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Autore: darkronin    05/02/2013    0 recensioni
4^ classificata e premio originalità al contest “La Ballata delle Emozioni” di phoenix_esmeralda sul forum di EFP
Dasa e Danjal. Qualcosa li lega. Lei non sa in cosa consista questo legame e lui le sembra troppo aggressivo: al punto da aver ordinato la sua segregazione in una bellissima villa di campagna.
Cosa rende così nervoso Danjal? Qual è il suo segreto? E quale quello di Dasa che lui cerca di nasconderle?
"Lui era l'unico, veramente, vestito come lei. Insieme non sembrava più essere fuori dal tempo. Insieme sembrava che fosse il tempo a essere nel momento sbagliato."
Genere: Generale, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lui le aveva fatto la strada e lei, per riempire il vuoto di una comunicazione che non aveva nemmeno accennato un timido decollo, si era concentrata sullo studio dettagliato di quello strano uomo, mai visto prima, che sembrava conoscerla così bene. Non apparteneva certamente alla servitù, viste le stoffe e la fattura pregiate dei capi che indossava. La pelle naturalmente dorata ma non scottata dal lavoro nei campi lo posizionava, sicuramente, nella nobiltà. I capelli erano neri come la notte e gli occhi sembravano due tizzoni roventi in qualche modo sedati da uno strato ghiacciato. I lineamenti erano spigolosi ma non erano di così facile attribuzione etnica. Che fosse il suo fidanzato? Possibile? Facendo mente locale, aveva scoperto di non ricordare molto della sua vita prima. Solo sprazzi di immagini significative, fotogrammi di quel cinema sfarfallante cui aveva assistito in compagnia....in compagnia di chi? Non lo ricordava. Eppure, ne era certa, era stato uno spirito libero.

Quando i primi camerieri li notarono e corsero a chiamare il maggiordomo, lo vide rilassarsi.
“Padron Danjal...” lo apostrofò il vecchio servitore. Era stempiato e canuto, con grossi baffoni che gli coprivano le labbra e un paio di pince-nez a cavallo del naso aquilino.
Danjal folgorò con lo sguardo il vecchio servitore, ma disse solo “Ringrazia il cielo che non sia successo nulla a Dasa, in tutte le volte che le avete consentito la fuga.” quindi, l'afferrò per il polso e la strattonò all'interno della grande casa. “D'ora in poi vigilerò io stesso sulla tua sicurezza. Non ti abbandonerò mai più” ringhiò in un suono gutturale simile a una bestia.
La condusse, ora con una gentilezza sconcertante, lungo gli ampi corridoi, fino a raggiungere il grazioso salottino in cui Dasa prendeva abitualmente il tè delle cinque.
“Accomodati” la invitò, lasciandole la mano e affacciandosi un istante oltre la soglia, forse a dare ordini alla servitù.
“Faccio già come se fossi a casa mia. Da due settimane. Non ti disturbare” avrebbe voluto rispondergli sprezzante. La realtà era che si sentiva stordita e avere qualcuno che le dicesse cosa fare le rendeva tutto più semplice.
“Dasa, Dasa...” mugugnò Danjal andando a prendere posto nella poltroncina accanto al sofà dove si era accomodata, computa e impettita. Appoggiava il viso sulla mano, l'indice vicino all'occhio, quasi a massaggiarsi la tempia, le altre dita quasi a coprirgli la bocca. Sembrava studiarla e valutare come comportarsi. Si alzò, evidentemente a disagio, e passeggiò fino alla grande finestra. “Mi hai molto deluso” disse infine.
Lei sgranò gli occhi. Deluso? Chi? Quel damerino che neanche faceva lo sforzo di presentarsi? A distanza di oltre due settimane. Avrebbe voluto ridergli il faccia, ma si trattenne, come si addiceva a una signorina di buona famiglia.
Passò un minuto buono, durante il quale Danjal non fece che fissarla insistentemente. Il leggero bussare del maggiordomo, spezzò la tensione e il giovane gli consentì di entrare, armato di tè speziato, il cui aroma si diffuse istantaneamente in tutta la stanza, impregnando ogni angolo.
Ora Dasa sapeva che il nome del vecchio era Bies: finalmente qualche informazione su cui elucubrare.
Bies...
Quel nome le scatenò un lawāmi, un lampo di cocienza, come lo chiamano i Sufi di cui aveva tanto letto prima della reclusione.
Con uno scatto meccanico, che forse sentì solo lei, le rotelle del cervello completavano una parte del complesso puzzle. Dasa, Danjal e Bies erano tutti nomi legati a qualcosa... a qualcosa che, a sua volta era legato allo stemma che ricorreva in tutta la casa come un marchio, sulle maniglie, nella carta intestata, sui cancelli, sulle posate e sui servizi di finissima porcellana come sui ricami decorativi delle redingotte e dei grembiuli della servitù: due triangoli rovesciati, la base in comune e le estensioni che si arricciolavano a creare la struttura di una A, la cui stanghetta orizzontale era composta da una V in carattere tipografico. Poi, le parole del giovane risultarono essere particolarmente evocative quando, rampognando i servitori, si appellò al nome del casato: Alastor era il nome che legava tutto e che, dal profondo della sua memoria, cercò di trascinare in superficie tutto ciò a cui esso era vincolato. Quasi per avvisarla.
Danjal si interruppe all'improvviso e congedò l'uomo. Quindi, sigillò la porta con un giro di chiave che si infilò nel taschino “Dasa?” chiamò, distraendola dal suo tentativo di comprendere.
“Ha detto che l'ho deluso” disse soltanto fissandolo in quegli occhi impenetrabili. Lui sbuffò e si sedette scompostamente, facendola arrossire.
“Ti lascio sola per un po' di tempo...e guarda cosa mi diventi...” sputò con livore. Dasa era sconcertata. Cos'aveva mai fatto? Oltre indossare i pantaloni e andare in bicicletta? E, ovviamente, mal sopportare il controllo maschile sulla sua persona. “Io ti avevo creata in un modo. E tu sei diventata tutt'altro. ”
Quell'uomo non conosceva bene le parole o, forse, non voleva usarle, pensò. Quello che provava non era solo delusione. Era qualcosa di più profondo e cocente: era disprezzo.
E c'erano tanti modi per dimostrarlo, non che uno risultasse meno abominevole o più facile da sopportare di un altro. Poteva fingersi offeso o deluso; avrebbe potuto anche decidere di prendersi gioco di lei, con ferocia e cattiveria; o sbandierare ai quattro venti i motivi per cui lei l'avrebbe deluso (e in virtù di quale rapporto, tanto per completezza d'informazione); o, ancora, fingere di non considerarla abbastanza importante da degnarsi di risponderle, anche se questo atteggiamento avrebbe avuto ragion d'essere solo nel caso in cui lei, la colpevole, avesse dimostrato attaccamento nei confronti di quell'uomo che cominciava a infastidirla coi suoi modi arroganti. Poteva, altre sì, decidere di fregarsene e non calcolarla proprio, se era un così grande errore. Ma, visto che lui aveva scelto la tattica più crudele, cercando di farla sentire in colpa, senza fornirgli alcun contesto, motivazione o scusa, lei si sarebbe attenuta a quell'ultima opzione. Disprezzo chiamava disprezzo, soprattutto se gratuito e ingiustificato.
Perché poteva pure disprezzarla per comportamenti vergognosi che non avesse capito. Ma lui sembrava capire e non accettare, di conseguenza, il fatto che lei fosse uscita dal seminato. Un seminato, a suo avviso, totalmente invisibile.
Così, incrociò le braccia, rifiutando il tè e cercando di convincersi di essere sola nella stanza.
Danjal, nel frattempo, si era coperto gli intensi occhi neri venati da bagliori rossastri con la mano, quasi a schermarsi da una visione orrenda. Rimasero in quella posizione di stallo per lunghi minuti.
Dasa aveva finito per sorseggiare il suo tè, senza averlo realmente gustarlo, troppo infastidita da quella strana situazione. Poggiò la delicata ceramica sul tavolino intarsiato e fece per alzarsi: il suo ospite non esisteva, non era presente nella stanza – continuava a ripetersi - e, dunque, lei era libera di fare come se fosse stata sola. Ma Danjal sollevò subito lo sguardo infuocato, incenerendola e Dasa cercò di ignorare la sensazione sgradevole che ciò le comporta.
“Dove vai?” le domandò non appena le sue dita sfiorarono la maniglia, dimenticandosi che fosse chiusa a chiave.
Un attimo di esitazione: sarebbe stata cortesia rispondere. Ma lei calò la mano e tentò di aprire la porta. Stava già tentando di scuoterla un'altra volta, convinta che fosse solo bloccata, quando Danjal la strattonò, reclamando la sua attenzione
“Non ti ho dato il permesso di andartene” sibilò irritato. Dasa lo studiò, ora, con malcelato fastidio. Quindi abbassò lo sguardo sul proprio polso, quasi potesse cambiare le cose solo osservandole. “Torna a sedere, dobbiamo parlare” Il tono si era fatto improvvisamente gentile. Tutto le puzzava di imbroglio, ora. Lui si sedette, lei, orgogliosa, rimase in piedi, appoggiata pervicacemente alla porta: la posizione le dava un senso di sicurezza, quasi potesse fuggire in un istante di distrazione del suo nuovo carceriere. Notata la sua muta risposta, Danjal fece spallucce “Come preferisci”
“Dunque, Dasa...” cominciò, studiandola intensamente, dopo un attimo in cui, forse, aveva raccolto le idee. Le braccia erano abbandonate sul grembo, le lunghe gambe accavallate pigramente: decisamente un atteggiamento poco signorile. Dasa assottigliò gli occhi: si era fatta confondere dall'aspetto di quell'uomo e non sarebbe caduta due volte nello stesso errore. “Immagino che tu non ti ricordi di me. Altrimenti non credo proprio mi guarderesti a quel modo e non mi parleresti così freddamente” Un sopracciglio, scettico, scappò involontariamente al suo controllo: pensava di avere a che fare con una stupida?
“No, Messere, sono sicura di non aver mai avuto il piacere di incontrarla né, tanto meno, conoscerla” replicò fredda. La buona educazione la spinse a rispondere a mute domande anche quando non avrebbe desiderato far altro che andarsene di là
Lui chinò il capo, meditabondo. Quindi, sospirò “Ti ho creata io così...ma certo non pensavo di correre un rischio simile. Sono stato via per un po'... e sei diventata così indisciplinata. Vesti anche alla maschiaccia.” scosse la testa, deluso “Oggigiorno, l'epiteto corretto per designare una donna come te sarebbe teppista.” A Dasa sfuggiva qualcosa, qualcosa di importante. Ma non diede a vedere questa sua ignoranza per non mettersi, da sola, in posizione di svantaggio. Lei era fiera, orgogliosa. Forse un po' restia alle leggi impartite dalla classe maschile. Forse, durante la sua prigionia, quei termini avevano assunto un valore spregiativo. “Io sono il padrone di questa tenuta” si presentò, finalmente, Danjal “Io ho creato – e sono quindi, a ogni buon diritto, possessore – tutto ciò che trova all'interno del perimetro che tu, così spesso, hai valicato senza permesso”
“Mi permetto di dissentire” disse lei, interrompendolo con voce calma ma ferma “Io ero prigioniera.”
“Certo. Io stesso ti ho rinchiusa in quella stanza” le rivelò senza il minimo segno di rammarico “Io ti ho creata per quello che sei”
“Mi ha creata il Padreterno, compresa la mia vena ribelle. Lei, per quanto ne so, potrebbe, eventualmente, aver solo alimentato una tendenza preesistente” sibilò lei, punta nel vivo “Inoltre, un così abile carceriere, non dovrebbe liberare la sua preda”
“Il tuo abile carceriere, come mi chiami tu, ti ha rinchiusa lì dentro solo per il tuo bene. Mi sono dovuto assentare e ti ho messo al sicuro. Nessuno doveva trovarti” replicò lui, freddo.
C'era qualcosa che non tornava, in tutto il suo ragionamento. O forse, lei non era in grado di comprendere un essere così cinico e calcolatore. Era disgustata dalla sola possibilità che esistessero persone del genere.
“Benissimo” acconsentì, reggendogli il gioco “Allora gradirei che il mio Signore mi concedesse il permesso di farmi un bagno. Due settimane e la servitù mi ha impedito l'accesso ai bagni. Non mi sembra il trattamento che deve ricevere qualcuno che va protetto”
“L'acqua fa male” tagliò corto lui, considerando chiuso il discorso.
Dasa trasecolò. “Ma...” obiettò, incapace di credere alle proprie orecchie “Ovunque nel mondo esistono addirittura sistemi pubblici per l'igiene personale: dalle saune dell'estremo nord, agli hammām delle regioni arabe ai bagni pubblici giapponesi... e già ai tempi dei romani...”
“Basta così!” tuonò l'altro, spazientito, mettendola a tacere “Le tue fantasie, alimentate dalle assurde mode di quest'epoca così bizzarra, qui non troveranno alcuno sfogo. L'acqua fa male. Il bagno in sé, fa male. Porta le più terribili malattie se non anche alla corruzione, visto che mi citi proprio l'epoca romana. Fine della discussione”
Dasa, a quel punto, abbandonò ogni pretesa di cautela, infervorandosi “Oh, certo, Padrone, allora perché non mi obbligate a rientrare nell'orrenda gabbia di tortura che è il corsetto? Perché non mi impedite ancora i movimenti con innumerevoli crinoline? I medici, e addirittura gli architetti, di tutto il mondo sono concordi nel demonizzare un certo codice suntuario che prevede...” l'improvvisa, quanto sguaiata, risata di Danjal la interruppe, facendole stringere i pugni per mantenere la calma
“Una suffragetta... Ci manca solo che tu voglia tagliare anche i tuoi bei capelli...”
Avrebbe voluto rispondergli che anche in paesi – che loro consideravano – arretrati, come quelli del vicino oriente, proprio in quegli anni, i giovani stavano lottando dispotismo e sessismo, ottenendo grandi risultati. Ma era meglio tacere le informazioni che aveva acquisito dai libri: guai che quello pensasse anche che dovesse rimanere illetterata. Improvvisamente si trovò a desiderare essere altrove. Avrebbe voluto avere l'arguzia e la mente fredda della sua eroina, Sharazade e far capitolare quel borioso che si permetteva di trattarla come una bambola. Ecco cosa voleva: che lei stesse zitta, che non pensasse e si limitasse a essere graziosa. Come una bambola. Ma lei, a differenza della principessa persiana, non aveva la lingua lunga e tagliente né era abbastanza colta per rigirarlo come un calzino. Chiuse gli occhi un istante, cercando di calmarsi.
“Chiedo solo di potermi fare un bagno. Anche alla fonte, se all'interno della villa i bagni sono così sporchi da ospitare colonie di ratti. Devo indossare i guanti anche per mangiare...” protestò.
Danjal la studiò intensamente. Aveva soffocato una risata quando lei aveva accennato ai ratti ma si era subito ricomposto.
Si batté, quindi, i palmi delle mani sulle cosce, prima di alzarsi “E sia... ma ti laverò io” impose.
Dasa sbiancò. Non c'era proprio limite al peggio. Certo, una signorina di buona famiglia non poteva certo arrangiarsi nello sbrigare compiti tanto terreni. Ma farsi lavare da un uomo era fuori discussione: quello doveva essere malato. Ricordava qualcosa degli scritti di Freud. Certo era che aveva qualche disturbo serio se non si accontentava nemmeno di spiarla.
“A te” precisò lui, vedendo la strana espressione sul suo viso “...l'acqua fa male! E nessuno della servitù saprebbe come comportarsi nel caso ti succedesse qualcosa.”
“Mi lavo da sola!” protestò lei, imbarazzata
“Oh, ma guarda...finalmente un residuo della Dasa che avevo creato... dimmi, amore mio, ora ti ricordi anche di me?” domandò divertito mentre la raggiungeva. Le passò molto vicino, nel tentativo di raggiungere la maniglia. Una vicinanza sgradita e inappropriata.
Ma subito si avviò lungo il corridoio. Non l'attese, anche se, sicuramente, s'aspettava che lei lo seguisse. Dasa non rispose alla domanda e trottò al suo seguito, rapita da un dettaglio che continuava a comparire nel loro scambio di battute: lui continuava a porsi come suo creatore. Ma in quale senso? Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e della mente, come poteva, ora dirsi così contrariato?
La condusse nei sotterranei umidi della villa, illuminati da strane torce appese direttamente al soffitto. Era la prima volta che penetrava in quella parte della residenza e si guardava attorno con l'aria stupita e rapita di un bambino. Sembrava quasi – si vergognò nel formulare l'ipotesi – un atto di stregoneria. Idea assurda, suggerita da letture assurde, ma che avrebbe giustificato alcune cose.
Si riscosse quando sentì l'uomo armeggiare con gli ingranaggi di una pesante porta di legno massiccio. Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che le ricordarono, ancora, le sue letture esotiche. Maioliche decorate sulle pareti, mosaici sul fondo di una vasca grande quanto due stanze. Fiotti bianchi sgorgavano incessanti da diverse fonti, riportando quel fondale decorato sul pelo dello specchio d'acqua e creando giochi ottici di spettacolare bellezza.
Danjal le indicò un paravento “Farai il bagno nella vasca più piccola” disse indicando una piccola conca poco distante dalla grande vasca.
“Mi arrangio, grazie!”
Lui sbuffò, forse arresosi, ormai, alla sua testardaggine “Resterò dietro il paravento...”
   
 
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