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Autore: Lisa_Pan    04/02/2013    1 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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11 rocking horse

Rocking horse

“Non ricordo come ci sono arrivato. Uno a volte si lascia convincere, lascia che siano gli altri a decidere. Non significa che mi fido, semplicemente non mi va di sforzarmi di cercare ragioni per cui dire di no. Ne troverei, molte, ma non ho voglia. Dire di no significa privarsi di qualcosa e poco conta se quel qualcosa sia una buona manica di errori, ti prendi quello che viene senza fare storie, senza aprire bocca, semplicemente stai a guardare come le scelte di qualcuno si sposino perfettamente con quel cumulo di massi che rotola giù per la scarpata insieme a buona parte del tuo buonsenso. Dico, a volte bisogna metterlo da parte il buon senso.”

“Non so bene quale sia il momento giusto, di mettere da parte il buonsenso intendo, non so quale sia; semplicemente ci sono quei secondi decisivi in cui decidi di buttarti in questa o in quella cosa lasciando perdere quella vocina martellante che ti frena e ti ricorda che sei più vicino al farti male di quanto pensi.”

“Ah, ah. Rido perché questo è uno degli errori migliori in cui mi abbiano spinto. E’ una di quelle cose che ti allontana da casa, ti spinge in quel baratro di solitudine che prima di allora non sapevi nemmeno esistesse. In un certo senso conosco le vostre case: calde, accoglienti, c’è sempre qualcuno che vi aspetta, che si tratti anche solo di una foto da guardare la sera; c’è sempre quel piatto caldo o pronto nel frigo. Non fraintendetemi, mi piaceva  quella vita, era comoda ma un po’… stretta. Sì, stretta, come i pantaloni che ho buttato la sera scorsa, erano di quelli che lasciano metà della pelle scoperta. Mi piacevano, erano i miei preferiti, vero J? Lui ne sa qualcosa, una volta ha provato a scriverci su, vuoi raccontargli cosa ho fatto J? Immagino di no, ha dovuto ripensarci. Beh, quei pantaloni, dicevo, li ho buttati la sera scorsa. Un lancio preciso, dritti nel cesto della spazzatura. Erano stretti, dicevo, come le quattro pareti di casa mia e come il pranzo insacchettato e messo al caldo nel forno.”

“Era un buon pranzo. Pollo, mia mamma era davvero brava col pollo, morbido e saporito, con le patate. Le patate erano la parte che mi piaceva di più. Quindi, dico, non era proprio una vitaccia quella che ho abbandonato nel furgone di qualche netturbino. Ho preso vagonate d’insulti per questa cosa. Irresponsabile. Potrei usarlo come secondo nome, suona bene, no? Sì, beh, è vero e questa consapevolezza ha sempre reso difficile il mio rapporto con gli altri. Scommetto che molti di voi riderebbero di gusto se raccontassi loro quante finestre mi hanno rigettato in mutande su un giardino sempre troppo affollato. Riderei anch’io, anzi rido, proprio adesso.”

“E beh, insomma, quella finestra, la prima, era alta.”

“Però l’ho saltata… ovviamente… e il giardino era deserto. C’erano solo questi qui alle mie spalle che raccoglievano pezzi di me per il prato di fronte casa mia, sotto gli occhi di mia madre. Mia madre vi odia ragazzi, ve l’ho già detto vero? Beh, non preoccupatevi, non vi odierà mai quanto odia me. Perché mi amava, un tempo. E beh… quando ami una persona, la ami veramente…”

“No, sentite, questo davvero non è un discorso sentimentalista, non guardatemi con quegli occhi perché le vostre… le vostre aspettative, le vostre speranze, verranno disilluse. Le distruggerò e voi mi guarderete mentre lo farò. Quindi lasciate perdere e ascoltate, oppure se non volete ascoltare prendetevi una birra e scopatevi qualcuno nel bagno, quello che dico non ha niente a che fare con l’amore che immaginate.”

“Pochi amano veramente. Perché fa male, amare fa male. Ecco uno che si alza. Beh fai bene amico, perché è la fottuta verità. C’è questa moda, di definire l’amore colorato, non so, ci vedete tutti arcobaleni? Ci vedete fiori nell’amore? Quel dannato cuoricino gonfio e tondo chi diamine lo ha disegnato la prima volta? Il cuore è un muscolo, pompa sangue e non fiori, il sangue sa di ferro non di zucchero. Il ferro arrugginisce, corrode, e il sangue corrode l’anima. Intendo quando ami, il sangue ti corrode l’anima.”

“E l’odore di ruggine impregna l’aria e i muri. E fuggi da una finestra perché non ne puoi più.”

“Questa canzone è la testimonianza di quanto io riesca ad amare ancora nonostante faccia male. Non ho più ossa in questo corpo, solo pezzi di ferro corroso che si muovono cigolando. Perché amo, amo un buco nero al centro di quella finestra, perché, nonostante…”

“Perché, nonostante ne sia uscito fuori, lei rimane aperta, sempre, ogni volta che ci passo, perché continuo a passarci, quella sta aperta. Sono  buco nero, lei e mio padre. Ecco di cosa parla questa canzone, parla di un buco nero che mi perseguita. Perché se amate, se amate veramente, quella persona, quella cosa, continua a muovere passi insieme a te, come un’ombra , come una presenza alle tue spalle.”

“E quello che fai lo fai per lui, per lei. Ti getti da una finestra perché vuoi indipendenza e ti ritrovi con la tua dipendenza che ciondola dietro di te. Non dipende da te, quello che ti hanno dato mentre amavi ti si cuce addosso come una seconda pelle, quindi ti prendi i debiti di una vita che non ti è mai appartenuta ma che adesso ti veste come una tuta troppo aderente. Perciò questa canzone è per lui, ma anche per me o per noi. Insomma, per chiunque ha fatto l’errore di amare almeno una volta nella sua vita, e si può amare anche un microfono, o un buco nero al centro del cervello, o… una lapide”

Father...ooh...oh...oh...

I see the world, feel the chill

Which way to go, windowsill

I see the world's on a rocking horse of time

I see the verse in the rain

“Ma… qualcosa c’è che mi manca di casa. Non è tutto così negativo come potete vedere. In realtà non c’è nulla di negativo, tutto questo… questo…”

“Tutto questo amare e farsi male. In realtà, per quanto ne possa essere consapevole, del dolore intendo, continuo a fare quello che faccio, a provare quello che provo, perché è quello che siamo. Se fa male significa che siamo vivi. Siamo carne da macello e ci lasciamo macellare perché ci piace, in fondo. Queste canzoni, questa… musica, sono la prova che non ho smesso di sanguinare, non esistono cerotti, non esistono punti, quando sai che non puoi fare a meno della vita così com’è, lasci che il tuo corpo ti faccia scivolare in quello stato di anemia che ti porta ad assumere ferro per compensare quello già corroso. E’ così che deve andare ed è così che va. Perciò in tutto questo macello, macello in senso figurato, macello di braccia, gambe e intestini, c’è quella cosa che…”

“...mi manca. Qui voi avete la pioggia, ed è meravigliosa, con quel suo silenzio ritmico che ti martella in testa come un picchio, tu stai lì seduto dentro una casa che immagino calda e guardi scendere giù secchiate d’acqua. Ma dentro le pareti di casa tua c’è rumore, no? O un silenzio diverso che è comunque rumore, ma c’è. Vero? Il ragazzo in prima fila sorride, probabilmente non ha capito un cazzo ma sorride. Come ti chiami? Beh, lascia perdere, sorridi pure.”

“ La mia domanda è… come cazzo fate a restare lì dentro? Insomma non vi viene voglia, che so, di sfondare la porta e uscire? Non vi viene voglia di correre e impregnarvi i capelli di merda grigia che finite per ingurgitare se non dalla bocca almeno dagli occhi? E dico, lo fate no? Vi prego ditemi di sì perché è quello che farei io, qui la pioggia è più bella. Può esserlo, vero? Beh lo è, vivete in un posto in cui il rumore nemmeno vi tocca e vivete di questa pioggia che è ancora più atroce del solito. Qualcuno di voi ha davvero il coraggio di parlare sotto quelle gocce? Non vi viene voglia di gettarvi a terra o sul corpo di qualcuno? Credo che anche il sesso diventi… boh, esalazione? Cazzo, non significa niente e me ne rendo conto ma ha un senso suo in fin dei conti. Esalazione di vapori, ho questa immagine della goccia che cade su un culo nudo ed evapora. Così, nel nulla. E tu respiri il calore della pelle del tuo culo o del suo. Nudi, stesi a terra, con la pioggia che vi evapora addosso, i respiri, gli affanni e i gemiti diventano più profondi delle parole. La verità è che senza il rumore nessuno sarebbe capace di parlare, a nudo dico, parlare di se stesso, delle proprie paure. Sarebbe come una libera caduta senza paracadute, nessuno si aspetta un atterraggio morbido. Perciò l’unica cosa che puoi fare è gettarti sul corpo di qualcun altro, in modo che le sensazioni parlino attraverso la tua eccitazione. Siamo dei cagasotto. Dei cagasotto con le chiappe all’aria. Scommetto che la metà di voi resta a guardare la pioggia e lascia la merda grigia agli altri, eh?”

“La prossima canzone parla di quei poveri stronzi che invece vivono di quei momenti, vivono aspettando che l’acqua torni a scendere giù. Siete gli stessi stronzi che amano e siete gli stessi che desiderano la pioggia solo per fiondarsi sul corpo di qualcuno, che non è chiunque ma è qualcuno come voi, come noi… come me. La prossima canzone parla di ciò che mi manca, è qualcosa che assomiglia alla vostra merda grigia. E’ l’oceano.”

Waves roll in my thoughts

Hold tight the ring...

The sea will rise...

Please stand by the shore... 

Oh, oh, oh, I will be...

I will be there once more

“Sì, beh. Anch’io aspetto, però aspetto un’onda. E’ sempre acqua, è sempre merda, però è blu e fa un casino assurdo. La prima volta che ho incontrato i ragazzi della band ho cantato questa canzone. Ho ribaltato una sedia e ho preso a sbatterci su le mani in preda all’eccitazione. Gli avevo spiegato che non era mia, era del mare in un certo senso, apparteneva a lui e io non cantavo, sputavo acqua dai polmoni. Quel picchiare contro la sedia doveva somigliare al casino delle onde. In realtà era un casino e basta e mi hanno tirato via a calci nel culo. Lo avrei fatto anch’io, insomma. Poi mi hanno richiamato e mi hanno detto che il testo non era male e che la voce andava bene, ma non dovevo provare mai più a fare quella cosa con la sedia.”

“E beh, ho smesso di fare quelle cose lì, ho smesso di fare l’idiota ma l’idiozia s’impossessa ancora di me… o di qualche parte di me. Ho scelto di fare musica perché è merda immateriale. E’ come l’acqua, solo che ti soffoca senza che tu te ne renda conto. Ti senti nessuno e nessuno è un bel modo di sentirsi. C’è chi dice il contrario e poi scopre che essere qualcuno fa schifo; il problema è che tutti noi siamo qualcuno e non conta quanto ci piacciamo o meno, arriverà sempre quel momento in cui nessuno, sarà esattamente ciò che vorremmo essere. Semplicemente per smettere di sentire e permettere a qualcuno o qualcosa di mostrarci… no, di vivere, sì di vivere di semplici sensazioni di cui non siamo capaci. Non da soli. E’ merda immateriale, no? E io faccio merda immateriale per permettere a voi stronzi di uscire da quella porta e prendervi la vostra pioggia.”

“Buona serata gente, uscite, svestitevi e imparate a vivere”.

***

“Non piove da una settimana…”

“Scusa?”

“Non piove da una settimana”

“Ah… sì, beh, capita”

“Dico, non piove da una settimana. Non puoi arrivare qui e sparare cazzate come un fottuto stronzo che la sa lunga sulla vita, sai? Puoi averne passate tante, puoi esser scappato da una finestra e aver dedicato la tua vita alla musica ma questo non ti permette di parlare in quel modo. Perché sai… qui c’è gente che…”

Un lungo sorso. Ingoia. Respira.

“C’è gente che ci crede in quelle cose, c’è gente che vive di quelle cose. E ti conviene davvero aver capito quello di cui parlavi lassù, perché hai convinto molte orecchie, molte più di quelle che hai disgustato. Hai una responsabilità addosso, anche se ti chiami irresponsabile, anche se pensi di poter fare o dire quello che vuoi, quelli ti seguiranno come capre. Tu non sai in che guaio ti sei cacciato.”

Stavolta respira solo, con un gomito che scivola sul bancone liscio del bar.

“E tu?”

“Io cosa?”

“Ti ho convinto?”

Ride. Ridono entrambi.

“Amico, io non ho bisogno di esser convinto. Non piove da una settimana.”

“Ci credo. Quello che ho detto sul palco, dico. Io ci credo e… la musica. Un nastro che gira, senza incepparsi mai, è come pioggia incessante, è oceano. Quindi la risposta è: la musica. Suoni la batteria?”

Si guarda le dita e ringhia, sopprimendo la rabbia che s’infrange contro una dentatura perfetta, bianca.

“E’ una questione di sopravvivenza, è il motivo per cui aspetto la pioggia. Quindi sì, suono la batteria ma non è per… questo motivo. Quelle dita non stanno ferme nemmeno in quel caso. Non le fermi, mai. Beh, quasi mai.”

“Immagino sia lei”.

“E’ questo che fai? Tiri conclusioni sperando che siano quelle giuste? Quanti ne hai incontrati finora che non ti abbiano spaccato la faccia? Beh, non importa. E’ lei, ma non devi guardarle gli occhi, o quel visino, non devi guardarla in generale. Devi ascoltarla e, se ci riesci, devi ascoltare quello che ascolta lei. Provaci, valle vicino e prova a capire che dice, provaci, fallo. Vai, ti dico, è innaturale, non esiste. Tu parli di buchi neri, lei è un buco nero. Assorbe tutto quello che le si avvicina, lo fa senza farsi notare, ti sfila le mutande sotto il naso, in un certo senso. Non prova nulla, è una lavagna vuota su cui scrivere e lascia che gli altri scrivano su di lei, perché ne ha bisogno, ha bisogno di vita e io ne ho troppa e non piove da una dannata settimana.”

“Quindi che fai? Aspetti che scenda giù una cazzo di goccia? Dico, allora non ascolti, no non guardarmi così, tu non ascolti. Allora fallo adesso e chiudi quella cazzo di bocca, smetti d’ingurgitare merda e ascolta.”

***

“Mi è capitato una volta d’incontrare qualcuno. A tutti capita d’incontrare qualcuno, a me no. Io incontro qualcuno raramente, insomma io incontro qualcuno che abbia da raccontare una volta ogni… una volta ogni mai. Perché non c’è mai nessuno che abbia voglia di raccontarsi, raccontarsi per davvero, con le parole che gli girano in testa, solo quelle tre o quattro parole che si legano tra loro per formare un discorso, il resto caos, caos che racconta, un caos che mi fa capire e che mi riempie. E beh, io ho incontrato questo qualcuno che mi ha raccontato di aver perso una figlia, lungo il ciglio di una strada. Ero piccolo ma abbastanza grande per capire. Non è mai tornata ma l’ha vista sopravvivere, con i suoi enormi occhi da adulto, l’ha vista cadere a terra e rialzarsi con la testa sanguinante, pronta a sentire le ossa cedere e i muscoli gemere. Ma non si è mosso, era pronto a perderla e ha lasciato che quella sensazione divorasse quel senso di paternità che ti spinge a gettarti in strada per salvare tua figlia. Era pronto a perderla. Sono rimasto colpito dai suoi occhi vuoti, non c’era nulla, così è stato facile immaginare quell’uomo in piedi a guardar sua figlia morire. Ma non è morta. Si è rialzata e si è seduta sul marciapiedi. Il vuoto in testa e la gola secca.”

“Questa canzone è per lei, ovunque lei sia. Questa canzone è per chi aspetta, fermo sul marciapiedi, di perdere l’unica persona che potrebbe farlo sentire vivo senza aver paura di esplodere. Chiunque creda che parli d’amore deve alzarsi e andarsene, perché questa si chiama disperazione e voglia di condividere, condividere il pieno con qualcuno che è vuoto. Vorrei che chiunque stia lì, in piedi, a ciondolare… sostanzialmente chiunque stia lì a non fare un cazzo della propria vita, adesso si svegli e afferri quel briciolo di salvezza che gli viene offerta. Quindi, questa canzone è per voi, pezzi di puzzle, glicerina… errori. Ascoltate e spalancate quella bocca solo per incastrarvi tra di voi, anche se non piove.”

i can feel like i

have a soul that has been saved

i can feel like i've

put away my early grave

cut to later, now you're strong

you've bled yourself, the wounds are gone

it's rare when there is nothing wrong

survived and you're amongst the fittest

love ain’t love until you give it up

***

“Abi..”

“Questa canzone… questa canzone parla di me. Non tutta, no. Credo solo quei versi. Cut to later… quei versi, parlano di me, Imre. Mi sono svegliata su un marciapiedi, mi faceva male la testa e non ricordavo nulla. Io… ero sola, cercavo qualcuno ma… io non sapevo, non ricordavo… chi diamine cercavo? Come? Volevo solo sentire… Imre io voglio sentire… Imre io…”

La paura. E’ una sensazione, la paura è una sensazione e rimbalza nel suo corpo, le tremano le mani e la voce sovrasta la musica. La sua voce. La sua voce che è sempre stata un sussurro, la sua voce che solo la pioggia sapeva ascoltare. Via i sussurri, solo paura. Vuole sentire e sta sentendo, ma non ha limiti, deve assorbire e assorbe anche la sua, di paura. Paura di esplodere. Tic, tac. Imre, il tempo corre, la canzone va avanti, la musica finirà, come la pioggia. Tic, tac. Imre, fai quel dannato passo e ferma la sua paura. Limita le sue sensazioni a un confine umido che sa di birra.

Tic. Tac.

Tic…

L’hai salvata. Hai salvato lei e hai salvato te. Con le mani sulle sue guance, con gli occhi fissi nei suoi, spalancati e tremanti, con le pupille dilatate e le sensazioni immerse in quel mezzo centimetro che divide i vostri sguardi. E l’odore di birra sparisce insieme al fastidioso tintinnare dei bicchieri e quel cigolio snervante della porta del bagno. Gente vi cammina intorno, vi vomita sui piedi e vi alita nelle orecchie. Ma voi siete lì, con le labbra incollate, incapaci di muovervi, incapaci di respirare. Tu finisci in lei e lei continua in te, tu lei dai rumore e lei ti da silenzio.

***

 

E la canzone va avanti, parla di sangue e la tua mano sfiora la ciocca rossa, come attratta da un richiamo, un richiamo ferroso. Condividi con lei la tua saliva ma hai già condiviso con lei il tuo sangue, le tue sensazioni, le tue emozioni; hai condiviso con lei i tuoi respiri e adesso condividi con lei il bisogno di condividere. Siete vasi comunicanti, uno si svuota, l’altro si riempie e viceversa; dondolate, siete su un filo invisibile, pronti a cadere, pronti a farvi male.

E siete nessuno. Scivolate con i piedi nella bile, appoggiati ad un muro ricoperto di moquette, calpestate gomme da masticare ancora impregnate di saliva e siete pronti a spogliarvi lì, a due passi da centinaia di occhi. Ma siete nessuno e non c’è interesse nel guardarvi. Non frega al cameriere che vi passa di fianco con lo spazzolone del cesso di nuovo intasato; non frega ai vostri amici impegnati in un discorso d’intimità che solo i loro sguardi possono spiegare; non frega nemmeno a voi di voi stessi. Vi muovete meccanici, divorati dal bisogno, divorati dal desiderio e dal dolore causato da sensazioni troppo forti, troppo vive. Pungenti come spilli conficcati nei punti più sensibili.

Vi tatuate a fuoco il viso e il corpo, imparate ad annusarvi, ad ascoltarvi. Non c’è sussurro e non c’è ritmo a dividervi, non c’è rumore, solo silenzio. Silenzio e quella musica che non finisce di girare; gira, gira, sembra avervi notato, lei, in mezzo alla folla e vuole che continuiate. Vuole vedervi sgretolare, cadere a terra esausti e vivi l’uno nell’altro. Perché il vostro non è amore, è disperazione; condivisa, compresa.

“Questa era per chi ha smesso di sentirsi solo. Questa era per chi ha smesso di aspettare la pioggia e si è messo ad ascoltare della fottuta musica mentre fotte. Fotte fisicamente e fotte con il cervello. Fotte se stesso, dentro una donna che lo completa, lo completa nella sua totale inadeguatezza. Questa era per quel qualcuno che oggi avrebbe voluto vedere sua figlia alzarsi dal marciapiede e camminare, correre, spedita fino a quel sedile di spugna, rovistare fra le gomme consumate e stringere la mano ad un’anima persa. Persa come lei.”

“Quando si è persi insieme si finisce per ritrovarsi sempre, nell’errore, nella disperazione, nel bisogno. E ci si fotte, corpo e cervello. E ci si sente vivi.”

“Questa, quindi, era per voi, che siete nessuno.” 

***
Non aggiorno da un'infinità di tempo e non ho idea di cosa dirvi per prima cosa. In teoria potrei anche non dire nulla ma avevo una bella idea di queste note, avevo immaginato un paio di cose da dire mentre metto in bocca un cucchiaio di riso con funghi e zafferano.
Comincerò col dire che di questa storia non ci ho mai capito niente e so che anche per voi è difficile seguire il filo logico degli eventi, non ho mai dato un vero contesto temporale, sono avvenimenti che accadono senza un preciso ordine, ho voluto seguire l'ordine dei pensieri, non miei ma loro, ho immagini nella testa e quelle immagini parlano ed è un pò quello che voi leggete in questi capitoli sconclusionati. Alla fine probabilmente ci sarà una sorta di strappo del velo, ma non son comunque sicura di riuscire a darvi tutti i pezzi di connessione, perchè non voglio la descrizione banale di un fatto, di un contesto e di due personaggi che si muovono in quei determinati limiti, mi piaceva non averli quei limiti, creare qualcosa di sconclusionato.
E' un miscuglio di sensazioni e immagini e di logico nelle mie sensazioni c'è davvero poco, quasi niente.
Quindi..direi che è ora di lasciarvi perdere.
I testi sono usciti dalla mente malata di una persona che vive di sensazioni, quindi non potevano essere più azzeccati, proprio per questo mi son fiondata su di lui e loro, perchè ero icura di trovare quello che cercavo. E loro sono i Pearl.
Vaaaaaa bene, ora lo mangio davvero il mio risotto.
Tante coccole.
Lis

   
 
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