immaginato il momento in cui uno dei suoi migliori amici gli avrebbe annunciato di aspettare un figlio come un’esplosione di gioia e festeggiamenti: non erano più dei bambini, erano responsabili delle proprie vite e godevano di una relativa stabilità economica, non avrebbero potuto fare altro che essere contenti dell’arrivo di una nuova vita; tuttavia quella situazione gli aveva mostrato che non tutti i problemi si potevano superare con l’età e un lavoro.

- Non so darti nessun consiglio, - sospirò, premendo la testa di Silvia contro la sua spalla. – Forse… forse devi solo sentire se davvero vuoi questo bambino.

- Non lo so, - mormorò Silvia, mentre le lacrime cominciavano a scorrerle sui solchi ormai visibili del viso. – Ci penso tutte le notti, ma non ho nessuna idea di come… di come… Manuel, con che coraggio potrei crescere il figlio di Davide? Io non sono così forte, Aurora forse l’avrebbe fatto, ma sapere che nella mia pancia c’è qualcosa di suo… Però è un bambino… Oddio, sono così sbagliata…

- Tu non sei niente del genere: sei solo una ragazza spaventata, e detesto dover dire certe frasi banali.

- Di recente ho scoperto che la banalità ha i suoi motivi.

- L’ho appena capito anch’io.

 

 

- È un caso che siamo qui?

Non lo era, Silvia lo sapeva bene, non serviva chiedere: Manuel, senza pensarci, aveva guidato la macchina per diversi chilometri prima di fermarsi proprio là.

Il pensiero di Davide tra le braccia di quella ragazza la faceva soffrire immensamente; aveva stretto più volte le palpebre quella notte, costringendosi a dormire, ma non c’era riuscita.

Davide era lì.

Lo vedeva sorridere nella sua mente, quel sorriso impertinente che le rivolgeva fin dai primi tempi; era bello, poteva scompigliargli i capelli mossi e immaginare il suo sguardo contrariato, poi la mano che afferrava la sua e le regalava un bacio; lentamente le labbra si avvicinavano alle sue e Silvia si detestava perché sognava che fosse ancora con lei, ancora nella sua vita.

Aveva tentato di chiamarla solo cinque volte in quelle due settimane, forse non voleva essere un disturbo: preoccupazione inutile, tanto era sempre presente.

Si accarezzò la pancia distrattamente, mentre la decisione si faceva sempre più forte nella sua testa. Non era per Davide che lo stava facendo, era per lei.

Aprì la portiera, ma Manuel le poggiò una mano sul braccio.

- Vuoi che ti accompagni?

Silvia rivolse un sorriso triste a quello sguardo pieno di sonno e preoccupazione. – Non serve.

L’ospedale era di nuovo davanti ai suoi occhi, a distanza di due settimane. La prima volta era andata lì per sapere se avesse dovuto prendere una decisione, ora ci si trovava perché l’aveva presa.

Inspirò profondamente – quante volte l’aveva fatto in quei giorni? – e scese dalla macchina, avvicinandosi in silenzio mentre il sole illuminava gli infermieri del turno di notte che, assonnati, si incamminavano verso il parcheggio.

Lo stava facendo perché non era giusto tenere quel bambino.

Avvertiva lo sguardo di Manuel sulla schiena, lo ringraziò per quel sostegno che le stava dando. Si fermò davanti al portone, prendendosi qualche momento per riflettere un’ultima volta, anche se la decisione era presa.

Era presa, e allora perché indugiava?

Alzò gli occhi al cielo, li chiuse e cercò di ragionare: era pronta, non doveva fare altro che attraversare quel portone; non sapeva quanto l’avrebbero fatta aspettare, ma sarebbe andato tutto bene. Nessun problema.

Perché indugiare? Perché indugiare? Perché indugiare? Perché abortire?

Spalancò gli occhi, lucida.

Davide non faceva più parte della sua vita.

Ma lei era adulta, era ora di prendere decisioni da sola. Stava vivendo e agendo in funzione di lui.

Far nascere un bambino senza dargli un padre… Era crudele, forse, ma non era neanche un caso eccezionale; avrebbe potuto dargli tutto, avrebbe potuto…

Crescerlo.

 

 

Manuel osservava la copertina del disco dei Lilim, riflettendo su tutto quello che ognuno di loro era quasi sei anni prima, quando si chiamavano Moonlight Sonada e Marco era ancora nel gruppo. Aurora era appena diventata la loro cantante e non riusciva a distogliere lo sguardo da Ettore, che forse era proprio il motivo per cui lei si trovava lì; Simona tentava ancora di riconquistate il suo ex fidanzato e Marco la sosteneva in silenzio, sperando che in quel modo avrebbe potuto avere Aurora tutta per sé; c’era anche Davide, il migliore amico del loro batterista, che si contornava di belle ragazze a ogni concerto e che la timida Silvia – Manuel se n’era accorto subito – osservava di nascosto, senza il coraggio di farsi avanti e conoscerlo. Sei anni dopo, Simona si era ormai rassegnata ed era Aurora quella che stava per sposare Ettore dopo la breve parentesi con Marco – parentesi che non era affatto tale, ma quando se ne fossero resi conto sarebbe stato ormai troppo tardi per entrambi. Sei anni dopo Manuel aveva Heather, la ragazza che aveva conosciuto a Brooklyn e di cui aveva perso la testa in sole tre settimane insieme. Sei anni dopo Silvia era finalmente riuscita a conquistare Davide, ma lui non era ancora cambiato. E l’aveva persa.

La malinconia lo colse all’improvviso, generata da una notte insonne e alimentata dall’empatia che provava per il dolore di Marco e Silvia. Non andava, non andava niente come sarebbe dovuto andare: Marco non aspettava trepidante il matrimonio con la donna della sua vita, Silvia non esplodeva dalla felicità tra le braccia di un Davide in lacrime.

Al contrario, era Manuel a piangere in quel momento, trasportato dall’affetto per quelle persone che stavano soffrendo e per le quali non poteva fare niente: gli era sempre piaciuto immaginarsi come colui che risolveva i problemi di tutti, invece era stato solo capace a crearne altri. Forse, se quella notte avesse dormito, non sarebbe stato così triste e si sarebbe perfino sentito un po’ stupido a piangere per…

Mentre lo pensava rivolse lo sguardo a Silvia, la vide ferma sul portone dell’ospedale. Perché era ancora lì? E poi Silvia si voltò.

Corse verso la macchina di Manuel, una strana luce negli occhi castani, come se avesse appena avuto una rivelazione; aprì la portiera, salì e disse solo: - Vai.

- Dove? – chiese Manuel, disorientato. Anche se forse lo sapeva, anche se forse lo aveva sempre saputo.

- Via, via, lontano, dove ti pare! – rispose Silvia con un enorme sorriso: era emozionata, euforica. Aveva deciso.

Manuel mise in moto, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano e sentendosi finalmente uno stupido. – Ai suoi ordini! – esclamò, allontanandosi più in fretta possibile dall’ospedale, mentre Silvia accendeva la radio e cominciava a cantare, l’alba che appannava i vetri dell’auto.

 

Mentre l’alba ci appanna i vetri,

tu sorridi a un amore nuovo.

Sotto il sole ti porto a casa

ed in macchina vuoi cantare,

sei felice come una sposa

perché adesso lo sai, che fare,

perché adesso ti senti amata

e dai tuoi occhi si vede il mare.

 

 

Silvia camminava lungo la strada che attraversava il parco, mentre i bambini accompagnati dalle madri giocavano e strillavano intorno a lei.

Silvia passeggiava con le mani nelle tasche dei jeans, passando accanto a una coppia di innamorati che si prendeva scherzosamente in giro.

Silvia avanzava in silenzio tra le aiuole e i fiori in una splendida giornata estiva, i raggi del sole che si facevano largo tra le rade e sottili nuvole.

Silvia camminava e non vedeva niente. Se avesse osservato gli alberi, non li avrebbe visti rigogliosi, ma con i rami colmi di foglie rosse, gialle e arancioni; nessuno gridava, nessuno si rincorreva e nessuno si dava teneri baci sulle labbra.

Istintivamente Silvia si portò una mano sul ventre e socchiuse gli occhi, immaginando di sentire battere il cuore del bambino che stava crescendo dentro di lei. O della bambina. In ogni caso, un piccolo senza padre.

Da quando aveva scoperto Davide con un’altra, nel loro letto, nella loro casa, era passato ormai un mese; non lo aveva cercato né aveva risposto alle sue ormai frequenti chiamate. Per due settimane aveva vissuto piangendo negli angoli più nascosti del proprio appartamento, cercando di dimenticare l’anno che aveva passato là dentro con Davide, cercando di dimenticare i suoi occhi azzurri, la sua risata contagiosa, il modo in cui le accarezzava i capelli. Cercando di dimenticare come l’avesse tradita senza pietà per due mesi, privo di qualunque motivazione.

Aveva pianto, si era disperata, indecisa su cosa fare con il bambino. Dopotutto sarebbe dovuto vivere con un solo genitore e lei non aveva che un lavoro da poco, non poteva permettersi di mantenerlo; dopo innumerevoli riflessioni aveva preso la decisione: tenerlo. Avrebbe lasciato quell’appartamento preso con Davide, sarebbe tornata a vivere con i suoi, avrebbe fatto qualunque cosa, ma non voleva rinunciare al bambino.

Dopo avere preso la decisione, davanti al portone dell’ospedale, per qualche ora le cose sembrarono andare meglio: si sentiva euforica, credeva di avere ripreso in mano la propria vita e aveva risposto al primo messaggio che Aurora le aveva mandato – che cosa era successo? Perché era scomparsa anche lei? Solo ora che a Silvia cominciava a importare di nuovo qualcosa del resto del mondo si era resa conto che la sua migliore amica non l’aveva neanche cercata. Non era andata a trovarla, pensò, all’improvviso colta da un’inspiegabile tristezza.

O forse non era troppo inspiegabile.

Sorrideva nell’appartamento vuoto di Roma, senza che nessuno le corresse incontro innamorato o la chiamasse dalla camera per dirle che stavano trasmettendo Harry Potter; finché aveva pianto c’erano state la rabbia e quella tremenda indecisione sulla nascita del bambino, ma ora che aveva scelto l’assenza di Davide le era piombata addosso, fredda come il metallo. Lui non c’era durante la colazione, per questo Silvia aveva cominciato a ordinare un cornetto al bar e in seguito a non mangiare per niente fino al pranzo; non c’era quando si rientrava dopo il lavoro, non c’era quando si raggomitolava nel letto matrimoniale e poteva stringere solo le coperte. Davide le mancava, le mancava maledettamente.

Rabbrividì, avvertendo un freddo improvviso.

Poi qualcosa la scosse, la riportò alla realtà. Una mano si posò sulla sua spalla e una voce la chiamò, una voce amica e allo stesso tempo dolorosa, perché le ricordava lui.

- Silvia?

Le voci dei passanti le arrivavano attutite, poteva sentire bene solo quella di Ettore, il ragazzo che ora la stava fissando con espressione preoccupata. Poi fece un gesto che Silvia non si sarebbe mai aspettata da lui: la abbracciò. Avvertì le lacrime salire agli occhi e la mascella vibrare, come se tutto il dolore che aveva tenuto solo per se stessa in quelle settimane stesse per scoppiare; afferrò la maglietta di Ettore, la strinse con le unghie alla ricerca di un appiglio.

 

 

Dieci giorni dopo Ettore si sarebbe sposato con Aurora, eppure non era la strana felicità che non cessava mai di esprimere la sua fidanzata né il matrimonio imminente a preoccuparlo: era arrabbiato con Davide, lo avrebbe preso a schiaffi fino a farlo sanguinare per ciò che aveva fatto, e in ansia per Silvia, che solo Manuel era riuscito a reperire due settimane prima; era stata una notizia provvidenziale, dal momento che Ettore, dopo averle lasciato quei giusti giorni di sfogo in solitudine, era pronto a buttare giù la porta del suo appartamento per controllare che stesse bene.

- L’ho tradita.

Ettore si immobilizzò alle parole con cui Davide esordì non appena lui ebbe aperto la porta, ma più che ciò che disse furono il tono, gli occhi rossi e le lacrime del suo migliore amico a sorprenderlo. Aveva tradito Silvia ed Ettore, in fondo, si aspettava che sarebbe successo prima o poi: un bacio non premeditato, una ragazza molto bella e disposta ad accoglierlo nel suo letto… Sapeva, però, che sarebbe corso da lui in preda al panico, implorando aiuto perché doveva dirlo a Silvia, doveva spiegare che era stato solo uno sbaglio. Non avrebbe mai immaginato che Davide avrebbe pianto.

- Lei… ci ha trovati insieme… - continuò il suo amico con il fiato rotto.

Questo forse spiegava le lacrime.

Davide si portò una mano alla fronte, continuando a piangere. – Oddio, non posso crederci… Io… io la amo, Ettore… Dovrei amarla, non è vero? Ma per due mesi…

Ettore avvertì una strana fitta allo stomaco. – Per due mesi cosa?

Lo sguardo affranto di Davide bastò come risposta. Ettore gli afferrò il collo della maglietta e lo spinse contro il muro, adirato. Non era per Silvia che si stava infuriando sempre di più, ma per la cocente delusione di Davide: non era affatto cambiato.

Suo fratello era sempre stato un dongiovanni, la prima relazione seria era stata proprio quella con Silvia; fino a quel momento aveva avuto tantissime donne, alcune delle quali erano durate diversi mesi, ma erano state tradite da lui più e più volte. Tutte ragazze dalle gambe lunghe e dal poco cervello, non meno innamorate di Davide come lo era stata Simona di lui – almeno negli ultimi tempi – quando non faceva altro che trascinarlo con sé per mostrarlo alle amiche come un trofeo. Poi era arrivata Silvia e il mondo di Davide era crollato, perché per la prima volta aveva trovato una ragazza che per lui fosse importante quanto, se non più, di Ettore, una persona timida, ma dotata di cervello e in grado sia di essere una complice di Davide nelle passioni che avevano in comune, che di tenergli testa.

Ettore aveva creduto veramente che Davide fosse maturato.

- Tienila d’occhio per me, ti prego, perché non vuole vedermi… Controlla che stia bene…

Due settimane, la notizia portata da Manuel e poi altri giorni perché Ettore cominciasse a cercare Silvia senza piombarle in casa, ma gli impegni per il matrimonio lo tenevano lontano dall’obiettivo; poi, quel pomeriggio, l’aveva trovata.

E ora erano seduti su una panchina di fronte al laghetto dell’Eur, Ettore in silenzio mentre Silvia gli raccontava tutto. Tutto.

Di come Davide le avesse chiesto in un momento di follia di avere un bambino, di come in quel periodo lui stesse già frequentando un’altra, di come Silvia avesse saputo della gravidanza solo un’ora prima di scoprire il tradimento, di come non avesse voluto piangere sulle spalle di Aurora perché la sapeva troppo indaffarata con il matrimonio in arrivo, di come dopo due settimane avesse trovato il coraggio di chiamare Manuel e farsi portare da lui all’ospedale, di come all’ultimo momento avesse deciso di portare avanti la gravidanza perché non dipendeva da Davide, perché né lei né il bambino dipendevano da quel fottuto Davide.

Gli raccontò tutto ed Ettore la ascoltò, pazientemente, fino a che la voce di Silvia si spezzò.

- Davide è venuto da me quel giorno, - le rivelò, - nemmeno io sapevo di… di lei. Mi ha assicurato che non era importante, ma non è bastato a farmi placare: l’avrei ammazzato di botte se solo non fosse il mio migliore amico da anni.

- Se non era importante, perché lo avrebbe fatto? – chiese prevedibilmente Silvia con un sorriso triste.

- Avevo paura.

- Chi lo sa? Perché è un bambino, perché non è capace di fare le cose nel modo giusto, perché…

- Avevo paura.

Ettore scacciò ancora una volta quel pensiero: era la motivazione più stupida che avesse sentito, eppure, proprio per questo, l’unica vera. Sospirò, arrendendosi.

- Perché aveva paura.

- Di me? – L’irritazione di Silvia era percepibile nel tono sarcastico con cui replicò. – Aveva paura di essersi innamorato?

- Non ha mai avuto una storia seria prima di te, Silvia. Siete andati a vivere insieme, non sono cose che si fanno con tutti…

- E questo lo giustificava a tradirmi, Ettore?

“Come Aurora ha tradito Marco con te,” sembrava dire Silvia.

- Non lo sto difendendo, credevo di essere stato chiaro: io non tradirei mai Aurora perché sono sicuro di voler passare tutta la vita con lei, sono sicuro che mi ama.

Lo sei?

Ettore scacciò anche quel pensiero, tentando di concentrarsi sul problema di Silvia. Tuttavia, quando le rivolse nuovamente lo sguardo, la ragazza si stava già alzando.

- Dove vai?

- Torno a casa, - rispose semplicemente lei, legando i lunghi capelli castani in una coda. – Ho deciso di prendermi cura del bambino e per iniziare dovrò rinunciare all’appartamento che avevamo… All’appartamento. Non posso permettermi di pagare l’affitto con le nuove spese in arrivo; ho già cominciato a mettere via qualche vestito, ma devo finire di riempire gli scatoloni prima di giovedì, quando i miei verranno ad aiutarmi per il trasloco -. Abbassò lo sguardo al ventre, una rapida occhiata, poi si fermò a osservare il laghetto di fronte. – A proposito, dovrò trovare anche il modo di dirgli che avranno un nipotino, - concluse con un sorriso amaro.

- Vuoi che ti dia una mano?

- Non serve, grazie, e poi… forse sarebbe anche peggio: mi sentirei in colpa a sottrarti ad Aurora durante i preparativi per la cerimonia.

- Ti preoccupi troppo, Silvia -. Anche Ettore si alzò dalla panchina e salutò l’amica con un leggero bacio sulla testa. – È questo che ti frena.

 

 

- È questo che ti frena.

Le parole di Ettore risuonavano nella testa di Silvia incessantemente, come se volessero suggerirle qualcosa. Si riferiva forse alla rottura con Davide? Secondo lui avrebbe dovuto perdonarlo? No, si rispose, era stato proprio Ettore a dirle che si era arrabbiato con lui come non aveva mai fatto prima. Però…

L’ascensore si bloccò al terzo piano e il rumore della porta che si apriva rimbombò nel silenzio del condominio. Silvia frugò nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa – aveva il pessimo vizio di non tenerle mai in mano, nemmeno subito dopo avere aperto il portone del palazzo – finché il tintinnio del metallo sostituì il fracasso dell’ascensore; osservò le diverse chiavi, cercando quella rossa che serviva per la porta del suo appartamento, ma una voce vicina la immobilizzò.

- Avevo pensato a una serenata, poi però mi sono ricordato che non è il tuo genere.

Silvia deglutì avvertendo l’odore di Davide alle sue spalle – non avvertiva alcun profumo, aveva perennemente il naso chiuso, e allora perché quello di Davide si manifestava sempre prepotentemente, facendole dimenticare tutto il resto? Cercò di darsi un contegno e, dopo avere trovato la chiave, la infilò nella toppa della porta e girò, il mento sollevato e lo sguardo deciso rivolto all’appartamento che le stava apparendo davanti.

- No, è Aurora ad amare queste cose.

- Lo suggerirò a Ettore, visto che ha paura che non voglia più sposarlo.

Silvia si voltò di scatto, sorpresa da quelle parole; la vista del volto del suo ex ragazzo, dei suoi brillanti occhi azzurri la fece vacillare, ma cercò ancora una volta di sembrare tranquilla. Almeno per quanto concerneva la sua vicinanza.

- Che intendi dire?

- Non è successo niente, a quanto ne so, - rispose Davide, passandosi nervosamente una mano fra i capelli chiari, - ma sembra molto agitata, Ettore teme che ci stia ripensando…

- È normale essere agitata qualche giorno prima delle nozze.

Non convinse neppure se stessa: Aurora aveva sempre sognato di sposare un uomo come Ettore, il suo turbamento non doveva essere dovuto a dei dubbi; tuttavia la parola che risuonava nella mente di Silvia era “Marco”. Possibile che, a cinque anni di distanza, il ragazzo si fosse deciso a fare il passo? A tentare di riconquistarla?

Avvampò improvvisamente quando si rese conto che Davide non aveva più detto niente, che era di fronte a lei, che stavano parlando di Ettore e Aurora piuttosto che di loro due.

Tre.

- Entra.

Lo precedette nell’appartamento e si diresse verso la cucina per prendere qualcosa dal frigorifero. Forse per lei e Davide non c’erano più speranze, però lui avrebbe continuato a far parte della sua vita, in modo da poter stare accanto al bambino; non sarebbe fuggito, ora ne era certa – nonostante non ne comprendesse il perché – e parlarne di fronte a una fetta di torta e una tazza di caffè avrebbe reso la situazione molto più simile a una riunione d’affari. Potevano discutere fin da subito di come il bambino avrebbe passato le vacanze, di chi lo avrebbe tenuto per Natale e di quali sarebbero stati i suoi padrini, ma non sarebbe stato l’ambiente adatto per parlare di loro. Trovò una torta di mele e la mise su un vassoio, trattando Davide come un ospite e dimenticando volontariamente che, fino a poco tempo prima, anche lui abitava lì. Che anche lui aveva usato quel vassoio per servire Ettore o Manuel. Che anche lui aveva rovistato nella credenza per cercare la caffettiera.

Eppure Davide non era un semplice ospite: Silvia tentava di comportarsi in modo naturale, ma allo stesso tempo evitava di voltarsi e ricordarsi così della sua presenza. Aspettò finché non fu pronto il caffè per farlo, poi gli porse una tazzina e afferrò una fetta di torta, che tuttavia lasciò presto abbandonata nel piatto perché, a ogni battito di palpebre di Davide, il suo stomaco minacciava di smettere di funzionare.

- Sono riuscito a farmi rivolgere la parola tirando in ballo Aurora ed Ettore, - osservò Davide dopo qualche altro minuto di silenzio.

- Mi ero preoccupata.

- Ti preoccupi troppo, Silvia.

E in attimo la frase di Ettore risultò chiara.

- Hai parlato di loro perché sapevi che così non ti avrei sbattuto la porta in faccia?

- Già -. Davide si passò la tazzina ancora piena di caffè tra le mani tremanti, ma non sembravano i ventotto gradi che regnavano nell’appartamento a disturbarlo. – Sapevo che i problemi degli altri sono il tuo punto debole: ti comporti sempre come se le tue preoccupazioni possano essere messe da parte per accorrere a salvare gli amici. Chi hai chiamato quando non sei più riuscita a trattenerti?

Per qualche motivo, sembrava una domanda retorica. Non aveva chiamato la sua migliore amica o Ettore, entrambi immersi nei preparativi per le nozze, e non aveva nemmeno chiamato Marco, intuendo quanto stesse soffrendo in quel periodo.

- Manuel. Come fai a saperlo? Te ne ha parlato?

Davide scosse la testa. – Due giorni fa ho trovato un enorme “STRONZO” scritto sulla mia auto. Sulla portiera, intendo, non sul parabrezza: qualcuno l’aveva rigata.

Suo malgrado, Silvia trattenne a stento una risata che a Davide non sfuggì.

- L’unica persona che poteva essere stata era lui, ma anche tu potevi avermi seguito nel parcheggio della Conad all’angolo per tendermi un agguato… Poi però ogni dubbio è stato chiarito quando sono entrato in sala prove dopo settimane e Manuel mi ha lanciato uno sguardo assassino. Mi chiedo solo come avrebbe reagito la vecchietta del secondo piano se Manuel avesse confuso le due auto!

- Davide -. Finalmente Silvia trovò il coraggio di portare gli occhi verso i suoi, deglutendo a fatica; lui ricambiò e aspettò che parlasse, di nuovo serio. – Aspettiamo un figlio.

Aspetto un figlio.

Aspetto un bambino.

Sono incinta.

Silvia avrebbe potuto dirlo con svariate formule, ma scelse inconsciamente di utilizzare il plurale, di includere Davide in quell’affermazione. Era il padre, dopotutto.

- Da quanto?

- Ne sei certa?

- Sono io il padre?

Questa volta fu Davide a sorprenderla: non fece domande, si limitò a boccheggiare e a sbattere le palpebre per qualche secondo; poi saltò in piedi, afferrò la vita di Silvia e, mandando goffamente il piatto con la torta a infrangersi per terra, la sollevò in aria. La fece volteggiare più volte, il volto in preda all’eccitazione e anche Silvia sorrise suo malgrado. Quasi non se ne accorse, ma le labbra si erano distese naturalmente, come se in cuor suo non aspettasse altro.

Davide le faceva ancora battere il cuore. Non era la solita storia del “ragazzo bastardo”, quel tipo di persona che una donna si illude ostinatamente di redimere, non si trattava neppure dell’inerzia che spinge un rapporto durato anni a prolungarsi nel tempo. Silvia amava Davide – nonostante l’avesse tradita per paura di una relazione seria, nonostante non fosse ancora maturato, nonostante avrebbe potuto ferirla ancora.

E quel sentimento, almeno per il momento, bastava.

Forse un giorno, non tanto tempo dopo, si sarebbero lasciati, forse al secondo tradimento lei avrebbe chiuso definitivamente la storia con lui, però al momento c’era un figlio di cui occuparsi ed era meglio andare avanti così.

 

 

Silvia afferrò la copertina che avvolgeva il neonato e la sollevò leggermente per coprirgli anche il piccolo collo; tenne suo figlio stretto tra le braccia con enorme attenzione, cullandolo lentamente nonostante fosse già immerso nel mondo dei sogni. Cercando di fare più silenzio possibile, posò l’esile corpicino nella carrozzina accanto al tavolo e accarezzò delicatamente i pochi capelli biondi.

Si concesse un rapido sospiro di fatica prima di apparecchiare, maledicendosi ogni volta che faceva tintinnare un bicchiere contro l’altro e che il bambino, di conseguenza, emetteva un suono molto simile allo sbuffo. Era certa di essere ormai al sicuro dall’ennesimo pianto del giorno finché qualcuno non suonò alla porta, svegliando il neonato e facendolo agitare nella carrozzina.

- Su, su, amore, va tutto bene… - tentò di calmarlo Silvia dopo averlo ripreso in braccio. Si avvicinò alla porta, maledicendo ora chi sapeva trovarsi dall’altra parte, e infine aprì, scocciata. – Sei arrivato, finalmente.

Davide, i capelli più arruffati come quelli di Silvia erano ora più corti, le rivolse un’espressione di scusa e afferrò suo figlio tra le braccia nude.

- Scusa, ho avuto dei problemi a lavoro… Ehi, piccolino, come stai?

Mentre giocava con il nasino del bambino, Davide allungò una mano verso la tavola imbandita, ma Silvia gli diede un leggero schiaffo.

- È per gli ospiti, abbi almeno la decenza di aspettare!

Sapeva di essere acida quando passava troppo tempo in compagnia del figlio appena nato, che sembrava essersi promesso, scaraventato violentemente fuori dal tranquillo calore dell’utero materno, di rendere la vita della madre un inferno, piangendo tutte le notti a intervalli di due ore e agitandosi più in sua presenza che quando si lasciava accarezzare dalle mani gigantesche del padre. Per fortuna anche Davide sapeva cosa frullava nella testa di Silvia e, invece di prendersela come avrebbe fatto un tempo, le sorrise dolcemente e le stampò un casto bacio sulle labbra.

- Gabriele ha fatto il bravo oggi?

- Più del solito, - rispose ironicamente Silvia, osservando innamorata il corpicino che Davide stava cullando. – Hai sentito Ettore? Posso aggiungere un posto per lui o…

Davide sbuffò, rassegnato. – Ha inventato una scusa anche per oggi. “Devo lavorare al cantiere,” ha detto, ma so che avrebbe trovato il modo di farsi sostituire qualche ora per venire a trovare Gabriele. Prima o poi gli passerà. Manuel?

- A quanto sembra è partito con Heather.

- Quando? Non lo sapevo.

- Stanotte. La solita storia: erano stati troppo tempo senza viaggiare, volevano visitare posti nuovi… e sono volati a Las Vegas.

- Dieci euro che tornano sposati.

- Sei pessimista, io ne ho già scommessi cinquanta con il fratello di Manuel. Che si sarebbero sposati lì, intendo.

- Per cui stasera saremo solo noi, Marco e Aurora.

- Esattamente.

- E invece sta ancora dormen…

- Pa.

La domanda di Davide venne interrotta dalla vocina arrabbiata di una bambina; l’uomo restituì il secondogenito a Silvia e si inginocchiò davanti alla “figlia prediletta” – sebbene la sua ragazza odiasse che la chiamasse così.

- Cosa c’è, Laura?

- No mmai sautato.

- Hai ragione! – Davide si diede uno schiaffo sulla fronte e sollevò Laura per cercare di toglierle il costante broncio dal viso lentigginoso. – Ma non mi ero dimenticato di te, credevo stessi dormendo. Sai che papà non si dimenticherebbe mai della sua… Chi sei tu?

- A sua pincipesina! – rispose la bambina ridendo mentre il padre la faceva volteggiare in aria.

Silvia osservò ogni minimo dettaglio: le guance di Laura che diventavano rosse, la manina di Gabriele che le stringeva il dito, l’espressione felice che ormai era impossibile togliere dal volto di Davide. Gli occhi azzurri dell’uomo con cui viveva, del padre dei suoi figli e forse, un giorno, del suo futuro marito – ma non importava, a lei andava bene così – incrociarono il suo sguardo, luminosi, raggianti di felicità.

Bastava.



Buonasera (credo, ormai) a tutti quelli che sono arrivati fin qui: vi ringrazio profondamente.
Prima di parlare della storia in sé, vorrei spiegare che i personaggi che sono apparsi in queste righe fanno parte di una serie e che la storia di partenza si intitola Sulle note di Cat Stevens - i cui protagonisti sono Marco e Aurora, qui solamente citati. Credo che non abbiate avuto problemi a leggere questo racconto, però, ho cercato di riassumere alcuni eventi che accadono nelle altre storie della serie (e principalmente nella prima).
I versi che appaiono ogni tanto all'interno della storia sono tratti da Cenerentola innamorata di Marco Masini, ma ho voluto basarmi su questa canzone (di cui nel testo sono rintracciabili diverse citazioni) solo per due terzi del racconto; l'occhio che ho scelto come immagine, inoltre, appartiene a Jude Law, che da qualche mese è diventato nella mia testa il prestavolto di Davide.
Sono consapevole del fatto che il finale lasci un po' l'amaro in bocca: Davide ha tradito Silvia per due mesi, perché lei dovrebbe perdonarlo? Forse sarebbe stato meglio scrivere di un nuovo personaggio che avrebbe conquistato il cuore della ragazza, che l'avrebbe aiutata a dimenticare Davide e a crescere la bambina; in fondo lui si è comportato male, "non merita" di essere felice accanto a Silvia.
Ma non sarebbe stata la realtà. Davide ama Silvia, nonostante tutto, e lei lo ricambia, nonostante tutto. E questo "le basta", le dà la speranza di credere che un giorno lui possa finalmente maturare; cosa che, in effetti, avverrà, altrimenti non avrebbe deciso di far nascere un secondo bambino, se non avesse avuto la sicurezza di dargli una famiglia.
Perché questo titolo, allora, se il messaggio che la storia trasmette (un messaggio che non vuole dare consigli, ma è rivolto solo a questi due personaggi) è ben diverso dal film Closer - in cui, tra l'altro, recita lo stesso Jude Law? Per l'amaro in bocca, appunto: non sto spoilerando il finale, mi riferisco all'amarezza di diverse scene del film. Avevo pensato anche a Cenerentola innamorata, ma avrebbe coperto solo una parte della storia.
In più closer significa "più vicino": al termine del racconto, Silvia e Davide, nonostante gli ostacoli (messi anche da loro stessi), si sono avvicinati più di quanto lo fossero stati fino ad allora, quando Davide aveva ancora paura di un rapporto duraturo e Silvia viveva nella paura che lui potesse tradirla.
Se vi interessa leggere altro su questa coppia, potete scoprire la nascita del loro amore in Cosa sarebbe il mondo senza Capitan Uncino?

Ringrazio ancora tutti coloro che hanno letto e che recensiranno, metteranno la storia nelle preferite/ricordate o anche solo cliccheranno su quel "mi piace" in alto per consigliare ad altri questa lettura.
Una menzione speciale merita ferao, la beta di questa storia. Grazie, twincest <

Medusa
   
 
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