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Autore: thenightsonfire    08/02/2013    12 recensioni
Prendete uno stage lavorativo a Cannes, una diciassettenne imbranata e allergica alla sensualità fan dei 30 Seconds to Mars, il cantante del suddetto gruppo, un'amica incapace di coprire le scappatelle, un professore troppo furbo e un Blackberry galeotto. Cosa si ottiene?
Un gran casino, se la suddetta diciassettenne si è appena svegliata mezza nuda in una camera d'albergo con Jared Leto affianco e, per qualche motivo, non ricorda nulla della notte appena passata.
Quindi, ricapitoliamo.
Sono a quattro piedi, in una stanza che adesso conosco, in un hotel che credevo d’aver visto solo da fuori e con una persona con cui probabilmente ho passato la notte a fare Dio solo sa cosa.
E, cosa più importante, sono in mutande. Questo significa che in questo momento sto dando una globale, perfetta visione a trecentosessanta gradi del mio culo a Jared Leto.
“Sempre che stanotte, del tuo culo, tu non gli abbia offerto solo la visione.”
Sotterratemi.
Genere: Comico, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2, ovvero: “In quel ramo del lago di Cannes (che ho appena creato io stessa rovesciando l’acqua sul blackberry di Jared Leto)”.

 

Io mi chiedo come faccia ad essere costantemente e perennemente in ritardo: davvero, ne ho conosciute di persone ritardatarie – io stessa sono una di queste –, ma come lei mai. È capace di arrivare in ritardo ad un appuntamento anche se comincia a prepararsi due ore prima, e sembra realmente che lo faccia apposta, persino quando arriva ansimando per la corsa e con i capelli in disordine dicendoti: « scusa, ho fatto tardi ».

Controllo nuovamente il display del mio cellulare, un Blackberry nero che mia madre mi ha comprato dopo mesi e mesi di preghiere. In cui “preghiere” è il nome in codice per continui ed estenuanti richieste di avere il cellulare come “quello di Jared Leto”. Anna l'ha soprannominato Jared, a proposito.

Ogni volta che mi chiede se può utilizzare il mio telefono mi chiede se le “posso prestare Jared”, per dire, con ovvie occhiate stranite dei presenti.

Mi chiedo dove sia finita la mia amica Anna, che è anche la mia compagna di stanza – o meglio, di famiglia –, poi mi siedo in una delle fermate del bus, qua davanti al porto di Cannes.

Un leggero venticello mi scompiglia i capelli, ma il sole scotta e quindi non sento nemmeno freddo. Hanno avuto ragione a chiamarla ‘Costa Azzurra’, perché siamo già a fine Settembre, eppure c’è caldo come se fossimo ad Agosto: il cielo è azzurro, e oltre alla già citata brezza marina non c’è niente di cui potersi lamentare.

Se non fossi me.

Perché io odio il caldo, odio il sole e soprattutto, dico soprattutto, odio il mare. Voglio il freddo, la neve, le metropoli, le sciarpe calde, il cappuccino...

Il professore poteva scegliere Parigi, e invece...

Sospiro, desiderando solo di tornare a casa – o meglio, alla casa della famiglia che ci ospita. Staremo con loro per quattro settimane per uno stage lavorativo, e sembrano delle persone apposto – a parte forse la figlia adolescente che piazza musica dance alle sei di mattina come sveglia. Scusatemi, ma, il primo giorno di questa tortura psicologica da stampa sicuramente cinese,svegliarmi con Kesha che mi urlava di lavarmi i denti con una bottiglia di Jack Daniel's ha messo a dura prova il mio precario equilibrio psichico.

Stanca di aspettare la mia compagna di stanza, decido di bighellonare un po', e magari prendermi qualcosa in un caffè.

Per dovere di cronaca, le tre vie principali e parallele di Cannes, in ordine di spocchiosità, sono la Croisette (quella in cui, per intenderci, io posso permettermi mezza pallina di gelato e un'occhiata altezzosa della cameriera), Rue d'Antibes (in cui posso ragionevolmente aspirare ad una pallina intera e un po' di sana indifferenza) e la stretta Rue Maynadier (dove i poveracci come me si scambiano occhiate di reciproco compatimento per non poter andare a fare shopping nelle prime due vie, mangiando però un cono gelato intero).

Quest'ultima, ribattezza dalla mia amica Rue MeQuelloCheÈ, viene descritta dalle guide turistiche come una viuzza gioiosa e caratteristica.

La realtà è che i turisti cominciano a gravitare da queste parti quando capiscono che probabilmente le vetrine Yves Saint-Laurent sulla Croisette sono provviste di mortali vetri riflettenti anti-burini tipo le barriere d'energia di Dragon Ball. Lì, quindi, non possono comprarci nemmeno uno spillo. Ho anche la sensazione che le star hollywoodiane tendano a rifugiarsi qui quando, nei giorni del Festival, sono stanche dei flash dei paparazzi, ma non ho modo di argomentare la mia tesi.

Mi allontano dal porto e dalla Croisette e passo in perpendicolare rue d'Antibes, mentre persino l'aria che respiro smette di rilucere di una particolare sfumatura dorata che urla 'soldi, soldi, soldi'. Tutto, alla Croisette, urla 'soldi', a partire dalle decine di yacht ormeggiati lì a prendere sole e caldo. Mi stupisco che non esista una tassa sulla respirazione dell'ossigeno di Cannes.

Faccio passare un paio di negozi di vestiti hippie e un negozio di scarpe a basso prezzo prima di entrare in un caffè minuscolo, con giusto un paio di tavolini piazzati fuori all'ombra, di cui soltanto uno occupato. Il locale un'aria un po' – ecco – abbandonata, ma non faccio la schizzinosa. Alla fine, è quasi come se questa sensazione di trascuratezza doni un aspetto intimo all'ambiente. Decido di prendere un tè freddo alla menta, faccio lo scontrino e quello dietro al banco, un ragazzo coi capelli color topo, mi dice di andare a sedermi, ché provvederà lui a portarmi il tè. Non me lo faccio ripetere due volte e vado a sedermi fuori, lasciandomi cadere stancamente sulla sedia. La tracolla Eastpack, piena di souvenirs, comincia seriamente a pesare, ma sono talmente pigra da lasciarmela attaccata al collo. Stiro le braccia, caccio uno sbadiglio che forse dà a qualche sfortunato passante una visuale completa del mio apparato digerente, e mi guardo intorno. Al tavolino accanto a me, proprio di fianco alla mia sedia, c'è seduto un uomo che prima ho completamente ignorato e che sembra totalmente immerso in un incontro a due col suo cellulare. Da qui, guardandolo di sottecchi, riesco a vedere solo il profilo di un naso francese, un grosso cappello che nasconde buona parte del volto, e una folta barba da Soldato Indipendentista. O da amish. O da qualcuno che ha una seria fobia per i rasoi o una curiosa affinità col cugino IT della famiglia Addams.

Per amore di Thor, noto orripilata qualche attimo dopo. Indossa un impermeabile. Con trenta gradi al sole.

Chissà che razza di camera a gas deve nascondere sotto i vestiti.

Un brivido di disgusto mi scuote da capo a piedi.

L'andropausa è una cosa brutta.

Dev'essere anche la causa del bizzarro stile a metà tra l'Ispettore Gadget e i barboni che dormono sotto gli archi della marina a Catania (brutto spettacolo, ve lo assicuro). Magari è così che in certi individui si manifesta la crisi di mezza età: squittiscono agghiacciati davanti ad un rasoio e si rifugiano in un angolo buio in compagnia della versione impermeabile della copertina di Linus.

Con la barba che si ritrova, tra impermeabile alto e cappello formato pareo è difficile persino dire quanti anni ha.

Secondo me è un maniaco”, decreta la mia Coscienza. “Ed è nudo sotto l'impermeabile.”

Non appena arriva l'ordinazione ringrazio a bassa voce il il ragazzo del bancone e torno a osservare di sottecchi lo strambo individuo accanto a me, però adesso sorseggiando il mio amato tè. Ha davanti a sé solo un bicchiere d'acqua, e ora sta allungando il braccio per posare il suo cellulare. Oh, ha un Blackberry identico al mio, registra una parte remota del mio cervello. Sospira, tirando il collo all'indietro.

Eppure, qualcosa scatta in un angolo nascosto e impolverato della mia coscienza, una specie di strano campanello d'allarme. È a metà tra la sveglia della mia psicolabile ospite francese e la colonna sonora de Lo Squalo, e mi fa rizzare ciò che resta della mia peluria superflua dopo l'ultimo olocausto pilifero.

Cioè, ceretta.

Dio, se sto dando segni di squilibrio.

Però, mentre stira le braccia in alto, non posso fare a meno di notare le sue mani. Ha delle belle mani. La parte feticista delle mie orde barbariche ormonali ulula di piacere come Remus Lupin nelle notti di luna piena.

Dannazione.

Non posso diventare un'ameba sbavante ogni volta che vedo delle belle mani.

Oh, sì che puoi, orgasmano i miei due neuroni in sincrono.

Poi l'Amish in trasferta francese decide che c'è troppo caldo per mantenere il look da ispettore privato, così si toglie l'impermeabile color panna, poggiandolo sullo schienale della sedia. Sotto ha una maglietta bianca a maniche lunghe.

Ma si è visto allo specchio, prima di uscire di casa?

Impermeabile e maniche lunghe con questo caldo?

Allungo lo sguardo, sentendomi una guardona. È come se l'insieme della sua figura mi suggerisse, persino quasi di spalle così com'è, che è una persona che conosco o che ho già visto. È una sensazione strana.

Uh, che gambine sottili fasciate in una tuta nera. Le zappe che ha al posto dei piedi creano un contrasto quasi comico con i due ramoscelli che ha attaccati al busto, soprattutto con le gambe accavallate e la posa femminile che sta assumendo in questo momento.

Ho Malgioglio in trasferta francese.

Eppure, la parte più profonda di me (e la mia Coscienza ridacchia, sapendo bene qual è) percepisce una specie di aura sessuale attorno a lui. Prendete Dragon Ball e immaginate che al posto dell'aura da Super Sayan ci sia un alone pieno di piccole scritte, sessosessosessosessosesso, che balugina ondeggiando intorno al suo corpo. Come se quest'ultimo – che nemmeno riesco a vedere tanto bene – mi stesse dicendo: “nascondimi in un angolo buio e consumami fino alle ossa”. Ma io nemmeno lo conosco, questo, santo Odino.

Ho bisogno di un fidanzato.

Che è la metonimia per “sesso”.

Poi, l'Amish si stiracchia ancora un po' e le maniche bianche della maglietta si abbassano, rivelando gli avambracci.

Ma come cazzo fa a non suda––

E improvvisamente mi accorgo che ha dei tatuaggi, sugli avambracci. Dei tatuaggi perfettamente simmetrici, neri, raffiguranti quelli che a prima vista sembrano semplici triangoli. Solo a prima vista, però, perché chi li conosce sa cosa sono.

Triad.

E in un solo secondo, realizzo.

Le mani.

« Cazzo. »

Le gambe da modella.

« Cazzo! »

I peli pubici in faccia.

« CAZZO. »

Davvero, mi ci vuole solo un secondo.

Il tempo necessario per realizzare che quello davanti a me è Jared Leto.

« OH, CAZZO! »

 

Non può essere.

Non ho davvero urlato “cazzo” in mezzo a Rue de Meynadier, vero?

Non mi sono appena alzata in piedi spingendo quasi il tavolino a terra, giusto?

Jared Leto in barba e impermeabile non mi sta davvero guardando con gli occhi sbarrati, sì?

« PUTTANA MISERIA! »

Mi alzo di scatto, mandando la sedia a terra con un fracasso terrificante, e qualche francese si ferma a guardarmi, inquieto.

Inquieto? Inquieto? Ho Jared TerzaGambaLunga Leto di fronte, porca puttana santissima, io ho il diritto di essere inquieta!

Apro e chiudo la bocca un paio di volte. Da sopra la folta barba, gli occhietti sospettosi di Jared mi fissano, mentre vedo la sua mano allungarsi lentamente verso la giacca. Che voglia scappare? Fuggire via dalla sconosciuta in iperventilazione?

E no, eh. A costo di saltargli addosso e placcarlo, lui non mi scappa!

Oh, sì, ululano i miei ormoni strappandosi i vestiti di dosso come Hulk durante una trasformazione, placcalo, placcalo, PLACCALO!

Oh, buon Dio. Devo stare calma, devo stare calma, devo stare...

« No, no, no, no! » squittisco, allungando la mano. « Io... tu...»

Argh. Il mio inglese non mi può abbandonare ora. Non può.

« Tu... tu... io... »

« Be' » Jared inarca un sopracciglio, « i pronomi personali vedo che li sappiamo. Ora passiamo alle frasi intere. »

Boccheggio un paio di volte, fissandolo inebetita.

Ma... stronzo!, pensa la parte razionale del mio cervello. La parte non-razionale del mio essere, d'altro canto, sta già gemendo, contorta di piacere.

Ma noi non vogliamo parlare”, freme all'unisono l'orda barbarica dei miei ormoni.

« Sei Jared Leto » sussurro, in inglese. Prego ardentemente Dio, Gesù Cristo, Buddha e Tomo di non avere gli occhi troppo lucidi o l'espressione da maniaca sessuale o, che il cielo me ne scampi, la bava alla bocca.

« L'ultima volta che mi sono specchiato era così » risponde lui, con palese sarcasmo.

« Oh, dio. » Chissà, vola il mio cervello, magari era nudo. Nei miei pensieri, balbetto sconclusionatamente. Non pensare a lui nudo, non pensare a lui nudo, non pensare a lui nudo! « Io... ehm, sono una Echelon. Giuro che non voglio farti del male. »

Eh? “Giuro che non voglio farti del male”? Che cazzo è, un extraterrestre?

Mi sto schiaffeggiando mentalmente.

Ma lui sorride, malizioso. « Non è detto che non mi piacerebbe. »

Oh, mio dio.

Secondo voi lo sta sentendo che sono bagnata come Londra in autunno?

Spina dorsale,” ordina la mia Coscienza.

Non devo fare come una qualunque ragazzina arrapata, mi dico, (anche se, be', onestamente lo sono), ma devo respirare normalmente e fare finta che la sua presenza non mi metta in soggezione.

Forse una parte del mio cervello deve ancora realizzare di avere Jared Leto davanti – al contrario di un'altra parte del mio corpo, che se n'è accorta fin troppo bene –, perché non sto avendo le reazione che nella mia fantasia avevo sempre pensato avrei avuto. Non so, scoppi di pianto, di risa, urla indefinibili, tentativi di stupro. Niente. Probabilmente sto attraversando una qualche fase di shock che non mi permette di comportarmi come dovrei.

O forse non dovrei cercare di trovare scuse patetiche per saltargli addosso.

« Ahm » tossisco. « Sì, ehm. Ahm. Okay, quindi. »

Vai, Elena, continua così. Sta' sicura che è affascinato dalla tua eloquenza.

Inclina la testa di lato, fissandomi intensamente. In un momento di confusione penso che l'Arcangelo Gabriele deve aver fatto esattamente così con la Madonna. Uno sguardo alla Jared Leto e boom, era incinta.

Faccio per parlare – e magari partorire una frase che somigli più ad una proposizione di senso compiuto che al grugnito di un Homo Sapiens –, quando il ragazzo del bancone torna con una bottiglia d'acqua minerale di vetro e gliela pone sul tavolo. Jared si volta a guardarlo e, gonfiando il petto, sforna il meglio del suo frasario francese in un moto d'orgoglio per la natura palesemente poliglotta del suo essere: « Merci ». Il cameriere freme, estasiato.

« Excusez-moi » non posso fare a meno di intromettermi, « pouvrez-vous me porter un peu d'eau aussi, s'il vouz plait? »

L'ego ferito che traspare dallo sguardo di Jared è quasi divertente. Mi guarda male e si volta, sprezzante. Il cameriere mormora un « mais oui », vagamente contrariato, ma fa come gli ho chiesto. In nemmeno un minuto va e torna con un bicchiere d'acqua che quasi scaraventa sul mio tavolino. Nel frattempo, Jared si è versato dell'acqua nel bicchiere, lasciando la bottiglia senza tappo, ha ripreso il cellulare in mano e mi sta ignorando, messaggiando con chissà chi. Penso in un moto di disprezzo che probabilmente è una bionda francese che pesa quaranta chili, di cui dieci solo in tette in silicone.

Per dire, io ne peso trenta solo in cosce.

Faccio un respiro profondo. Mi inginocchio per terra, agguanto la borsa e all'interno cerco qualcosa che assomigli ad un pezzo di carta e ad una penna, fino a quando, in una tasca seminascosta, ah!, un quadernetto che credevo d'aver dimenticato a casa dalla Psicolabile. E c'è pure una penna, grazie a Tomo. Ancora a terra, tiro fuori anche il cellulare e mi faccio coraggio.

« Jared? Ehm, Mr. Leto? »

Quando sente “Mr. Leto” si gira lentamente, stavolta senza alcun sentimento negativo nel suo sguardo. Anzi, sembra piuttosto divertito. Mi alzo in piedi anche io, ma prima che possa parlare lo vedo sospirare teatralmente.

« Peccato » dice. « Siete bellissime quando inginocchiate davanti a me. »

La cosa più sensata che il mio cervello riesce a formulare in risposta è: “jdfkasjdkasjdkajsd”.

Poi: Sapessi allora come “vengo” bene messa a novanta.

« Sapessi allora come vengo bene messa a novanta. »

Spalanca gli occhi e la bocca, momentaneamente scioccato.

Oh, cazzo.

Non l'ho detto ad alta voce, vero?

E invece.

Voglio sotterrarmi. Come in The Kill, bury me, bury me. Voglio che un pazzo psicopatico arrivi da dietro e mi accoltelli a morte. Ora. In questo preciso istante. La mia esistenza è deplorevole.

« Oh, you little naugthy girl » sorride maliziosamente. « Un'altra parola così e sarò costretto a punirti. »

« Promessa? »

Mi tappo la bocca, orripilata.

L'ho RIFATTO! Ma come? Cosa mi sta succedendo? Dov'è finita la connessione tra bocca e cervello? Dove?

Scoppia a ridere. « Fossi in te non lo chiederei. »

Dai, Elena, elabora una risposta spiritosa. « Fossi in me, avresti l'istinto di chiedere di tutto. » Male. Riprova. « Cioè, ehm, al momento vorrei una cosa sola. » MALISSIMO, ELENA, MAY-DAY, MAY-DAY. « Voglio dire, una foto e un autografo. Ovviamente volevo dire quello. »

« Ovviamente, certo. Dammi qua, su » mi ordina, allungando la mano per prendere il quadernetto e la penna.

Vorrei dirgli che può prendere tutto di me, ma forse è meglio che sto zitta.

E lui segna l'autografo. Poi mi torna il quaderno e allarga le braccia, come a dire: “e la foto?”, e non mi lascio sfuggire l'invito. Smetto di pensare (tanto mi riesce facile, non so se l'avete intuito) e mi avvicino a lui, abbassandomi e accostandomi al suo corpo abbastanza vicino da far rientrare entrambi nell'obiettivo della fotocamera del blackberry.

Sento il suo profumo e il suo calore del suo corpo e per un paio di attimi mi dimentico persino chi sono.

Poi mi dice: « Bel cellulare. È uguale al mio, che coincidenza ».

Già.

Coincidenza”.

E scatto. Non appena la foto è fatta, lui si allontana da me. Cerco di non sentirmi delusa e di convincermi che dopo tutto l'ho disturbato durante una vacanza, solo che... be', anni a sognare questo momento e quello che ho racimolato sono un paio di figure di merda e un paio di prese per il culo.

Fosse almeno fisica, la “presa per il culo”.

La mia Coscienza si sbatte una mano sulla fronte.

Sbattere.

Sdlkfjlsdkfslf.

Devo smetterla con queste associazioni mentali.

Ma mentre cerco di aprire la galleria per vedere il risultato il quaderno mi scappa di meno e, dopo aver fatto un paio di mosse che somigliano a degli spasmi muscolari per cercare di prenderlo al volo, sento la sua risata soffocata.

Benissimo.

Sospiro, sentendomi avvampare. Il quaderno ovviamente è finito vicino ai suoi piedi, sotto il tavolino, come volevasi dimostrare. Non poteva finire in un posto più imbarazzante. E ovviamente lui non si abbasserà a raccoglierlo. Sta già ghignando, lo vedo con la coda dell'occhio.

Dite che potrei utilizzarla come storia? “Sono finita con la testa sotto il tavolino di Jared Leto, eheh, è stato fantastico ed eravamo pure in un luogo pubblico!” “Hai avuto un orgasmo?” “No, ho avuto un autografo, però ero a trenta centimetri da Satan!”.

Bah. Sono mediocre pure per le storie fittizie su internet.

E così poggio il mio cellulare accanto al suo, mi abbasso fino a mettermi quattro piedi, e agguanto il quaderno, praticamente con metà corpo sotto l'ombra del tavolino. Ho i piedi di Jared davanti, e in un lampo di pura demenza mista ad una lussuria inspiegabile mi chiedo come sarebbe leccargli le scarpe.

Oh, mio dio. Cosa. Ho. Appena. Pensato.

Dal modo in cui soffoca una risata, però, capisco che è decisamente nella cosa dell'umiliazione. Sta godendo, nel vedermi così.

Non poteva, che so, essere per la carità? E farmi una proposta sessuale? E farmi qualunque cosa di sessuale?

« Avevi ragione » lo sento dire ad un certo punto, proprio quando penso che l'incontro non poteva finire peggio di così, « a novanta sei decisamente meglio. »

E mentre una scarica di adrenalina mi attraversa e non posso fare a meno di pensare le cose più porche che la mia mente abbia mai partorito, in un secondo, in un solo secondo, è il disastro.

 

Sobbalzo per lo shock e sbatto dolorosamente la testa contro il tavolino, che si alza di conseguenza, e in rumore di vetro che rotola e di acqua versata – la bottiglia non aveva il tappo, mi rendo conto con orrore – mi fa raggelare il sangue nelle vene. Jared tira fuori una sfilza di imprecazioni che farebbero impallidire Satana in persona mentre, e, al ralenti, vedo i due blackberry – bagnati – cadere per terra. Atterrano ad un metro da me.

Sono agghiacciata. Totalmente. I miei due neuroni si mettono nella posa dell'Urlo di Munch e il primo impulso che mandano ai miei arti è quello di correre via.

Cazzo.

Ho appena bagnato il BlackBerry di Jared Leto.

Ho appena ucciso l'unico amore della sua vita.

Mi ucciderà.

« Oddio » soffio, senza fiato. « Sono nella merda. »

Alzo lo sguardo su di lui. Ha la faccia che deve avere Shannon davanti ad un libro di grammatica inglese.

L'orrore più nero, mentre guarda i due cellulari, immobile. Poi lo vedo sillabare, senza voce: « Il mio BlackBerry », e abbassare lo sguardo su di me.

Ora è incazzato.

« Ehm » dico, mortificata. « Scusa? »

« Tu! »

 

Non gli do il tempo di parlare. So che potrebbe uccidermi. So che vorrà uccidermi. So che se disgraziatamente ho rotto il suo cellulare, vorrà il mio sangue.

L'apocalisse.

Le campane di San Pietro.

Il fuoco e le fiamme dell'inferno.

Mi lancio all'indietro, squittisco e agguanto il cellulare che scommetto sia il mio; contemporaneamente, prendo la borsa e in uno scatto felino mi rimetto in piedi.

Urlo un: « grazie per la foto! » e scappo via.

 

Ansimo, appoggiandomi al muro di una viuzza secondaria. Devo ancora rendermi conto dell'immenso casino che ho combinato, ma sono troppo occupata a pensare una sfilza di imprecazioni che vanno da pallidi « cazzo » a eleganti « porca puttana la merda ».

Guardo il BlackBerry, gemendo, e lo strofino contro la mia maglia. Se è rotto mia madre mi ammazza.

Sempre se non mi ammazzo prima io, ovvio.

Sbatto la testa contro il muro.

Ho conosciuto Jared Leto.

Ho fatto una foto con lui.

Ho fatto diverse figure di merda davanti a lui.

Gli ho quasi messo la testa fra le gambe (questa è la parte buona dell'incontro), ma nel raccontarlo in giro potrei pure togliere il “quasi”.

Mi squilla il cellulare. Sono così certa che sia mia madre (chiama sempre a quest'ora per essere sicura che io sia viva, e purtroppo giusto oggi lo sono) che apro la chiamata senza guardare lo schermo.

« Pronto » brontolo, brillando palesemente di voglia di vivere.

Silenzio.

« Ma' » ritento. « Mamma? »

Una vaga consapevolezza comincia ad annidarsi in un angolo del mio cervello. Sento del sudore freddo cominciare a spuntarmi sulle tempie.

« Holy fuck » dice la voce scocciata all'altro capo della cornetta, « Jared? »

Smetto di respirare, allontano il cellulare dall'orecchio e sguardo lo schermo.

No.

Non è vero.

Non può essere vero.

Dice chiaramente: “Shannon”. E io non ho alcuno Shannon salvato nella rubrica del mio cellulare, nessuno. Questo che ho in mano, capisco in un terrificante attimo, è il cellulare di Jared. L'ho scambiato.

Oh.

Porca.

Puttana.

« Jared? Are you there? »

No, non so qui.

Sono nella merda.

 

 

 

Non ho alcuna scusa. Se vi dicessi che vi voglio bene?

Vi fate vivi, anche solo per insultarmi, sì? Per favore. *piange in un angolo*

Carme.

 

P.S. Spero che vi siate – almeno un po' – divertiti quanto io mi sono divertita a scriverlo. Ovviamente Jared e Shannon parlano in inglese.

   
 
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