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Autore: golem1954    29/08/2007    1 recensioni
Pur di poter sfruttare le risorse minerarie del Congo, la Mineral Field appoggia i guerriglieri di Kabila: sanguinari e spietati quanto il reggime a cui si oppongono. Fatti reali narrati attraverso la storia di Indria e della sua famiglia. Una storia inventata che ne richiama tante simili, realmente accadute e documentate.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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zinco e cobalto

Zinco e Cobalto

Bestemmie e latrare di cani. Le luci delle torce scavano gallerie nell’aria densa di fumo, pregna di odore aspro di cordite.

Non ha via di scampo: può solo tentare di morire in modo più dignitoso di quanto non abbia vissuto.

Era ancora bambino quando per la prima volta gli uomini di Kabila giunsero al villaggio. Era una giornata piena di sole. Indriz e i suoi compagni interruppero i giochi e rimasero a guardare le due camionette attraversare il centro abitato e fermarsi dopo poche centinaia di metri davanti a uno spiazzo polveroso, piccola isola in un mare d’erba che si perde fino al nulla. Ne scesero una quindicina di uomini armati. Un brontolio sordo, simile a un tuono lontano, riempì il cielo e fece loro alzare gli occhi verso l’alto. Nell’azzurro vide un luccichio, come una stella rimasta al suo posto dalla notte precedente. La stella si fece sempre più grande e più vicina, prendendo via via che si avvicinava, la forma di un enorme uccello metallico, che planò fino a terra. Attraversò tutto lo spiazzo lasciandosi dietro una scia di polvere rossa e si fermò proprio al limite del mare d’erba. Indriz non aveva mai visto un aereo prima di allora.

La sera sentì suo padre parlare con gli altri uomini.

"Vengono dall’America per scavare minerali dalle viscere della nostra terra."

"Si, gli uomini di Kabila dicono che sono qui per aprire una miniera." Lo interruppe uno dei giovani. "Arriveranno altri bianchi e ci daranno lavoro".

Aspirò una boccata dalla pipa di terracotta, buttò fuori il fumo, e rimase a guardare le volute perdersi nella notte.

"Non mi aspetto nulla di buono da tutto questo. Qui non sarà più com’è stato finora. La madre terra si ribellerà".

"Voi anziani sapete soltanto voltarvi a guardare indietro e dire che prima era meglio. La terra non ha un’anima. Perché spaccarti la schiena per farle partorire quattro misere spighe di grano che non bastano nemmeno a sfamare te e la tua famiglia?"

Nei giorni seguenti arrivarono altri aerei e camion portando altri bianchi, macchinari e materiali da costruzione. In breve un nuovo villaggio di baracche prefabbricate abitate da bianchi e controllato dalle milizie di Kabila, stava nascendo a mezz’ora di cammino dalla casa di Indriz.

Era una giornata di sole e l’erba ondeggiava al vento, quando fra le casupole del villaggio arrivò una camionetta scoperta con due uomini a bordo, seguita da un autocarro.

Il miliziano alla guida della "jeep" suonò più volte il clacson, per richiamare l’attenzione degli uomini del villaggio, facendo ampi gesti con le braccia perché si avvicinassero.

Poi il bianco disse qualcosa in francese al miliziano che si sollevò in piedi aggrappandosi al montante del parabrezza. Il brusio degli uomini che s’erano fatti attorno alla camionetta scemò subito.

"La Mineral Field è una delle maggiori società minerarie americane e ha ottenuto da noi la concessione allo sfruttamento di questa zona, in cambio di aiuti economici alle nostre milizie, per cacciare Mobutu. Qui sarà scavata una miniera per estrarre cobalto e zinco: due minerali necessari per l’industria elettronica americana. Tutti gli uomini disposti a lavorare per la Mineral Field avranno un pasto e due dollari al giorno."

Il brusio riprese.

"Avanti, chi vuole lavorare salga sul camion."

Zinco, cobalto, industria elettronica, erano parole prive di significato per gli uomini del villaggio, ma Mobuto, gli avevano detto, era colui che affamava e opprimeva il popolo congolese, e due dollari e un pasto erano molto più di quanto fossero abituati ad avere.

Indriz vide i più avviarsi spediti verso il camion, parlando fra loro a voce alta e pochi, fra cui suo padre, rimanere fermi scuotendo la testa in silenzio per poi voltarsi e tornare a dissodare il proprio misero campo.

Allora non capiva suo padre. Perché sputare su due dollari al giorno? Perché continuare a massacrarsi su quella maledetta terra che non gli dava nemmeno di che sfamarsi? Come tutti gli anziani era orgoglioso e testardo. Credeva ancora che gli animali, l’erba e tutte le cose avessero un’anima. Appena fosse stato grande abbastanza, lui avrebbe fatto in modo diverso. Poco dopo suo padre morì. Fu uno strano incidente, come ne capitarono spesso, dopo l’arrivo della Mineral Field: un errore mai chiarito. Sta di fatto che un miliziano lo confuse per non si sa chi e lo uccise. Indriz rimase con la madre, una sorella di un anno più grande, due più piccole e dovette lavorare in miniera per mantenerle. Se anche avesse voluto coltivare la terra, sarebbe stato impossibile. Tutto attorno il mare d’erba era stato trasformato in un deserto. Gli alberi erano diventati scheletri metallici su cui nemmeno gli uccelli volevano posarsi. La sera, quando il sole si abbassava all’orizzonte, le ombre dei tralicci che circondavano le bocche dei pozzi di discesa si allungavano sinistre verso il villaggio come a volerlo ghermire.

Ogni giorno all’alba il camion arrivava nel villaggio. Si potevano scorgere da lontano i due coni di luce proiettati dai fari, danzare in aria a ogni buca. Lo aspettavano fuori dalle case, fumando in silenzio, senza scambiare una parola. Appena si fermava, poco distante dalle case, salivano in fretta e si avviavano ai pozzi di discesa. Alla miniera si dividevano in due squadre: una scava, l’altra porta fuori il minerale. Prima che si avviassero verso il gabbione che scendeva nelle viscere della terra, gli addetti della Mineral Field consegnavano a ognuno l’elmetto con la lampada a gas di carburo. Scendevano in silenzio, come anime deportate all’inferno.

Lì in fondo le fiamme di carburo facevano danzare le ombre degli uomini sulle pareti delle gallerie, al ritmo dei picconi contro la roccia. Illuminate dal balenio delle lampade le gallerie respiravano. La terra sembrava viva. Le striature di blu profondo dei filoni di cobalto, si intrecciavano a quelle di zinco, come vene. E loro, i figli di quella terra, li a squarciarle a colpi di piccone, perché uno straniero pretendeva sangue.

Quando una galleria aveva esaurito i filoni, se ne apriva una nuova con il tritolo. Una volta un suo compagno era rimasto dilaniato da uno scoppio. Aveva forato la roccia a colpi di scalpello nei punti che gli aveva indicato un tecnico della Mineral Filed, in ciascun foro aveva inserito un candelotto di tritolo. Stava collegando il dispositivo di accensione per farli brillare, quando un boato riempì la galleria. Non rimase nemmeno un corpo da seppellire.

Ogni giorno la polvere di cobalto, zinco e pietra gli riempiva gli occhi, gli impastava la bocca e le narici. Colpiva con disperazione le arterie della madre terra. Raccoglieva la roccia in un carrello che un altro compagno spingeva lungo le rotaie fino al pozzo di carico. Di lì il minerale veniva portato in superficie dove le donne lo triturarvano e setacciavano. Per questo lavoro da schiave ricevevano un dollaro al giorno. Di notte, se accettavano di prostituirsi, potevano ricevere un altro dollaro, altrimenti potevano essere stuprate da qualche bianco o miliziano ubriaco. Quelle che una volta erano solo bambine molto spesso a tredici anni erano incinte, costrette ad abortire o a partorire figli indesiderati.

Alla gente del villaggio e a Indriz era stato tolto ogni spiraglio di luce. Non lo avevano solo privato della speranza in qualcosa di migliore o di diverso, ma lo avevano derubato anche dell’azzurro del cielo e del verde smeraldo dell’erba: entrava in miniera prima che il sole sorgesse e ne usciva che era già buio. Poche ore di sonno in cui si rannicchiava in posizione fetale come a proteggersi dal senso di oppressione. Chiudeva gli occhi e pensava a suo padre, a quando lo conduceva con sè nei campi e gli parlava dell’anima delle cose. Pensava a come si era sentito uomo, la prima volta che era salito sul camion che lo portava alla miniera e a come si sentiva ora.

Gli uomini di Kabila si erano fatti sempre più arroganti e prepotenti. La guerriglia per liberare il popolo dal tiranno Mobutu richiedeva maggiori mezzi e la Mineral Field era disposta a fornirli in cambio di maggior lavoro. All’inizio aveva creduto che fosse giusto lavorare in miniera. Qualcuno dei miliziani aveva anche spiegato, a lui e agli altri, che lavorare per i bianchi, non solo era giusto, ma era un dovere, un contribuito per combattere la dittatura. Cominciava a capire che per lui e la sua gente ci sarebbe sempre stata una dittatura.

Non era il lavoro massacrante in miniera, che gli minava la salute, ne la povertà e gli stenti a fargli sentire quella vita come insopportabile. Quello che pesava come un macigno sulla sua anima era la privazione di ogni speranza. La sua era una prigione senza confini e proprio per questo non sarebbe mai riuscito a uscirne.

Quella sera, come tutte le altre di ritorno dalla miniera, scese dal camion senza nemmeno accorgersi del cielo trapuntato di stelle, come gocce di rugiada su un enorme drappo di velluto blu. Eppure da bambino, quante volte era rimasto affascinato da quel cielo che non si stancava mai di ammirare e quante volte sua madre doveva chiamarlo per farlo rientrare in casa e mandarlo a dormire.

Davanti a casa trovò le sorelle più piccole sedute in terra ad aspettarlo, come sempre. "Su, venite dentro" disse accompagnando la frase con un gesto. Le bambine corsero dentro: " è arrivato Indriz"

Sua madre era in fondo alla stanza che fungeva da cucina e da camera da letto per le due sorelle più piccole. Nascosto alla vista da una tenda di tela arancione c’era il letto di Indriz. Alla parete opposta un’altra tenda separava la stanza principale da una più piccola: quella dei genitori in cui ora dormivano la madre e la sorella più grande. Accanto alla porta un’anfora di terraglia e un catino di plastica azzurra per lavarsi. Dietro la casa, la latrina, in comune con l’abitazione accanto.

"Ehi mamma".

"Ehi Indriz. Sedetevi che vi porto da mangiare. Tu Lula, prendi questo e portalo sul tavolo."

"Adel non è ancora rientrata?" chiese Indriz.


"No. So che si sarebbe dovuta fermare dopo l’orario per pulire gli uffici della compagnia, perché domani arriva non so chi e vogliono che tutto sia tirato a lucido."

"Bastardi, non gli basta una giornata a triturare il loro maledetto cobalto? Dobbiamo anche spazzare i loro luridi escrementi."

Mangiarono in silenzio e subito dopo le bambine andarono a dormire. Sua madre si ritirò nella sua stanza e Indriz si rannicchiò sul suo giaciglio, fissando il buio e cercando di fare il vuoto nei suoi pensieri. Qualsiasi cosa gli venisse alla mente, era opprimente e doloroso. Era lì con le sue angosce, quando udì Adel rientrare. Singhiozzava. Scostò la tenda e alla luce della luna vide la figura esile della sorella scossa dai singhiozzi. Era inginocchiata in terra, con le gambe divaricate sopra il catino e un lembo del vestito stretto tra i denti, perché non finisse nell’acqua. Indriz capì immediatamente. Finse di dormire e attese che la ragazza sparisse dietro la tenda. Si alzò e uscì. L’aria della notte era fresca. La respirò a pieni polmoni cercando di mandar via la paura. Si avviò verso l’acquartieramento degli uomini della Mineral Field. Sapeva dov’era il deposito degli esplosivi. Sapeva anche come usarli.

Aveva violentato la sua terra per dare zinco e cobalto a quei porci stranieri che avevano ridotto in schiavitù lui e la sua gente, violentato sua sorella e chissà quante altre sorelle di uomini come lui, costretti a marcire nel buio delle gallerie. Se non c’era un dio giusto disposto a vendicare gli oppressi, l’avrebbe fatto lui.

L’esplosione fu immensa. Squarciò la baracca dei tecnici della Mineral Field. Corpi dilaniati, feriti, urla, sangue. Non provò pietà, solo un senso di giustizia. Rimase per un attimo a fissare il fumo salire verso l’alto e in quell’inferno di corpi e grida riconobbe il dolore e il martirio della sua gente. Doveva fuggire.

All’improvviso, il rumore secco di un colpo d’arma da fuoco e un morso atroce nella carne, appena sopra le reni. Il sapore del sangue in bocca. Smise di correre e si voltò cercando di guardarli. Altri colpi d’arma da fuoco e a ogni colpo un lampo di dolore gli annullava ogni altro senso, scuotendogli le membra come una marionetta nelle mani di un burattinaio incapace. Cadde all’indietro e gli occhi si riempirono dell’azzurro cobalto del cielo. Riconobbe in quel cielo lo stesso cielo che lo incantava da bambino, quando il padre gli parlava dell’anima delle cose. Socchiuse gli occhi. Era tranquillo. Sentiva che la sua anima si sarebbe unita a quella del vento e avrebbe per sempre carezzato il mare d’erba della sua terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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