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Autore: golem1954    29/08/2007    3 recensioni
Nell'Italia del dopoguerra una storia di sentimeti. La fine di qualcosa o semplicemente l'inizio di una qualcosa di diverso.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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l'ultima bugia

Quando mia madre rimase incinta, aveva soltanto sedici anni. Ho visto una sua vecchia foto di allora. Capelli scuri, lisci, scriminatura su un lato. Nell’ovale minuto del viso due profondi occhi verdi, davano notizia a chi li guardava, di ogni sua più piccola emozione. La figura, anche se acerba, trasmetteva già l’immagine di una femminilità, non ostentata, quanto piuttosto offerta in modo inconsapevole.

Viveva con la famiglia in una borgata a ridosso della statale. Poco dopo il ponte che superava la marana, si apriva sulla destra una strada bianca. Un tempo forse asfaltata, raggiungeva un gruppo di case inframmezzate da orti e disposte senza un ordine preciso. Si aprivano attorno prati incolti che d’ estate si coloravano del giallo del tarrasaco, interrotti qua e la da siepi di sambuco. D’inverno si ricoprivano del colore sbiadito e uniforme dell’erba bruciata dal gelo. Una borgata nata dopo il quarantacinque, quando la gente aveva ricominciato a vivere con quello che la guerra gli aveva lasciato. Molte case non del tutto completate erano abitate lo stesso: avevano muri di mattoni senza intonaco o terrazzini senza ringhiera e i lavori proseguivano man mano che si trovavano mezzi per farlo.

Non c’erano alberi a fiancheggiare la strada, ma solo una fila di pali di legno, scuriti dal sole estivo e spaccati dal gelo invernale, a sostenere i fili del telefono. Pali piantati lì, costretti a subire gli eventi, senza alcuna possibilità di sottrarvisi: proprio come la gente che gli viveva accanto.

La domenica pomeriggio, mia madre prendeva l’autobus con le amiche e andava in città. In realtà andare in città per loro significava raggiungere la periferia. Un quartiere popolare con una strada larga fra due file di palazzoni anonimi e squadrati dai colori pastello, costruiti una decina d’anni prima con negozi che si affacciavano lungo gli ampi marciapiedi. Non c’erano bar alla moda dove signore in tailleur e cappellino sorseggiassero Martini in compagnia di distinti uomini in abito scuro, né negozi eleganti con la porta a vetri chiusa e un'impeccabile commessa sempre pronta ad aprirla qualora un'elegante signora si fosse avvicinata per entrare. C’erano bar in cui uomini in maniche di camicia bevevano una birra o un bicchiere di vino giocando a carte o negozi dove le commesse ti davano del tu. Comunque era molto di più di quello che poteva loro offrire la borgata dormitorio dove vivevano.

Passavano il pomeriggio a guardare nelle vetrine le gonne a tubo, le camicette coloratissime di popeline, le scarpe con i tacchi a spillo, i fermagli per i capelli e la bigiotteria in mostra o a fare commenti sui ragazzi che incrociavano.

Oppure si fermavano davanti al negozio di dischi della Ricordi, a guardare i poster dei cantanti.

"Dio come mi piace quello li: ma chi è?"

"che ne so, è uno americano"

"Non ti sembra che somigli a Mario?"

"Mario chi, quello che lavora dal fornaio…. Quello che ti viene dietro? Ma se ha due orecchie che se c’è vento vola via…"

"Si, dici così perché a te neppure ti guarda"

"Sai che bello avere accanto due orecchie con un uomo in mezzo…"

Questo continuo prendersi in giro reciproco serviva solo a riempire il silenzio. Di che avrebbero parlato altrimenti? Dei fratelli più piccoli a cui dovevano pulire il culo, o di quelli maggiori che si facevano servire o dell’aiuto che dovevano dare in casa?

Forse avrebbero potuto parlare dei loro sogni o delle loro aspirazioni, ma per farlo avrebbero dovuto averne.

Meglio prendersi in giro e scherzare sui ragazzi.

Quella domenica di metà giugno, anziché fare il solito giro, era andata con le amiche al prato di fronte alla chiesa. Erano arrivati i giostrai

Le amiche erano le solite: Isa, la riccetta con i capelli color stoppa, Luciana la figlia della lattaia, Paola che abitava sopra alla ferramenta, e Ornella, mia mamma. Gironzolavano fra i baracconi delle giostre, colorati e rumorosi. Ognuna aveva la sua musica, i suoi suoni, luci, colori, che si sovrapponevano e si mescolavano creando un caos che dava alle ragazze un senso di ebbrezza alcolica. Più in la, fra spinte e schiamazzi, alcuni ragazzi si sfidavano a chi faceva più punti con il Pungiball.

" … Guarda Piero che fico"

" ma dai, con quelle gambette sottili sembra un merlo"

" che scema che sei, …"

Si fermarono davanti ai "calcinculo" scommettendo su chi sarebbe riuscito a prendere il fiocco.

"ehi belle bimbe, un giro?"

Era il ragazzo della giostra: capelli scuri, sui vent’anni, fisico asciutto e volto abbronzato di chi è abituato a lavorare all’aperto.

"allora…, dico a voi quattro: un giro?"

Dall’accento si intuiva che non era italiano: forse slavo, cosa che da sola bastava a galvanizzare le ragazze. Del resto il loro mondo era praticamente tutto lì, fra i pali del telefono e i tarrasacchi della borgata e la prima periferia. Tutto quello che in qualche modo ne era al di fuori aveva per loro il sapore dell’esotico. E’ difficile fantasticare sulle cose di tutti i giorni e per questo di fronte a ciò che è sconosciuto la fantasia si libera a costruire ipotesi affascinanti, specie a sedici anni.

"No grazie" rispose Isa .

"ma parla per te" soffiò sottovoce fra i denti Paola. Poi a voce alta, guardando il ragazzo negli occhi

"E’ che abbiamo finito i soldi…" mentì, lasciando la frase sospesa.

"Si, con gli ultimi spiccioli ci siamo prese lo zucchero filato……" proseguì Ornella.

"dai, offre Roman. Lo faccio perché se salgono quattro belle ragazze, poi arrivano anche i ragazzi"

Un rapido scambio di sguardi: era chiaro che ci stava provando, ma andava bene così.

"dai Isa, andiamo"

"Va bene, però non voglio fare quella che sta davanti"

"stai dove ti pare, basta che non rompi"

Mia madre era già con le mani attaccate alle catene che sostenevano il seggiolino, mentre Roman le faceva scivolare davanti la sbarra di chiusura. Era emozionata, perché allora era ancora capace di emozionarsi con un nulla.

"Come ti chiami?"

"Ornella"

"Bel nome….vediamo se riesci a prendere il fiocco"

Un giro, due, tre: risate, urla, mani allungate a cercare di afferrare il fiocco.

"Uha, ho lo stomaco sottosopra" disse mia madre, appena scesa, barcollando un po’. Il braccio di Roman l’afferrò alle spalle.

"Vieni che ti porto a prendere qualcosa al bar"

E se la portò via prima che le sue amiche potessero reagire.

"Sei carina, quanti anni hai?"

"quasi diciassette"

" e ce l’hai il ragazzo?"

"ma che t’importa a te?"

"niente, ma una carina come te ce l’ha di sicuro il ragazzo…"

Il braccio gli scivolò dalle spalle ai fianchi. Non andarono al bar, Lui la condusse oltre le giostre, dove una siepe di sambuco separava il prato dagli orti coltivati. Lei lo seguì.

Io non c’ero e questo più o meno è quello che mi hanno raccontato. Non ebbe il tempo di innamorarsi, di conoscerlo, di avere una storia. In quelle vite di gente troppo presa a vivere il quotidiano non ce n'era il tempo. Non so cosa successe davvero, ma non voglio credere che l’abbia subito. Voglio pensare che in quel caldo pomeriggio d’estate, lui le abbia preso il viso fra le mani e lei gli abbia risposto con un sorriso, poi siano finiti stesi sull’erba: lei con il volto arrossato il respiro spezzato e il sole che le brillava fra le ciglia socchiuse mentre lui le affondava le dita nei capelli sudati.

Poi le giostre andarono via e Roman con loro, lasciandole me come unico ricordo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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