Anime & Manga > Digimon > Digimon Adventure
Segui la storia  |       
Autore: Padme Undomiel    04/02/2013    2 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Purity 24
24.


Speranza





“No, hai frainteso tutto, stavolta.”

Hikari alzò le sopracciglia, scettica. “Davvero?”
“Certo. Ti posso assicurare che non è affatto così.”
Sora era sempre stata una lavoratrice instancabile: aveva un fisico scattante, temprato da anni e anni di calcetto assieme a Taichi, e uno spirito tenace e forte. Si dava un sacco da fare per l’orfanotrofio –da sempre, da quando aveva accettato di aiutare la famiglia Yagami nell’impresa onerosa di mantenere in vita questo sogno-, e si lamentava così di rado delle responsabilità che si prendeva sulle spalle che spesso ci si rendeva conto di quanto realmente facesse per i bambini e per loro solo quando doveva assentarsi per il suo turno per uno dei suoi part-time.
Ma Hikari sapeva troppo bene che Sora dava davvero il meglio di sé nelle faccende domestiche solo quando voleva evitare qualche domanda scomoda.
Come in quel momento.
Era fin troppo attenta nel far prendere aria ai futon per risultare credibile.
Si portò una ciocca di capelli ribelle dietro un orecchio, sospirando. “E’ che non lo capisco. Con tutto il lavoro che c’è da fare ultimamente, perché comportarsi in quel modo? E’ come se fosse diventato ad un tratto più affettuoso … stranamente affettuoso”, disse poi, e ancora si ostinava a non guardarla negli occhi. “Dovrebbe dedicarsi a qualcosa di più serio.”
Hikari non batté ciglio nel replicare. “Ma Taichi non ha mai avuto problemi ad essere affettuoso con te, Sora-san. Non dovrebbe essere una novità, giusto?” Sorrise, un po’ maliziosa. “A meno che la novità non sia la percezione che hai di lui.”
“Cioè?” Scattò, un po’ troppo prontamente per non destare sospetto.
Rise, scuotendo il capo. “Non c’è niente di male, sai, se ti p-”
No.”
“… Se ti piace mio fratello”, concluse la minore, imperterrita.
“Una cosa del genere non esiste.”
Ma aveva le guance rosse, notò Hikari, intenerita. Rossissime. Anche se tentava di non sollevare il capo neanche per sogno.
“Negarlo ti fa stare così bene?” Finì per chiederle, chinandosi alla sua altezza e cercando di cogliere il suo sguardo.
La risposta di Sora fu incassare ancora maggiormente la testa nelle spalle, e smettere di occuparsi di quei futon.
Hikari lo prese per un no –l’ennesimo-. Si sporse a prenderle le mani, e gliele strinse forte; Sora sollevò gli occhi, e mai prima d’ora le erano sembrati così smarriti e insicuri.
“E’ Taichi!” Fu tutto quello che riuscì a dirle, imporporandosi ancora di più.
Lei, dal canto suo, annuì. “Ti assicuro che la cosa fa più strano a me che a te, dal momento che stiamo parlando di mio fratello, e credo ci metterò un bel po’ per realizzare una situazione così strana. Ma per il resto non vedo davvero cosa ci sia di sbagliato …”
 “Hikari-chan, tu non capisci!” La interruppe Sora, la voce strozzata per l’imbarazzo e la frustrazione. “Stiamo parlando di Taichi, hai presente? L’amico d’infanzia Taichi? Il compagno di squadra di calcetto Taichi? Il migliore amico Taichi? Per lui sono totalmente asessuata, capisci? Sono … Sora e basta, e Sora non può fare questi pensieri quando Taichi si avvicina per abbracciarla come fa da anni a questa parte! Non so come sia potuto succedere, e non so come uscire da questo pasticcio!”
Quando mai Takenouchi Sora era stata così fragile?
La abbracciò, non potendo fare a meno di pensare che, di solito, i ruoli tra loro erano invertiti: la maggiore a consolare, la minore ad essere consolata. Era solo contenta di poter fare lo stesso per lei, in quel momento. “Voglio riformulare la tua affermazione, Sora-san, e a tuo vantaggio: Stiamo parlando di Taichi, hai presente?” Si staccò per guardarla in viso, e le sorrise, rassicurante. “Si accorgerà di te, se non lo ha già fatto. Lo sai che non te lo direi nemmeno, se non ne fossi sicura.”
Dal basso del suo sconforto, Sora riuscì a guardarla comunque con scetticismo. “Tu dici?”
Hikari annuì, solenne. “Sta seriamente pensando di cambiare lavoro perché pensa che il problema sia la puzza di fritto di cui i suoi abiti sarebbero impregnati”, dichiarò, sforzandosi di essere seria.
L’espressione in successione confusa, sconcertata, imbarazzata e divertita dell’altra, uniti al suo portarsi una mano sulla fronte e al mormorare tra sé “Non ci posso credere”rese vano ogni tentativo. Rise nuovamente.
“Dovresti dirglielo, che non ce l’hai con lui. E’ parecchio abbattuto”, le suggerì, osservando il nervoso mordicchiarsi il labbro inferiore da parte di Sora.
“Già, per poi dirgli cosa? Che scappo da lui perché … Perché ho paura delle mie sensazioni in sua presenza?”
“Non hai intenzione di dirglielo?”
Sora sospirò per un lungo istante, prima di scuotere piano il capo. “Non ora, Hikari-chan. C’è tanto lavoro da sbrigare qui, e gli orfani, e … Non posso preoccuparmi di questo, adesso. Sto solo perdendo tempo, e non sono affatto produttiva.”
La verità era che non era pronta ad accettare le conseguenze dei suoi desideri individuali.
Hikari non aveva alcun diritto di decidere per lei, naturalmente. Lo sapeva com’era, restare sospesi nell’aspettativa della felicità, dipendere dalla decisione, dai sentimenti della persona nelle cui mani si era affidato tutto …
Lei non poteva più fare marcia indietro, impiegare ogni istante della giornata a trovare qualcosa che la tenesse occupata corpo e mente, impedirsi di pensare: era arrivata a un punto in cui aveva semplicemente accettato che le cose stavano così, e puntava tutto su quell’attesa dolorosa. Ma se Sora ancora poteva difendersi dietro quella corazza, se ancora quel sentimento era giovane, aspettare tempi migliori era così malvagio?
La strinse ancora a sé, brevemente. “Promettimi solo che non getterai la spugna prima ancora di aver tentato”, le disse, questa volta seria per davvero. “Che, se non ora, presto o tardi cercherai di occuparti di questo.”
Sora annuì, e le sorrise, grata. “Non dovresti davvero starmi a sentire, Hikari-chan. Non ho mai detto tante sciocchezze come in questo periodo.”
“Non sono sciocchezze e non è mai un problema ascoltarti, lo sai”, replicò, sollevandosi di nuovo per riprendere a lavorare.
E poi alzò il capo, e si bloccò.
“Meno male che almeno uno dei due Yagami è così facile da gestire”, stava intanto continuando Sora, con uno sbuffo, ancora intenta nella sua occupazione. E la sua voce sembrava così distante, adesso.
Cercò di parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono, gli occhi fissi sul cancello di entrata dell’orfanotrofio.
“Hikari-chan?” E Sora dovette accorgersi dell’innaturale immobilità dell’altra, perché si alzò anche lei, anche se Hikari non aveva affatto la forza –né la voglia- di voltarsi a guardare la sua espressione.
E forse seguì il suo sguardo, e vide ciò che lei aveva visto e che non riusciva a smettere di guardare, perché sussultò.
“Takaishi-kun?”
Non le rispose. Non commentò. Non pensò a nulla di coerente.
Semplicemente corse come poté –perché le gambe sembravano tremare troppo per una corsa decente- verso il cancello, il cuore a mille, verso di lui.
Lui che l’aspettava, gli occhi azzurri fissi nei suoi, l’impazienza e una strana luce a rendere il suo viso così diverso, così nuovo.
Eppure era ancora lui.
Maneggiò col cancello, non riuscì a ricavarne nulla di buono per qualche secondo – e allora le mani di lui la aiutarono, dall’altra parte, con gesti rapidi e secchi, e lei lasciò che lui finisse il lavoro, perché le aveva sfiorato le mani, ed erano le sue.
Si gettò tra le sue braccia aperte prima ancora che il cancello si aprisse del tutto, e per un istante ci fu solo la sensazione del suo calore, del suo profumo, delle sue braccia attorno alla sua vita.
Chiuse gli occhi, e qualcosa nel suo petto si sciolse.
Quando li riaprì, aveva la vista appannata, ma sorrise, come mai in vita sua. “Takeru-kun”, disse soltanto.
E si rese conto, in un istante, che Takeru la stringeva anche più forte di quanto lei stesse facendo. Sembrava avesse paura di perderla solo lasciandola andare.
“Scusami. Mi dispiace tanto, sono un maledetto idiota. Pensavo … Non sapevo … Io voglio essere qui, voglio stare con voi. Voglio stare con te.”
Hikari scoppiò in lacrime.
Tutta l’attesa, la paura, la tristezza e la solitudine si infransero, dolorose al punto che quasi non respirava. Ma era tutto finito. Tutto finito.
Nascose il suo sorriso nel petto di lui, e lo strinse maggiormente. “Bentornato.”

***

“Bisogna fare piano, altrimenti non si farà vedere. I rumori lo spaventeranno.”
“Stiamo andando pianissimo!”
“Basta che non cadi di nuovo, Asami-chan.”
“Guarda che Suou-kun cade in continuazione, e a lui non dici niente!”
“Perché Suou-kun è carino.”
Keiji sbuffò, scocciato, riuscendo senza problemi a stare al passo senza farsi sentire –perché era agile, c’era abituato da sempre. “E dai, smettetela. Così ci facciamo scoprire.”
Asami, rimasta un po’ indietro, era imbronciata. “Non è colpa mia se Rei-kun è antipatico.”
Se Rei fu turbato da quelle parole, non lo diede a vedere: continuò a guardarsi intorno, interessato, cercando ciò che gli era sfuggito in ogni angolo del corridoio. E quando parlò, era solo per il bambino dai capelli neri davanti a lui, che non sembrava essersi accorto affatto del bisticcio. “Secondo me si è nascosto in camera nostra, Suou-kun. Gli ho lasciato un po’ del mio pranzo.”
Suou si voltò, gli occhi verdi spalancati dietro la frangia liscissima. “Tu pensi che gli piacerà?”
“Ai gatti piace il pesce. L’ho letto in un libro sugli animali.”
“Lo vedi? Si sta di nuovo vantando”, gli sussurrò Asami all’orecchio, irritata. Keiji alzò le spalle, continuando a sbirciare nelle camere davanti alle quali passavano. “Io so anche che i gattini piccoli bevono latte, non mangiano pesce. Me l’ha detto Koushiro.” Aggiunse poi ad alta voce, e sottolineò accuratamente quel nome.
Rei la guardò, aggiustandosi gli occhiali sul naso con le mani. “Che ne sai che è così piccolo?” Le disse senza arrabbiarsi, ma si vedeva che voleva avere ragione.
“Non lo so, ma tu che ne sai che è grande abbastanza per mangiare pesce?” Scattò la bambina, ancora più indispettita, e alzò la voce.
Keiji, dal canto suo, alzò gli occhi al cielo. Ma non la finivano mai di discutere?
“M-magari …” Intervenne timido Suou, le guance rosse per imbarazzo. Tutti e tre si girarono a guardarlo, sorpresi. “Magari quando lo troviamo gli diamo anche il latte. Così mangia e beve tutto.” E poi li guardò, e sembrava chiedere loro –a Rei soprattutto- di smettere di litigare.
Faceva sempre così, le poche volte che parlava anche agli altri bambini: cercava di accontentare tutti quanti. Meno male che aveva deciso di parlare anche stavolta.
Alla fine Rei fece un sorriso, quel suo strano sorriso che appariva pochissime volte. “Certo. Prima però troviamolo, d’accordo?”
Suou si illuminò. “Sì!” E seguì rapidamente l’altro, correndo un po’ perché Rei l’aveva superato.
Asami approfittò di quel momento per restare un po’ indietro, e parlare solo con lui. “Suou-kun dovrebbe smetterla di stare sempre con Rei-kun. E’ troppo carino per lui”, gli disse, la bocca arricciata. “E poi se lo tiene sempre solo per sé, non è mica giusto.”
Quel bambino non le era mai stato simpatico. Forse era perché non aveva quasi mai giocato con nessuno di loro, forse perché aveva sempre preferito starsene per conto suo e fissare tutti con quegli strani occhi dorati … finché all’orfanotrofio non era arrivato Suou, e allora le cose erano cambiate. Quel piccolo così timido, sempre con gli occhi bassi, chissà perché era l’unico amico che aveva voluto avere. E da allora faceva di tutto per seguirlo in ogni secondo, per fare il maggiore dei due e guidarlo. Aveva iniziato anche ad allontanare chiunque volesse avvicinarsi a loro.
Per questo quei due stavano sempre da soli. Anche più soli di Keiji: lui, se voleva, con gli altri ci parlava benissimo.
Ma visto che Asami voleva tanto conoscere meglio Suou, e Rei glielo impediva sempre, lei non lo sopportava. Di solito gli stava lontano per non litigare, ma quella volta lei e Keiji non avevano avuto altra scelta: Keiji voleva vedere il gattino, e Rei era l’unico a sapere dove fosse. Più o meno.
E non importava che Rei avesse riservato lo spettacolo solo per il piccolo Suou.
“Senti, lasciali stare. Fanno sempre così”, rispose, tenendo stretti sotto braccio album e colori, che ad ogni passo rischiavano di cadere. Doveva essere pronto a disegnare, non aveva tempo di tornare indietro a prendere le sue cose vicino al suo albero: se scappava di nuovo era un problema.
Perché doveva disegnarlo in fretta: sarebbe stato il suo più bel disegno. Anche più di quelli sulla storia che il biondo aveva raccontato, e di cui era stato tanto orgoglioso fino a un po’ di giorni prima.
E lo avrebbe dato a Hikari, così lei avrebbe smesso di essere triste perché quel biondo odioso se n’era andato e non tornava più.
Così avrebbe sorriso, l’avrebbe ringraziato, abbracciato e baciato, e Keiji sarebbe di nuovo stato la persona più importante per lei.
Voleva che lo sapesse, che lui non l’avrebbe mai fatta piangere, e ci sarebbe stato sempre.
Per questo doveva muoversi a trovare quella piccola palletta di pelo che aveva solo intravisto, e che non si faceva più vedere.
“Rei-san, guarda! E’ lì sotto, guarda!”
L’esclamazione entusiasta di Suou fece bloccare tutti. Erano davanti ad una porta aperta: in quella stanza Keiji non c’entrava mai, non c’era niente che lo interessasse. Solo una grande scrivania e tanti fogli con caratteri che non riusciva a leggere.
Ma quel giorno, lì sotto, piccolo e bianco e del tutto tranquillo, c’era il micino.
La sorpresa di Rei sembrava riuscita: Suou era felicissimo, mentre lo prendeva per la manica, invitandolo a entrare con lui. Ma Keiji pensava solo a prendere un foglio pulito, in fretta e in piedi com’era, reggendo i colori tra petto e mento, la lingua tra i denti per la concentrazione. Era la sua occasione.
Poi afferrò Asami per la mano, tirandola impaziente, ed entusiasta. “Dai, corri, o lo terranno in braccio solo loro!”
“Nooo!”
Keiji si fermò, al grido disperato dell’amica. “Che c’è ade-” Poi si accorse della barretta di cioccolata caduta a terra, e dello sguardo sconsolato della bambina.
Per un momento cadde il silenzio.
Poi Asami lo guardò, speranzosa. “Senti … ci soffio sopra e la mangio lo stesso!”
Era davvero convinta di quello che diceva.
Keiji scoppiò a ridere, e riprese a tirarla. “Dopo ti do la mia barretta, scema. Adesso però muoviti!”

***

Da quel momento, c’era solo stata un sacco di confusione, e lui era sicuro di essersi perso qualche passaggio vivendo quella sensazione, infine, di gran completezza.
Taichi si era materializzato all’improvviso, raggiante e sollevato, rifilandogli una pacca sulla spalla fin troppo forte, che lo aveva lasciato senza fiato per un attimo.
E poi c’era stata Sora, con un futon abbandonato poco distante, le sue mani che gentilmente e calorosamente stringevano quelle di lui.
E ancora i richiami entusiasti del maggiore degli Yagami, che quasi avevano tirato di peso gli altri ragazzi dell’orfanotrofio, confusi e perplessi, portandoglieli davanti e spiegando loro la situazione –quella nuova, quella che riguardava lui quanto loro.
E poi la stretta di mano serena di Koushiro e quella più irruenta di Jyou, e i baci sulla guancia improvvisi di Mimi. E poi parole, parole, che sul momento aveva compreso, a cui sul momento aveva risposto, ma che ora non riusciva più a ricordare.
Però aveva sorriso per tutto il tempo, e dietro la schiena aveva continuato a stringere quelle dita piccole e calde, quasi aggrappate alle sue, perché non aveva alcuna voglia di rompere quel contatto.
E ogni tanto l’aveva guardata, le guance ancora rosse, gli occhi ancora lucidi –ma così diversa da quando l’aveva vista piangere di dolore … così tanto diversa, ora-, sempre al suo fianco, e aveva condiviso con Hikari il reale significato di quello che era successo, di quello che lei aveva riferito a Taichi dopo aver sciolto il loro abbraccio.
“Takeru-kun ha deciso di stare con noi.”
Lei gli aveva sorriso, così bella che per un istante gli aveva tolto il fiato, ed era stato quel sorriso a rendere tutto vero, tutto concreto.
Takeru aveva deciso.
E neanche ora che si trovava in quello studio, seduto su quella sedia, con accanto Hikari e Taichi, e di fronte a sé Koushiro che maneggiava documenti, riusciva a sentirsi in qualche modo forzato ad essere felice, falso nella sua determinazione, disperato nella sua ricerca di un senso per quello che faceva.
Aveva deciso sul serio. Ed era stato facile, automatico, una volta che aveva capito cosa voleva. Così facile ed automatico che sembrava una beffa a tutte le complicazioni a cui lui stesso si era sottoposto per mesi, anni. Ma non aveva più importanza.
“Ci sono da sbrigare alcune formalità, Takaishi-kun, ma non ci vorrà molto”, stava dicendo Koushiro, un sorriso gentile sul viso.
Takeru non poté fare a meno di ridere, leggero. “Ho aspettato un sacco di tempo prima di decidermi”, commentò. “Non credo di poter essere nella condizione più giusta per lamentarmi per qualche firma da apporre.”
“E noi non potremmo essere più felici che tu abbia deciso di unirti alla famiglia Yagami!” Esordì Taichi a voce alta, solenne.
Unirti alla famiglia?
Takeru ebbe un sussulto, e si voltò di scatto verso di lui. “Eh?” Balbettò, e sentì il suo viso farsi più caldo. Il suo sguardo volò automaticamente verso Hikari, e fu con ancora maggiore sorpresa che vide le sue guance totalmente rosse.
“Taichi vuole dire che qui siamo come una grande famiglia!” Si affrettò a specificare lei, la voce più acuta, evitando il suo sguardo. L’imbarazzo di Takeru scemò. Avrebbe voluto dire lo stesso per quello strano gonfiore che sentiva all’altezza del petto, però.
La sensazione, ad ogni modo, svanì quando Taichi gli rifilò uno scappellotto.
Alla sua espressione attonita, lo vide rispondere con un ghigno. “Non ci allarghiamo troppo, adesso, eh”, fece, e qualcosa nel suo tono sapeva di minaccioso. Takeru deglutì, sperando vivamente di aver male interpretato le sue intenzioni. Che cosa aveva fatto poi di male?
“Taichi, così lo farai scappare”, fece Koushiro, alzando gli occhi al cielo e porgendo documenti e penne a Takeru. “Ecco qui. E ignoralo”, soggiunse a bassa voce, ammiccando con lo sguardo verso il fratello di Hikari.
Takeru sorrise, incerto, chinandosi a firmare dove indicato. Con l’abitudine avrebbe imparato bene come reagire a certi atteggiamenti, pensò.
“C’è qualcosa di specifico che dovrò fare, una volta qui?” Chiese poi, gli occhi ancora fissi su carta e penna.  
Fu Hikari a rispondergli. “Gli incarichi li assegniamo volta per volta, così come i turni di lavoro. Tutto quello che dovrai fare sarà darci la tua disponibilità giornaliera negli orari che più ti saranno comodi. Vorrei poterti dire che si tratta di un lavoro come un altro, ma …” Takeru sollevò lo sguardo, e la vide mordersi il labbro inferiore, in colpa. “Conosci la situazione. Questo è più un volontariato che un lavoro.” Sorrise, malinconica, come a chiedergli scusa.
Come se quello fosse un problema. “Non è la retribuzione in denaro che cerco”, chiarì, sicuro. “Anzi. Ho intenzione di contribuire io stesso al mantenimento di questo orfanotrofio. Con ogni mezzo. Cercherò un lavoretto part-time, che sia adattabile con i miei turni qui.”
Hikari sgranò gli occhi, piena di sconcerto. “Non devi! E i tuoi studi?” Fece, con veemenza.
Gli studi, già. Un moto di senso di colpa –le aspettative di sua madre, Daisuke, i suoi amici, tutta la sua vita finora- lo prese all’improvviso, e lo costrinse a tacere. Ma fu solo un attimo: non c’era più modo di tornare indietro, ormai. “Gli studi dovranno aspettare”, disse lentamente, e non smise di guardare Hikari negli occhi. Voleva che capisse che era serio. “Ho altre priorità, adesso. E voglio rendermi utile.”
La ragazza, turbata, tacque, una luce dolente nello sguardo. Sembrava chiedersi se lui non stesse affrettando troppo i tempi, se non se ne sarebbe pentito. Sembrava porsi le stesse domande che si era posto Yamato, se non stava aggrappandosi a quel progetto solo per liberarsi della sua frustrazione senza fine. Si sentì ferito da quell’esitazione.
Eppure, in cuor suo poteva davvero biasimarla? Non era forse vero che una persona così disperata ispira poca sicurezza?
Le avrebbe dimostrato che non era un capriccio, decise. Le avrebbe dimostrato che sarebbe andato fino in fondo. Che non li avrebbe abbandonati.
“Qui nessuno ti chiede di rinunciare alla tua vita”, intervenne Taichi, insolitamente cauto. “Noi non ti imponiamo certo di sacrificarti per la causa. Inoltre, molte spese della villa sono a carico mio e di Hikari: siamo noi i proprietari, e Yagami Yuuko era nostra madre. Le spese aggiuntive per contribuire al benessere dei bambini sono per chi vuole e può contribuire, quindi del tutto facoltative. Noi non te lo chiediamo, lo sai.”
Takeru annuì. “Lo so. Sono io a chiedervi di permettermi di contribuire”, replicò semplicemente, chiedendo silenziosamente di poter fare di testa sua. “Sentite. Hikari-chan mi ha spiegato la situazione: so tutto quello che succede qui. Vi servono fondi, vi serve una mano. Avete difficoltà ad occuparvi di tutti i bambini, della manutenzione della villa, e tutto il resto. E so che, se la cosa dovesse protrarsi per troppo tempo, sarete costretti a chiudere l’orfanotrofio.”
L’accenno alla loro precarietà sembrò incupire il viso di Taichi e Koushiro, tutt’a un tratto, eppure non replicarono. Hikari stava immobile, pallida e silenziosa.
Gli era parso di sentire un sussulto, a dirla tutta. Ma pareva non fosse stato nessuno di loro, verosimilmente doveva averlo immaginato.
Riprese. “Certo, il mio contributo potrebbe non essere così decisivo, e sicuramente non ho nemmeno un briciolo della vostra esperienza in materia, ma … Se posso fare qualcosa in più per non permettere che tutti quei piccoli perdano casa e famiglia, lo farò.”
Probabilmente sarebbe ancora andato avanti, e avrebbe perlomeno cercato di spiegare loro quanto, effettivamente, sembrassero sani e felici, quei bambini, in loro presenza, e che non meritavano di perdere persone straordinarie come loro dopo aver perso anche la loro famiglia biologica, ma non gliene diedero il tempo. Taichi gli mise una mano sulla spalla, e sorrideva nuovamente.
“Sarebbe davvero da idioti impedirti di procedere, allora”, disse, e c’era del rispetto in fondo a quegli occhi scuri. “A nome dell’orfanotrofio e di tutti i bambini … grazie. Veramente.”
Takeru lo intuì quando ascoltò quelle parole, prima ancora di comprenderne il senso. Era quello, il grazie che aveva sempre cercato. Era quello.
Perché era vero. Perché era realmente sentito. Perché legittimava la sua appartenenza a quel luogo, a quel contesto. Era suo.
Scosse la testa, emozionato. “Non dovreste essere voi – Sono io che vi sono grato, in un modo che nemmeno io avrei mai creduto possibile.” Pensò a Yamato, al suo sorriso quando gli aveva parlato di loro – di lei. “Se non fosse stato per voi, ora sarei ancora in giro a sprecare tempo ed energie in atti sconclusionati.”
“Lascia stare. Taichi passa tuttora il tempo in atti sconclusionati, malgrado si diverta a fare l’eroe”, intervenne Koushiro, probabilmente nel tentativo di smorzare la tensione.
“Ehi!” Esclamò l’altro, giustamente offeso, e Takeru rise.
“Ho sentito un miagolio, da qualche parte”, disse all’improvviso Hikari, e tutti e tre si zittirono. La ragazza si guardava intorno, attenta e un po’ perplessa. “Voi no?”
Takeru batté le palpebre. Era proprio vero che non si finiva mai di imparare, in quel luogo. “Avete degli animali domestici?” Domandò, frugando nella memoria alla ricerca di un qualsiasi segnale della loro esistenza. Possibile che gli fosse sfuggito?
Hikari scosse la testa, confusa. “No, che io sappia non-”, iniziò, ma nessuno seppe mai cosa volesse dire.
Qualcosa di bianco e peloso saltò fuori da sotto la scrivania, quasi materializzandosi dal nulla. Takeru saltò su dalla sedia all’improvviso, colto alla sprovvista, e solo dopo un istante si rese conto che si trattava di un gattino. Un piccolo gattino bianco con la coda tigrata.
Un solo sguardo alle espressioni costernate di Hikari e Taichi bastò a confermargli che la situazione era strampalata anche per loro.
E lo divenne ancora di più, quando Koushiro allontanò la sedia dalla scrivania, si chinò, si immobilizzò per un istante, prima di dire a voce alta: “Dai, uscite fuori.”
Un lungo istante di silenzio, quasi cristallizzato: e Takeru capì d’un tratto ciò che era successo. Sgranò gli occhi.
Sbucò fuori, esitando, un bambino minuscolo dagli occhi verdi e il viso turbato, che lui non aveva mai visto prima d’ora e che non vide in quel momento guardare nessuno se non il gattino, appollaiato ai piedi di Hikari. Un bambino più grande con gli occhiali lo raggiunse subito, e fissò loro, invece, immobile.
Poi una massa spettinata di capelli viola emerse di colpo da sotto la scrivania, e Hikari ebbe un sussulto strozzato.
Keiji non aveva occhi che per lei, incurante della bambina dagli occhi lucidi che gli stringeva il braccio – Asami -, incurante di tutti gli altri.
La sua espressione stravolta parlò per il suo silenzio, e nella stanza cadde il gelo.

***

Era stato facile, talvolta, immaginare che sua madre fosse Hikari.
Sarebbe stata perfetta, lei. Lei aveva la dolcezza giusta, le attenzioni giuste. Lei non si agitava troppo come Jyou, ma sapeva preoccuparsi per lui come nessun altro –nel modo giusto; era lei che gli era accanto quando non riusciva a dormire, lei che gli baciava la fronte e accarezzava i capelli quando si svegliava in preda agli incubi. Lei era bella come una mamma, e lo sapeva anche senza avercela, una mamma.
Aveva sempre pensato –sperato- che sua madre fosse Hikari.
Ora la guardava, e non vedeva altro che un viso pallido, sconvolto, fragile.
Keiji si sentiva così male che non riusciva né a gridare né a piangere: poteva solo stare lì, a respirare rumorosamente, a tremare, e a guardare Hikari.
Non era sua madre.
Non poteva più tenerli con sé, forse li avrebbe dati via a qualcun altro.
E non aveva detto niente. Non gli aveva parlato.
Non le importava nulla di loro, di lui? Non poteva impegnarsi di più per tenerli con sé?
Non era sua madre. Perché le madri non si comportano così …
O forse tutte le madri davano via i loro figli, come la sua vera madre?
“Keiji-chan”, sussurrò Hikari, e continuò a fissarlo con dolore. Non pianse, non distolse lo sguardo. Lo fissò e basta, come lui fissava lei.
“Ci manderai via?”
Lei sussultò. “Ma no”, disse subito, e si avvicinò a lui piano, le braccia aperte per accoglierlo. “Non vi manderemo via, Keiji-chan, non pensarci …”
Keiji si scansò, quasi scottato. “Ci manderai via, vero?” Ripeté a voce più alta. L’urlo che non gli usciva rimase incastrato in gola, e faceva un sacco male.
Hikari si fermò di colpo, e abbassò le braccia. Keiji non l’aveva mai vista così in colpa, così triste, ma quell’espressione, se possibile, aumentò la sua voglia di urlare.
Asami gli stava stritolando il braccio, e singhiozzava piano.
“Keiji, ascolta. Anzi, ascoltatemi tutti.” Intervenne Taichi, sicuro. Ma non osò avvicinarsi. “Non dovete preoccuparvi per alcun motivo! D’accordo, avete sentito che abbiamo qualche problema, ma non è niente di così serio! Ce la faremo anche stav-”
E fu a quella bugia sorridente che Keiji esplose.
Lui l’ha detto!”Gridò, indicando con il dito il biondo, che sussultò. “Ha detto che non avete soldi per tenerci, che chiuderete l’orfanotrofio! E noi … E noi …”
Se avesse parlato ancora, sarebbe scoppiato in lacrime. Gli occhi appannati, il bambino si zittì, e il suo sguardo cadde sui colori sparsi sul pavimento, da sotto la scrivania.
Si liberò da Asami, si chinò, raccolse i suoi colori, i suoi disegni. Quel gattino scarabocchiato che aveva disegnato prima che Hikari e gli altri entrassero nello studio.
Quello che voleva regalare a Hikari …
“Vendete i miei disegni!” Esclamò, guardando le loro espressioni mortificate. “Vendeteli tutti! Pagate l’orfanotrofio con i miei disegni! Non mi importa, io non voglio andarmene!”
I ragazzi stettero zitti, e non sembravano felici come dovevano essere.
“Non vi piacciono? Dite sempre che sono belli, allora qualcuno li comprerà!” Insistette a voce più alta, non comprendendo. Che cosa succedeva? Aveva trovato una soluzione! “E io disegnerò tutto il tempo, e così guadagnerete …”
“Anche io voglio fare qualcosa!” Intervenne Asami, asciugandosi le lacrime con la manica, prendendo coraggio dalle parole di Keiji. “Io non so fare tante cose, e sono imbranata, però mi impegnerò. Posso vendere i miei giocattoli vecchi, e qualcosa che non uso più!”
“Vi prego, state tranquilli. Voi non dovete-” iniziò Hikari, la voce rotta, ma fu interrotta.
“Pensa a quanti giocattoli Ichiro-kun non usa mai, Keiji-kun!” Stava continuando Asami, voltata verso di lui con la sua stessa aria seria. “Usa solo i suoi giocattoli musicali, il resto lo si può vendere! O Taro-kun, che gioca solo con i suoi soldatini …”
“Taro e Ichiro sono bravi a recitare e cantare!” Esclamò ad un tratto Keiji, prendendo l’amica per un braccio. “Possono fare degli spettacoli, e piaceranno a tutti, e ci daranno soldi!”
“E io? Io che faccio?” Intervenne timido Suou, alzando coraggiosamente la voce.
Keiji e Asami si voltarono, sorpresi. Quasi si erano scordati di lui.
“Beh … Tu ci aiuti”, decise Asami, annuendo tra sé. Rei si incupì, e la bambina sbuffò. “Tu e Rei-kun ci aiutate, va bene?”
“Si può fare”, annuì Rei.
“Bambini, adesso basta!” L’esclamazione angosciata di Hikari li zittì tutti, di nuovo. “Non dite così, per piacere. Non succederà niente, io ve lo prometto, ve lo giuro. Non vi manderemo via, perciò non dovete fare assolutamente nulla.”
“Hikari-chan, aspetta.”
Naturalmente il biondo doveva sempre dire la sua, e Hikari doveva sempre starlo a sentire. Keiji lo guardò con ostilità, ma vide che guardava lui con una strana espressione, e allora non disse niente. Ricambiò lo sguardo, confuso.
E anche Taichi, Koushiro e Hikari fecero lo stesso.
Il biondo rimase in silenzio per un po’, a pensare, serio. Poi annuì, e i suoi occhi brillavano. “I bambini ci hanno trovato un’ottima idea”, scandì lentamente.
Keiji spalancò la bocca, incredulo.
Era davvero d’accordo con loro? Lui?
In risposta alla sua espressione sconvolta, lui sorrise.
Invece, dalla parte dei grandi, si scatenò una strana reazione.
“Come sarebbe a dire? Sono solo dei bambini!” Intervenne Koushiro, le sopracciglia aggrottate. “Non è giusto!”
“Koushiro-san ha ragione, Takeru-kun. Non capisco cosa tu abbia in mente” gli diede ragione Hikari, e per una volta non sembrava d’accordo con il biondo. Per la volta sbagliata.
“Calmatevi, non ho intenzione di sfruttare i bambini per denaro!” Alzò le mani in alto, in segno di pace. “Chiederò il loro aiuto solamente se se la sentiranno, se ne avranno voglia. Ma l’idea di una bella mostra di beneficienza, in generale, non mi sembra un’idea malvagia.”
“Spiegati meglio”, fece Taichi, serio.
Il biondo continuava a sorridere, sicuro, e a guardarli con aspettativa. “Quello che vi serve è un po’ di notorietà –concedetemi il termine. Se molta più gente fosse sensibilizzata alla causa, se noi gliene dessimo l’occasione, le donazioni aumenterebbero, giusto? E molti bambini più piccoli potrebbero essere affidati ad altre famiglie. Più piccoli, più piccoli!” Si affrettò a ripetere, all’espressione indignata di Keiji. “Inoltre, potremmo mettere del nostro per qualche bancarella, che so, di oggetti che effettivamente non usiamo più. Ci ricaveremmo comunque qualcosa.”
“Vuoi trasformare questa villa in una fiera?” Fece Koushiro, scettico.
Takeru annuì. “E non solo. Contatterò mio fratello, gli chiederò di suonare con la sua band. Attirerebbe più gente.” Si fece pensieroso di nuovo, riflettendo. “E poi … si potrebbe pensare ad altre aggiunte … Qualsiasi cosa che infarcisca l’evento. Ma il succo del discorso è questo.”
Calò il silenzio. Lui si voltò verso gli altri, immobili. “Allora? Che ne dite?”
“Non cambierai la situazione con una manifestazione di beneficienza, Takaishi-kun”, fece Koushiro, scuotendo la testa.
Il biondo si strinse nelle spalle. “Lo so. Ma conto di migliorarla, anche solo di un po’. Ora come ora possiamo solo migliorare, non credete?”
Keiji si sorprese, perché per la prima volta –no: la seconda. C’era stato l’episodio della storia, e quella era stata la prima volta- Takeru gli ispirò fiducia. Aveva anche smesso di fare quella faccia depressa che aveva sempre, quella per cui Hikari aveva deciso di aiutarlo. Quella che a lui dava tantissimo fastidio.
Adesso aveva la sua stessa decisione, solo che era più felice di lui, per motivi che non conosceva. E sorrideva un sacco. A guardarlo, veniva da credere che ce l’avrebbero fatta.
Keiji scoprì che si fidava, con la convinzione di chi ha paura di andarsene, di perdere tutto.
Guardò gli adulti, impaziente, e li vide scambiarsi degli sguardi. Quando Hikari si accorse della sua occhiata guardò verso di lui; Keiji abbassò la testa, gli occhi ancora lucidi per il pianto sfiorato di poco prima.
Non riusciva a guardarla. Non poteva.
Non gliel’aveva detto.
“Taichi, chiediamo ai bambini”, venne la voce di Hikari, e Keiji si immobilizzò. “Sono loro i diretti interessati. A noi non costa nulla, ma loro … meritano di poter decidere, per una volta.”
Il groppo in gola del bambino si fece più spesso, e avvertì un terribile bisogno di piangere, di correrle incontro, di abbracciarla. Ma non riusciva a farlo.
“Taichi, ragiona. Cosa possiamo mai aspettarci da-” intervenne Koushiro, scettico.
“No, ha ragione mia sorella. Loro ci aiuteranno a prendere una decisione.”
Taichi si avvicinò, chinandosi alla loro altezza. Keiji sollevò, esitante, lo sguardo.
Il ragazzo sembrava serio, come non lo aveva mai visto. “Cosa ne pensate di quest’idea? Sareste disposti a darci una mano? Non è necessario che partecipiate attivamente, soltanto che quest’evento non sia un problema per voi.”
Si sentiva tutti gli sguardi addosso, e per qualche strano motivo persino gli altri bambini guardavano solo lui. Aspettavano una sua decisione. Cercò di ignorarli, a disagio; ma aveva già preso una decisione.
“Voglio partecipare”, disse a voce alta. “Se farete qualcosa voglio partecipare.”
Koushiro scosse la testa, disapprovando. Takeru lo fissò, e non disse nulla. Il viso di Hikari si fece pieno di una specie di affetto tristissimo, un’espressione che faceva tanto spesso quando parlava con lui.
“Non dire voglio! Ci sono anche io, Keiji-kun!” Si lamentò Asami ad alta voce, avvicinandosi a Taichi.  “E Suou-kun e Rei-kun! E anche gli altri bambini, se chiediamo!”
Questa volta fu Keiji a guardare gli altri bambini. Nessuno esitò, nessuno aveva cambiato idea. Provavano tutti lo stesso suo sentimento di paura, la stessa voglia di restare, di fare qualcosa.
Sembravano una squadra. Una famiglia unita.
E Keiji si sentì ancora più forte, e disposto a tutto. Non aveva più tanta paura.
“Siete disposti a fare delle rinunce per questo progetto?” Chiese ancora Taichi.
Annuirono solennemente, come per un giuramento.
“E dare via cose che avete in più, o contribuire in altro modo?”
Annuirono di nuovo.
“E allora non c’è più niente da dire.” Taichi si sollevò, e si voltò verso gli altri. Sorrise, grintoso come quando giocava a calcio insieme a loro -come quando li faceva vincere- e diede una pacca a Takeru. “Proviamo a mettere alla prova la tua idea. Vedremo sul campo come andrà!”









Ho passato un sacco di tempo chiedendomi se avrei più aggiornato questa storia, e per tanto tempo la mia risposta è stata no. Non riuscivo più a continuarla, non trovavo più lo spirito giusto... E' per questo che l'aggiornamento arriva dopo così tanto tempo. Per chi è ancora qui a leggere... scusatemi davvero :( non avevo voglia di rovinare quello che avevo fatto finora giusto per dare un finale, non mi sembrava corretto! Però, nonostante tutto, ho tutte le intenzioni di terminarla :) Magari i miei aggiornamenti saranno lentissimi, ma voglio provarci, perché ci tengo. E intanto che reimposto i capitoli che verranno, ecco qui una svolta importante che dà inizio a quello che da sempre ho immaginato dovesse essere il ruolo di Takeru -dopo miliardi di tribolazioni, mi rendo conto. xD Ma meglio tardi che mai, no? 

Ah, per chi è ancora qui... Grazie <3

Padme Undomiel

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Digimon > Digimon Adventure / Vai alla pagina dell'autore: Padme Undomiel