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Autore: Bellatrix29    04/02/2013    4 recensioni
Ogni giorno dalla fine della guerra, Harry si reca ad Azkaban; gira per i lugubri corridoi e, alla fine del suo giro, trascorre qualche minuto di fronte alla cella 491.
Questa storia giaceva da tempo immemorabile nel mio pc, e finalmente ho avuto modo di concluderla: nasce come Drarry, ma si è evoluta in qualcosa di completamente diverso.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Draco Malfoy, Harry Potter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Buona sera ^^
Questa One Shot partecipa al contest ‘Hurt Contest’ organizzato da Faffina! sul forum di EFP.
 
Già che ci sono, ne approfitto per pubblicizzare la mia neonata pagina autore: la gestisco io direttamente, quindi per consigli, domande, lamentele o anche solo chiacchiere, potete trovarmi qui.
 
Dovrei aver detto tutto, quindi vi lascio alla storia.
 
Buona lettura ^^

 
 


 

RESCUE

 
 
 
 

Harry Potter calcò il piede nel terreno fangoso dell’isola e rabbrividì.
Alzò gli occhi verso la struttura e si strinse maggiormente nel proprio mantello: nonostante fosse ormai luglio inoltrato, quella zona resisteva alle lusinghe della bella stagione.
 
Abbassò il volto e prese ad avanzare. Salutò le guardie all’ingresso, che ricambiarono, senza più mostrare la sorpresa dei primi tempi. I due ci avevano fatto l’abitudine, ormai, a veder comparire il giovane Salvatore del Mondo Magico. Arrivava ogni pomeriggio, senza eccezioni, dall’inizio dell’estate.
Aveva esibito un permesso firmato dal Ministro in persona, chi erano loro per contestare?
 
Trascorreva circa un’ora all’interno della prigione, senza che nessuno riuscisse a spiegarsi il motivo di tale abitudine. I giornali si erano sbizzarriti nelle ipotesi più fantasiose: c’era chi lo definiva come un eroe romantico, che desiderava guardare in volto ciascuno dei Mangiamorte che affollavano le celle, coloro che avevano ucciso le persone che gli stavano a cuore. Altri lo descrivevano come un giustiziere, che ogni giorno andava a contare le celle ancora vuote, in attesa di essere riempite.
In ogni caso, nessuno, nemmeno lo stesso Harry, aveva ancora capito la vera ragione delle sue visite.
 
Il gelido clima esterno si rifletteva perfettamente nell’atmosfera che aleggiava all’interno di Azkaban.

Sebbene i Dissennatori non fossero più a guardia di quelle mura, essi sembravano aver impregnato la pietra con la propria essenza più putrida, e quel luogo manteneva lo stesso aspetto spettrale e terrificante di un tempo.
Dalle celle provenivano le urla dei condannati e le voci indistinte di coloro che avevano perso il senno. Accecati da anni di mancanza di sole. Affamati da una vita di stenti. Esseri umani ridotti a spettri, corpi macilenti e malati, i respiri rantolanti che si dovevano accontentare dell’aria inzuppata dal pestilenziale odore di sporco, feci e morte che regnava sovrano in quell’inferno di dolore.
Harry camminava tra quei corridoi di disperazione, univa i propri lamenti a quelli delle povere anime corrotte che vi dimoravano, in una sofferenza che non trovava requie.
 
Lasciava sempre per ultima la cella numero 491. Non lo faceva consciamente, ma qualsiasi percorso prendesse, tutti i corridoi sembravano portare di fronte a quella piccola stanzetta senza finestre. Si trovava nell’ala di massima sicurezza, dove erano state rinchiuse in massa tutte le persone con il Marchio Nero.
 
Si fermava di fronte alle sbarre che occludevano l’accesso alla cella e osservava tutto ciò che rimaneva del nemico di un tempo. Draco Malfoy giaceva all’interno. Sporco e più ossuto che mai, attendeva la fine del processo, mentre la minaccia della pena capitale aleggiava sul suo regale capo, ogni giorno più vicina.
Harry si chiedeva sempre se sapesse che il padre era stato tra i primi condannati a morte.
 
La madre se l’era cavata con la perdita della bacchetta. L’assenza del Marchio sul suo braccio le aveva evitato di condividere la triste sorte del marito, e la testimonianza a suo favore del Salvatore le aveva donato la libertà.

 
Harry aspettava, di fronte a quella figura scheletrica, cercando qualcosa, qualsiasi cosa da dire. Ma i giorni passavano senza che riuscisse a trovare qualcosa con cui rompere il ghiaccio.
Lo fissava e aspettava. A volte, il ragazzo alzava lo sguardo sulla sua figura e gli rivolgeva la stessa occhiata che aveva sempre riservato a lui. Come se il contesto non fosse mutato e i due giovani si trovassero ancora a scuola, a litigare per delle stupide partite di Quidditch o altre questioni di cui Harry non riusciva a ricordarsi. La guerra aveva totalmente cambiato la sua prospettiva e ora, ciò che al tempo sembrava di vitale importanza, aveva tutto l’aspetto di banali schermaglie infantili.

Ghignava il giovane Malfoy, ma non diceva nulla. Tuttavia, Harry aveva l’impressione che le sue visite non fossero sgradite. Inattese, forse, ma mai sgradite. Probabilmente, si ripeteva, perfino uno tanto pieno di sé come l’odiato Serpeverde si stufava, avendo se stesso come unica compagnia.
 
Quel giorno non fu differente. Il moro passeggiò per i corridoi per alcuni minuti, nutrendosi della disperazione che vi aleggiava, per poi ritrovarsi, quasi per caso, di fronte alla ben nota cella.
 
Quella volta fu differente, perché Malfoy aprì bocca.
 
“Non mi serve la tua compassione, Sfregiato”
 
L’interpellato gli lanciò un’occhiata interrogativa. Il biondo sbuffò.
“Sei qui ogni giorno. Non hai proprio niente di meglio da fare che venire a trovare me?”
 
“Non vengo qui per vedere te. E comunque non lo faccio per compassione.”
 
“Allora lo ammetti che sei qui per me” gongolò. Fu il turno del Grifondoro di sbuffare.
 
“Pensala come ti pare.” Tra i due cadde di nuovo il silenzio. Non avevano poi molto da dirsi. Nessun aneddoto da riferirsi, nessun ricordo piacevole che li riguardasse entrambi. Niente li legava, se non l’aver rappresentato l’uno la spina nel fianco dell’altro, sempre.
Harry sorrise a quell’idea.
C’erano davvero stati momenti in cui il pensiero di Malfoy gli era più molesto di quello di Voldemort stesso. Perché il Signore Oscuro era lontano, una minaccia inconsistente mentre si trovava al sicuro a Hogwarts, ma Malfoy era lì, davanti a lui, sempre pronto allo scontro diretto.
 
Suo nemico, suo pari.
 
Colui che si era auto proclamato il nemico giurato del futuro Salvatore del Mondo Magico.
 
Chissà se Malfoy aveva mai riflettuto sulla totale arroganza nell’arrogarsi il pieno diritto su quel ruolo. Harry sapeva solo che ci si era sempre trovato benissimo a interpretarlo e che lo aveva svolto nel miglior modo possibile. Si era sempre impegnato al massimo per rendere un incubo la sua vita già di per sé difficile.
 
Harry sentiva su di sé lo sguardo dell’ex compagno di scuola, ma non si sentiva pronto ad affrontarlo. Come poteva spiegare a Malfoy il motivo delle proprie visite quando non era chiaro neppure a se stesso?
 
Fuori, intanto, le nubi si squarciarono e una pioggia pesante e insistente si abbatté sulla piccola isola già martoriata di dolore. Il rumore all’interno della prigione era assordante e l’umidità dell’aria aumentò, fino a renderla liquida e difficile da respirare.
 
La tosse catarrosa del detenuto distrasse l’ex Grifondoro dalle proprie riflessioni e gli fece rivolgere all’altro un’occhiata stupita.
“Tu stai male” costatò scioccamente.
 
Il biondo scoppiò in una risata amara, che non fece che peggiorare il suo attacco di tosse.
“Che ti aspettavi, Potter? Sono ad Azkaban, nel caso non lo avessi notato” s’interruppe, ansante, mentre rantolava alla ricerca di ossigeno.
“Apri gli occhi, Sfregiato. Sono un Mangiamorte rinchiuso nell’area di massima sicurezza. Non puoi seriamente pensare che ci trattino con i guanti.”
Harry guardò con occhi nuovi il volto e il corpo del Serpeverde. Non ci aveva mai riflettuto prima. Che stupido pensò. Malfoy era rinchiuso là dentro da mesi ormai. Lui e la sua famiglia erano stati catturati dagli Auror subito dopo la fine della battaglia di Hogwarts e sbattuti ad Azkaban senza troppi riguardi.
 
Le ombre scure sotto i suoi occhi argentei, il labbro incrostato di sangue e sporcizia, gli zigomi sporgenti, che sembravano decisi a tagliare la pelle cerulea che li ricopriva. Tutto assumeva una nuova sfumatura nella tardiva consapevolezza di Harry.
 
Decise a livello razionale ciò che ad un livello inconscio aveva già deciso da tempo: il suo scopo, da quel momento, sarebbe stato tirare fuori quel ragazzo di prigione. Perché di questo si trattava. Tolte le maschere, le ipocrisie e gli antichi dissapori, di fronte a lui non restava che un ragazzo di diciassette anni che marciva in prigione.
 
 Ingiustamente.
 
Harry era stato costretto ad ammetterlo, dopo aver attentamente analizzato i documenti del processo del giovane Malfoy. Nessuna accusa teneva, poiché sembrava che il ragazzo fosse riuscito, per codardia, fortuna o semplice casualità a svicolare da tutte le situazioni compromettenti. L’unica colpa, alla fine di quelle analisi, sembrava essere il Marchio Nero che dava sfoggio di sé sullo scheletrico braccio sinistro.
 
Le guardie della prigione non permettevano loro di coprirlo, dovevano avere sempre sotto gli occhi la causa della loro prigionia. La consapevolezza che avessero scelto volontariamente il Male era motivo sufficiente perché gli Auror di guardia si sentissero in diritto di disporre dei propri prigionieri nel modo che più ritenevano opportuno: in tempo di ricostruzione, i fondi per la prigione scarseggiavano e i condannati o gli incarcerati in attesa di sentenza, venivano lasciati per giorni senza cibo né acqua. La fame e la sete si aggiungevano quindi alle torture fisiche e psicologiche inflitte alle anime dannate che dimoravano in quel luogo.
 
Draco Malfoy studiava il volto dell’ex nemico. Ex, perché ormai era consapevole che niente più aveva importanza. O, quanto meno, niente aveva importanza più per lui. Aveva vissuto nel terrore assoluto durante gli ultimi due anni. Dal momento in cui aveva accettato di prendere il Marchio pur di salvare la propria madre, aveva accettato anche il rischio di morire. Sapeva che avrebbe potuto fallire, e sarebbe stato ucciso. Oppure avrebbe potuto portare a termine la propria missione, macchiandosi della colpa infamante di aver spento la vita di un altro essere umano. Non c’era riuscito, e, da allora, viveva con la consapevolezza che la morte fosse dietro l’angolo. Il Signore Oscuro avrebbe potuto ucciderlo in ogni momento, per rabbia, delusione o semplice noia. In fondo, Draco Malfoy non era riuscito ad essere degno di venir considerato un vero Mangiamorte. Non aveva ucciso, non riusciva a utilizzare le Maledizioni senza Perdono e aveva, col tempo, perso la fede nei confronti delle ideologie folli che i suoi genitori prima e lo stesso Signore Oscuro poi avevano cercato di propinargli.
 
Non si sentiva un Mangiamorte, Draco, ma era riuscito a sopravvivere per tutta la durata della guerra. Poi, il Signore Oscuro era stato sconfitto e l’intera famiglia Malfoy si era ritrovata troppo invischiata con i perdenti, per poter tentare di saltare sul carro dei vincitori. E ora, ironia della sorte, la minaccia della morte che per un attimo aveva pensato di aver scampato, era tornata ad accompagnare il suo cammino. Malfoy avrebbe riso, se non fosse stato conscio di quanto la sua situazione fosse disperata.
 
Per questo, era veramente curioso di sapere il motivo per cui lo Sfregiato venisse ogni giorno di fronte alla sua cella. Aspettava che dicesse qualcosa, che comunicasse in qualche modo cosa volesse, ma salvo che Potter non comunicasse a livelli talmente infimi da non poter essere compreso dal genere umano, lui non era mai riuscito a percepire alcun messaggio.
 
Dopo alcune settimane, si era stancato di quel muto fissarsi. Gli aveva rivolto la parola. Si era sentito umiliato dalla propria stessa voce, arrochita e profondamente diversa da quella che aveva prima. Draco sospirò, chiudendo gli occhi e ignorando il dolore provocato dai pochi movimenti.
Il ragazzo dall’altra parte delle sbarre lo guardava con gli occhi sgranati. Aveva messo su qualche chilo pensò distrattamente, evidentemente stava facendo la bella vita da eroe.
Un nuovo attacco di tosse gli impedì di fare qualche commento malevolo.
 
“M-Malfoy” farfugliò l’altro. Più per salvaguardare il proprio orgoglio che per altro, Draco si costrinse ad alzare nuovamente gli occhi su di lui.
“Ti tirerò fuori di qui” affermò quello, sicuro di sé. Se non avesse temuto di peggiorare le proprie condizioni, Draco sarebbe scoppiato a ridere in quel preciso istante; non riuscì, tuttavia, a reprimere una risatina priva di vero divertimento.
 
“Non fare promesse che non puoi mantenere” gracchiò.
 
“Io posso. Io sono... io, no?” concluse con uno strano tono di voce che Draco classificò come disgusto. Lasciò vagare il proprio sguardo curioso sul volto dell’altro. Possibile che il grande Harry Potter fosse infastidito da ciò che comportava l’essere un eroe?
 
Si schiarì la voce.
“Appunto perché sei tu, perché dovresti farlo?” Il per me rimase sottointeso, ma lo sguardo che l’altro gli lanciò fu eloquente: l’aveva sentito comunque, forte e chiaro.
 
“Perché non è giusto” sussurrò Harry. Si passò una mano tra i capelli, disordinandoli ulteriormente. Malfoy non era l’unico ragazzo che conosceva; quasi tutti i Serpeverde della sua età marcivano rinchiusi ad Azkaban, in attesa che la lenta macchina burocratica ministeriale decidesse del loro destino. Dopo una prima ondata di processi lampo, durante la quale la maggior parte degli imputati era stata condannata a morte o all’ergastolo, i membri del Wizengamot si erano presi una pausa estiva, non ritenendo urgenti i casi dei Nuovi Mangiamorte, definizione coniata per l’occasione da un portavoce del Ministero per definire le persone che erano state marchiate durante la Seconda Guerra Magica.
Shacklebolt, nominato Ministro della Magia ad interim, si era veemente opposto all’idea di incarcerare decine di persone senza un regolare processo, ma la pressione dell’opinione pubblica, terrorizzata da ogni persona sospettata di essere un Mangiamorte, lo aveva forzato a compiere quella difficile scelta.
Il Ministro doveva affrontare i problemi causati dalla fine della Guerra e dal processo per la ricostruzione del Mondo Magico e il problema dei Nuovi Mangiamorte era stato accantonato.
 
Harry riusciva a capire le difficoltà che l’uomo stava affrontando; si era impegnato in prima persona a sostenere il Primo Ministro nei suoi tentativi di riforma, ostacolati da una classe politica restia ai cambiamenti. Dubitava che Kingsley avrebbe risolto il problema con uno schiocco di dita, ma era certo che non sarebbe rimasto con le mani in mano. Poteva non avere grande influenza sugli anziani membri del Wizengamot, ma il Quartier Generale degli Auror gli era particolarmente fedele e l’essere un Eroe della Seconda Guerra Magica aveva i suoi vantaggi, quando si trattava di oliare qualche ingranaggio.
 
“La vita è ingiusta, Potter” la voce strascicata di Malfoy lo riportò alla realtà.
 
“Lo diceva anche Piton” mormorò atono. Quella era un’altra questione in sospeso. Harry sentiva su di sé il peso dell’enorme debito che aveva nei confronti del suo Professore di Pozioni. L’avrebbe fatto anche per lui, decise. Avrebbe aiutato in ogni modo i suoi studenti.
 
“Il professor Piton, razza d’insolente” il ragazzo sorrise. Il professor Piton. Non l’aveva mai chiamato così e Malfoy era particolarmente bravo nell’imitare la sua intonazione di voce infastidita.
 
Trascorsero alcuni minuti, durante i quali nessuno dei due disse nulla. Draco aveva appoggiato la schiena alla parete dietro di sé e sembrava essersi assopito; Harry ne dedusse di essere stato congedato. Fece per allontanarsi, ma la voce di Malfoy lo fece trasalire.
“Potter” lo chiamò e il ragazzo si voltò nuovamente verso di lui.
“Non ci sono solo io qua dentro” affermò il prigioniero. Harry annuì.
 
“Lo so. Parlerò con il Ministro, vedrò cosa posso fare.” Fu il turno del biondo di annuire. Per quanto la situazione gli sembrasse assurda, non poteva far altro che affidarsi a Potter. Posò il capo contro il muro e cercò di prendere sonno. Aveva bisogno di riposo.
 
Harry si allontanò a passi svelti da quel luogo di dolore, mentre la prospettiva di una nuova missione alleggeriva il peso che gli gravava sulla coscienza.
 

 

   
 
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