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Autore: EsseTi    09/02/2013    5 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi.

Alessandro BariccoOceano mare, 1993

 

Chapter 18th:  1334
 
- E ti ho mandato una sorpresa tesoro, dovrebbe arrivare presto! –
- Si, mamma, grazie! –
- E stai attento, non farmi stare in pensiero! –
- D’accordo, si, va bene, ciao! –
Federico chiuse la chiamata con uno sbuffo, lasciandosi cadere sul letto.
Dal soggiorno arrivavano le note di una sonata triste, una delle preferite di Dominik, visto che la suonava praticamente sempre.
Si era svegliato presto, nonostante non avesse lezione in Conservatorio: gli insegnanti avevano deciso di sospendere le lezioni per permettere ai ragazzi di studiare bene per le verifiche che si sarebbero tenute da lunedì 17 fino a venerdì 21 dicembre. Dopodiché, vacanze di natale per tutti.
Quella sarebbe stata, di conseguenza, una settimana strana.
Non era mai capitato che Dominik si trovasse in casa tutto il giorno: erano solo due giorni che succedeva, e non ne poteva già più. Da quando avevano avuto quella piccola e insignificante discussione, il lunedì precedente, Dominik era tornato esattamente quello che era prima. Un po’ scassacazzi, sicuramente insopportabile e lievemente stronzo. Poco lievemente.
Ma a Federico non importava: anche se non l’avrebbe mai ammesso, Dominik si comportava così perché era in ansia per la verifica. E avrebbe potuto giustificarsi per un giorno intero, professare la propria bravura e ciarlare di quanto fosse preparato e magnificamente pronto…ma aveva fifa.
Una fifa assurda. Trasudava nello strano modo nervoso che aveva di farsi sfuggire i fogli di mano, o di sfruttare ogni secondo possibile per studiare, rinunciando anche a quella piccola routine di guardare la tv insieme.
Era la sera, il momento della giornata in cui tornava più sopportabile.
La sera suonava un po’, dopo cena, ma quando vedeva che lui stava per andare a letto, si metteva seduto per qualche minuto nella sua poltrona, parlandogli di una cosa qualsiasi o chiedendogli come fosse andata la giornata e cosa avesse fatto. Si rilassava, la sera, perché sentiva che la giornata era andata bene, non era stata infruttuosa, e lo aveva portato esattamente dove voleva essere. Era quando restava troppo da solo che diventava insopportabile
Se c’era una cosa che aveva imparato di Dominik, in quelle ultime settimane, era che non si doveva mai dargli il tempo di pensare, perché quando pensava diventava uno scassacazzi senza limiti. Quando veniva travolto da qualcosa, dalle emozioni, dalle sensazioni, allora diventava una persona normale con i piedi per terra. Per questo Samuele era riuscito a fargli dire di sì a qualsiasi cosa, quando lo aveva conosciuto, perché aveva iniziato a parlare a raffica, senza dargli tempo di rimettere in ordine le idee.
Aveva fatto così anche lui tre sere prima. Non gli aveva dato tempo di arrabbiarsi, di pensare, di lamentarsi.
Lo aveva travolto di richieste, di parole, di risate, e Dominik era emerso per quello che era: un ragazzino che sapeva ridere, scherzare, persino parlare di cose normali.
Per questo non aveva reagito male quando gli aveva spiattellato in faccia la verità, perché quella era la verità eccome. Poteva essere stato duro, senza cuore o cose del genere, ma quella era la verità.
Dominik era una persona normale, e come tutte le persone normali aveva paura di quello che gli avrebbe riservato la vita, a maggior ragione perché era un ragazzino cieco in un mondo di sciacalli approfittatori. Quello che voleva fargli capire, per una volta, era che chiedere aiuto, o accettarlo, non sarebbe stato male, e gli avrebbe permesso di vivere più tranquillamente, e di fare tutte le cose che facevano i ragazzi della sua età. Da bambino aveva avuto un’infanzia normale perché c’era stata sua madre, che l’aveva aiutato; adesso, da adolescente, si stava perdendo un sacco di cose perché non voleva l’aiuto di nessuno, ed era un peccato.
Per carità, sempre fondamentalmente uno scassacazzi restava, eh.
Il suono del citofono lo fece sobbalzare. A quell’ora di mattina, poteva essere solo Samuele che passava da lì tornando dalla palestra, magari per farsi invitare a pranzo.
Si alzò, lasciando la sua stanza per attraversare il soggiorno. Dominik aveva smesso di suonare.
- Chi è? – gli chiese.
- Samuele, credo – rispose semplicemente. Alzò la cornetta, con un lieve sbuffo. – Si? –
- Posta! – rispose una voce melodiosa ma lievemente roca.
Premette il tasto per aprire il portone senza nemmeno rispondere, chiudendo di scatto.
- Era il postino – borbottò. Per quale diavolo di motivo suonavano sempre da lui, poi? Almeno cinque giorni su sette. Forse gli altri due giorni toccava alla signora Livolsi, o magari al ciccione del piano di sopra.
Probabilmente, anzi, da lui non provavano nemmeno, perché era così grasso da doverci mettere mesi prima di alzarsi dal divano e rispondere al citofono.
Solo che poi suonarono alla porta.
Federico fissò l’uscio stranito, come se uno sguardo potesse fargli scoprire chi ci fosse dietro. Era a dir poco bizzarro.
- Chi è? – chiese, da dietro la porta. Il diretto interessato, intelligentemente, aveva messo il dito davanti lo spioncino, impedendogli di vedere qualsiasi cosa.
Poteva essere solo una persona.
E ti ho mandato una sorpresa tesoro, dovrebbe arrivare presto.
- Sorpresa! –
Federico aprì la porta prima ancora di sentire la voce.
Oh Santa Madre, perché?!
Due braccia sottili gli si artigliarono al collo con tanta forza da farlo  quasi cadere all’indietro.
- Sono così contenta di vederti, fatti abbracciare! – gli urlò praticamente in un orecchio, incurante del fatto che lo stesse già stritolando, lasciandolo senza fiato.
- Ma chi è, Federico? –
La voce di Dominik sembrò una corda provvidenziale per ritornare alla realtà. Era stranita, ma aveva intuito che non doveva trattarsi del postino. Aveva smesso di suonare, ma non aveva staccato le mani dal pianoforte, quasi fosse un modo per sentirsi più al sicuro.
Federico sospirò, stringendo le braccia intorno a quel corpo femminile.
- Nulla, Dom. E’ solo mia sorella. –
Non vedeva Milena da  quando era partito per Milano, e prima ancora era stata lei a partire per una vacanza con il suo nuovo maritino. Era sempre la stessa, però: lo stesso modo di vestire, la stessa voce melodiosa, lo stesso vizio di mettere il dito sullo spioncino e di salutare con un abbraccio. Anche se aveva ventotto anni, era sempre uguale alla ragazzina che era a diciassette.
Non si somigliavano per nulla, in quello. L’unica cosa che avevano in comune era l’impulsività: solo che Milena era molto peggio. L’ultima cosa che aveva combinato era stata iscriversi all’università a Parma, in Medicina, e poi chiedere trasferimento a Palermo ad un anno dalla laurea, quando le mancavano solo quattro esami, ed elemosinare un qualche professore libero che la aiutasse con la tesi. Così si era laureata con un anno di ritardo, e aveva intrapreso la specializzazione in Medicina Legale. Era al primo anno, e nel marzo di quello stesso anno si era sposata con Michele, un ragazzo che conosceva da meno di un anno e che amava alla follia, dopo aver lasciato in tronco Piero, con cui era fidanzata da quando aveva sedici anni.
Milena era così. Non solo non pensava prima di fare le cose, ma neppure dopo che le aveva fatte.
Però era felice, adesso, con il marito e con la specializzazione che voleva.
- Solo tua sorella? Io sono la tua adorata sorella maggiore!! Ed esigo che mi presenti il tuo coinquilino come si deve! –
Federico scoppiò a ridere di fronte all’esuberanza di sua sorella.
Sarebbe dovuta essere cresciuta, matura, posata: aveva sposato un tizio che era l’opposto di lei, sempre in camicia e giacca, che lavorava come impiegato al comune e che pareva noiosissimo. Lei, però, si era affrettata  a precisargli che fosse una cosa meravigliosa a letto, e che la facesse ridere.
Milena aveva sempre bisogno di qualcuno che la facesse ridere e Piero, il ragazzo con cui stava prima, non faceva per lei, perché stava troppo zitto, e poi era troppo impulsivo, come lei.
La vide entrare in casa, trascinandosi dietro un trolley di un fucsia acceso, completo di beauty-case intonato, che stonava parecchio con il resto del look: un paio di pantaloni scuri a vita alta, una camicetta beige, una sciarpa dello stesso colore e un cappottino che doveva esserle costato un occhio della testa. Portava i capelli raccolti in uno chignon che la faceva sembrare addirittura più grande.
- Ma com’è che sei qua tu? – le chiese, sistemandosi la tuta sulle spalle. Milena si guardò intorno, posando lo sguardo su Dominik, che era rimasto seduto al pianoforte a studiare gli spartiti, a testa bassa. Poi lo sguardo verde scuro di sua sorella si posò di nuovo su di lui.
- Devo incontrare il professor Alberti al San Raffale, e ho pensato quale occasione migliore per venire a trovare il mio fratellino che non mi fa mai nemmeno una telefonata? –
- Oh, non fare la melodrammatica che ti riesce malissimo! – la prese in giro. Poi il suo sguardo andò al ragazzino. Non stava studiando, Dominik, perché non teneva le dita sugli spartiti: li stava fissando, ovviamente senza vederli, troppo concentrato su quello che gli stava accadendo intorno, e cercando di capire chi fosse quella strana donna.
- Dominik, lei è mia sorella Milena, che, ci tengo a sottolineare, non mi somiglia affatto. Lui è Dominik – snocciolò in fretta. Temeva il momento in cui Milena avrebbe scoperto di Dominik: non aveva detto nemmeno a sua madre che il ragazzo con cui divideva la casa fosse cieco, perché lei avrebbe iniziato a farsi mille paranoie, a telefonare sempre, a chiedergli come stesse il caro e sfortunato ragazzo, e l’ultima cosa che voleva era far pensare a Dominik di essere trattato come un disabile.
- Certo che non ci somigliamo, te l’ho sempre detto che te ti hanno adottato! Comunque non ascoltarlo, Dominik, sono molto meglio di lui! E’ un piacere conoscerti! –
Milena si avvicinò al ragazzino, con una mano tesa, e lui sollevò il capo, drizzando le orecchie al pari di un gatto. Voltò anche il viso verso di lei, come se potesse vederla, e tese una mano in avanti, sperando di incontrare la sua. Milena lo vide subito. Lo lesse, Federico, lo stupore sul suo sguardo, ma non si scompose. Si limitò a modificare la traiettoria della mano fino a incontrare quella di Dominik, stringendola tranquillamente.
- Suoni il pianoforte? –
- Si, studio al Conservatorio. –
- Wow, che bello. Anch’io ho studiato pianoforte da bambina, però poi ho smesso perché ho iniziato a giocare a pallavolo. Federico è stato scemo, suonava il clarinetto ed era bravissimo, te l’ha detto? Gliel’hai detto, vero? –
Federico provò un profondo affetto per sua sorella, in quel momento.
Non aveva fatto una piega, neppure il minimo stupore, nessuna variazione nel tono di voce o nei movimenti, che Dominik avrebbe percepito anche quello. Per una come lei, per un medico, quel tatto doveva essere alla base di tutto. E anche se era logorroica, un po’ irritante, impulsiva e priva di ogni regola, Milena era un medico con i controcazzi. E per Dominik quello era importante, trovarsi di fronte ad una persona che non lo trattasse diversamente da come avrebbe fatto se lui non fosse stato cieco. Stava sorridendo lievemente, infatti, e aveva messo da parte i suoi spartiti.
- Si, me lo ha detto. Mi sarebbe piaciuto sentirlo. –
- Oh, non c’è problema, a casa abbiamo tutti i filmini, mio padre non si è perso un solo saggio! Quando torno a Palermo lo spedisco a Federico via mail, così ti fa sentire! –
Dominik sorrise di nuovo.
- Comunque non è vero che non vi somigliate. –
Quella era la cazzata delle undici e mezzo. Lui e Milena erano i due punti opposti dell’universo, era impossibile immaginare che fossero cresciuti nella stessa casa e nati dagli stessi genitori.
Anche fisicamente non si somigliavano molto. Lei aveva preso tutto dalla madre; era piccolina, con un corpo esile e il viso rotondo, la pelle un po’ olivastra e gli occhi verde scuro. Lui era l’opposto, alto, pallidissimo come una mozzarella e con gli occhi nerissimi della famiglia di suo padre. Da quando poi, a sedici anni, a Milena era presa la mania di tingere i capelli neri di biondo, la differenza era stata ancora più marcata. Anche quando sorrideva, Milena era più dolce di lui.
Ma Dominik sembrava fermamente convinto di quello che stava dicendo, anche quando Federico borbottò.
- Siamo due mondi opposti, Dominik! –
- Non è vero. Io e te siamo due mondi opposti. Tu e Manfredi, tu e Samuele. Voi due no…non proprio. E’ la voce forse. Avete la voce buona, tutti e due. –
Federico avrebbe voluto prendergli il viso tra le mani e baciarlo.
Baciarlo e basta, senza malizia, senza sensualità.
Baciarlo solo perché c’era una semplicità, nel modo in cui parlava, che gli faceva venir voglia di fare qualsiasi cosa per spegnere il calore nel petto.
L’acqua fresca venne da Milena, che stava sorridendo.
- Quanto è tenero questo ragazzetto? Finalmente qualcuno che non ne abbia mezzo in quel posto, come Piattolino! –
Piattolino, ovviamente, era il nome con cui Milena aveva ribattezzato Manfredi; era successo dopo che, a diciassette anni, aveva infilato la lingua in bocca a lui che ne aveva appena quattordici, dopo che aveva passato un pomeriggio intero a lamentarsi che Giulia Nicolosi della I E baciava da schifo.
Forse era diventato gay per il trauma, Manfredi.
Da allora, Milena lo chiamava Piattolino, perché a suo parere Manfredi stava troppo appiccicato a lui e gli rubava la vita e le ragazze, peggio di una cozza. Se solo avesse saputo quello che gli aveva rubato sul letto dove dormiva, Manfredi, avrebbe iniziato a usare un soprannome diverso.
A Milena non aveva detto nemmeno di essere gay. Un po’ perché non sarebbe riuscita a tenere il segreto nemmeno per due ore, e un po’ perché non aveva idea di come l’avrebbe presa. Era sempre stata dolce, e quando parlavano dei gay in televisione si incazzava come una matta se qualcuno della famiglia osava dire qualcosa contro l’omosessualità. Ma un conto era difendere degli sconosciuti, un altro trovarsi il fratellino omosessuale in casa. Quando lui aveva scoperto di essere gay, a diciotto anni, Milena viveva già a Parma, per l’università, e tornava solo per Natale, per Pasqua, per le vacanze estive e, se necessario, per qualche occasione importante.
Se fosse stata a casa, probabilmente avrebbe scoperto tutto. Era sempre stata terribilmente curiosa, e peggio di 007.
- Fino a quando resti?  - le chiese poi.
- Due giorni, ho un bel po’ di cose da fare! Riparto sabato, non posso stare troppo tempo lontana dal mio Giorgi! – Giorgi era il soprannome toccato a Michele, pover’uomo, ma per quel che ne sapeva non si lamentava troppo. – E voglio andare a fare shopping almeno un giorno, con te! E vedere l’università, e anche dove lavori! Voglio sapere tutto, Fede! –
Quello sarebbe stato un problema. Un enorme, terribile, disastroso problema. Tirò fuori tutta la calma possibile.
- Ovviamente, quando vuoi. –
Non l’avrebbe portata al locale. Avrebbe fatto in modo di tenerla impegnata, e poi le avrebbe ricordato, giusto pochi minuti prima di andar via, di essere stato così sbadato da non averle fatto vedere dove lavorasse, ma che non sarebbe mancata occasione. Poteva cavarsela.
- Però ora devo proprio scappare, ho appuntamento tra quarantacinque minuti con il professore e non posso far tardi! Spero di finire per l’ora di cena! Ma domani dobbiamo assolutamente andare a fare shopping! A proposito, dov’è che dormo io? Con te, vero? La mamma mi ha detto che hai un letto matrimoniale, non vorrai farmi dormire sul divano! –
Federico rise, dandole una leggera pacca sulla spalla.
- Vai, Milena, o farai tardi! –
- Come sei noioso! Ci vediamo stasera! Ciao, Dominik! –
La vide uscire così, correndo, dopo avergli stampato un bacio appiccicoso di rossetto sulla guancia. Aveva lasciato il trolley al centro del salotto, e il suo profumo floreale aveva riempito tutta la stanza. Dominik stava ancora sorridendo.
- Parla sempre così tanto? –
- Potrebbe parlare per ore senza prendere fiato – gli rispose.
Era strano parlare così con lui, era…normale.
- E non riesce mai a rispettare un impegno, tra l’altro. Credo che oggi ceneremo intorno a mezzanotte! –
 

§§§

 
Contrariamente alle previsioni di Federico, Milena era tornata a casa in perfetto orario.
Federico era appena tornato dal locale, Dominik aveva chiuso il suo pianoforte, e Milena si era precipitata dentro, trillando che aveva avuto una splendida giornata e che avrebbe raccontato tutto durante la cena, ma che non avrebbe cucinato perché voleva mettere alla prova il suo adorato fratello.
A Dominik Milena faceva sorridere.
Si ricordava, quando la sentiva parlare, che una delle prime volte  che aveva pensato a Federico, il suo colore era stato corallo splendente. Poi quel colore per Federico non era andato più bene, perché lui era anche qualcosa di estremamente malinconico, e morbido, e spigoloso allo stesso tempo. Però, ecco, Milena era il corallo, era quella parte di Federico che veniva prepotentemente fuori quando i pensieri lo abbandonavano e gli veniva da sorridere.
Dicevano di non somigliarsi affatto, ma Dominik non aveva mai conosciuto due anime così affini. Si completavano a vicenda, e se Milena sprizzava fuori tutta quella spontaneità che Federico tendeva a volte a soffocare sotto qualcosa di più grande, quest’ultimo, da parte sua, quando parlava o mormorava qualcosa scopriva quella nuvoletta di malinconia che Milena soffiava ad ogni sospiro.
L’aveva toccata, Milena: mentre Federico stava preparando la cena, era stata lei a tempestarlo di domande sul conservatorio, sulla musica, sulla vita a Praga, sulla sua famiglia, e poi ancora su come vivesse lì a Milano insieme a suo fratello, che aveva definito un disordinato cronico.
Dominik aveva sorriso, perché quello era vero: Federico era tremendamente disordinato.
Poi Milena si era mossa sul divano, e Dominik le aveva chiesto se fisicamente almeno somigliasse a Federico. Lei, per tutta risposta, gli aveva detto tranquillamente che poteva constatarlo da solo, con un semplice tocco. Dominik era rimasto immobile, all’inizio, però poi aveva sentito Federico sospirare.
Allora, le sue parole sulla paura gli erano tornate nelle orecchie, insieme al desiderio di dimostrargli che no, lui non aveva paura di niente, nemmeno di toccare sua sorella.
Allora aveva steso le mani.
Milena era carina, ma non era bella come Federico.
Aveva il viso troppo rotondo, gli zigomi troppo pronunciati e il naso corto e un po’ a patata, così diverso da quello allungato e sottile di Federico. Però doveva avere gli occhi belli, perchè sotto le dita avevano un taglio a mandorla molto regolare. Non le aveva toccato le labbra, perché probabilmente portava il rossetto, ma dai bordi, sul mento e sulle guance, aveva sentito che avessero un tratto a forma di cuore, probabilmente più carnose di Federico.
Più pensava a lei, più diventava corallo.
Perchè Federico non aveva ancora un colore, allora? Quando cercava di dargliene finalmente uno, qualche sfumatura del suo carattere lo cancellava, e portava un altro colore, che però non era tutto Federico.
- Ahi! –
Dominik lasciò cadere il coltello che stava tenendo tra le mani fino a pochi minuti prima: dopo cena, mentre Federico aveva sparecchiato e Milena aveva borbottato che aveva bisogno di farsi una doccia, lui era rimasto a tavola a canticchiare, giocherellando con la buccia della mela che aveva mangiato e che gli aveva sbucciato Federico. Non aveva mai avuto problemi con i coltelli, bastava sempre seguirne il profilo con il dito per non tagliarsi.
Solo che pensare a Federico e a Milena lo aveva distratto, e la lama affilata gli aveva percorso il polpastrello del pollice. Bruciava da morire.
Dominik si portò istintivamente il dito alle labbra, avvertendo sulla lingua il sapore del sangue. Lo odiava, quel sapore, era bruttissimo, e non voleva perdere sangue così. Non poteva neppure capire quanto fosse profonda o ampia la ferita, perché faceva terribilmente male, e lui era cieco.
- Dominik, che hai fatto?! –
- Mi sono tagliato. –
I passi di Federico si avvicinarono così velocemente che gli parve quasi che invece che camminare avesse volato. Arrivò il suo profumo di muschio, e poi la forza della sua mano sul polso che lo strattonava, per esporre il dito al suo sguardo. Uno strattone deciso, ma allo stesso tempo pieno della delicatezza dei suoi polpastrelli che gli sfioravano la pelle.
Bruciava ancora di più. Bruciava sempre quando Federico lo guardava. E bruciava perché era una ferita, e lui odiava le ferite e odiava farsi male.
- Te l’ho detto mille volte di non giocare con i coltelli! Vieni. –
Non era un vero tono di rimprovero; lo era in parte, ma c’era anche una leggera apprensione, e forse un velo di divertimento. Come avesse fatto a sentire il suo lamento, poi, era un mistero: la televisione era spenta, certo, ma il rumore dei piatti che stava lavando avrebbe dovuto superare il suo lieve gemito soffocato.
Forse la voce gli era uscita più forte del normale, perché era tanto intento a pensare che il dolore lo aveva colto di sorpresa.
Lo guidò verso la cucina, a passi lenti. Gli stava tenendo ancora la mano, per impedirgli di sporcarsi con il sangue. E camminare così, con un braccio teso in avanti, era parecchio scomodo.
Fecero solo pochi passi, però, perché superarono subito l’arco che portava al piccolo ambiente della cucina. C’era silenzio, si avvertiva solo lo scrosciare dell’acqua nella doccia che proveniva dal bagno. Federico si fermò, aprendo il rubinetto e tirando la sua mano in avanti verso il lavello.
- Mia sorella dice che non bisogna mettere le ferite a contatto con l’acqua, ma è una cosa da niente questa, non è tanto profonda. Questi medici sanno solo dire no, no no! .... Lasciala qua che prendo un fazzoletto. –
Dominik ubbidì in silenzio, arrendevole. Gli piaceva sempre avere le attenzioni di Federico in quel modo, quando si preoccupava per lui. Forse in un'altra occasione avrebbe sbuffato, borbottando che poteva fare da solo, che non era uno scemo o un invalido incapace di badare a se stesso, ma quella sera no, e non con Federico.
Così non si mosse, mentre l’acqua fresca gli congelava il dito, che quasi non lo sentiva più.
Poi l’acqua smise di scrosciare, e il calore di Federico fu di nuovo accanto a lui, e la sua mano intorno al polso prima, al dito poi. Gli teneva il palmo sollevato verso l’alto, due dita strette alla base del pollice, le altre a sfiorargli il dorso della mano.
Un fazzoletto di tessuto leggero gli si poggiò sul dito, e contrariamente al solito, Dominik non si scostò per fare da solo, ma lo lasciò fare.
Si sentiva stranamente rilassato, dopo quella che gli pareva un’eternità.
Erano giorni terribili quelli: il pensiero della verifica non lo faceva dormire la notte, e anche se sapeva di essere bravo, che non avrebbe avuto problemi, lui voleva essere perfetto.
Però da quando era arrivata Milena si sentiva un po’ più tranquillo, perché lei lo faceva divertire, e splendeva, e faceva sorridere anche Federico. Aveva portato un vento allegro, Milena.
Aveva anche un bel nome musicale. Mi-le-na.
Trillava come una campana, come la sua bellissima risata.
Le dita di Federico si strinsero intorno al suo, da sopra il tessuto del fazzoletto.
- Non è tanto profonda, tra un po’ passa. Vuoi che ci mettiamo un cerotto? – Annuì, ma Federico mugugnò. – Però forse ti verrebbe male a suonare, con il cerotto. Possiamo lasciarla libera per stanotte, e domani diamo un’occhiata, che dici? – Annuì di nuovo. Gli importava solo di poter suonare, nient’altro, e Federico lo sapeva.
Lo sentiva canticchiare un motivetto che mandavano sempre in onda in televisione, con uno spot pubblicitario. Era una canzoncina quasi irritante, però canticchiata da lui pareva dolce.
Sorrise, senza muoversi. Se ne rimase solo in piedi, così, ad avvertire il calore del respiro di Federico e quello del suo corpo, che doveva essere vicinissimo, anche se l’unico punto di contatto tra loro era quel tocco sulla mano, filtrato dal tessuto.
- Comunque non devi avere fifa -  mormorò poi. Dominik sobbalzò.
- Mh? –
- La verifica andrà benissimo. Tu sei bravo, e andrai più che benissimo. E non lo dico per consolarti, ma perché lo penso davvero, e hai studiato tanto, e chi studia ha sempre ottimi risultati, anche se adesso non ne sei convinto magari. Però, nonostante questo, avere fifa è normale. Ce l’hanno tutti. –
Gli mancava l’aria. Federico doveva smetterla di studiarlo così, di rovinarlo da dentro, di cacciargli fuori tutto quello che voleva tenere chiuso in un cassetto della sua mente, perchè sensazioni come quella  – la paura – non era in grado di gestirle. Gli mancava l’aria, e quella poca che c’era era calda e saturata dalla presenza di Federico, che avrebbe tanto voluto poggiargli una mano sul petto e spingerla indietro, ma sapeva che se l’avesse fatto sarebbe rimasto così, a sentire i profili del suo corpo sotto le dita, mentre respirava.
Federico era musicale mentre respirava, era una sonata tranquilla e regolare, che riempiva l’aria.
- Io non ho paura. – Lo sentì sorridere, e nel buio il sorriso di Federico illuminava tutto.
- Si che ce l’hai. Non saresti normale se non l’avessi. Tutti hanno fifa, Dom, quando devono fare un esame, conoscere qualcuno di nuovo, o sottoporsi a un giudizio. E possiamo avere tutte le sicurezze del mondo, ma avremo sempre fifa dell’imprevedibile. E questa è una cosa bellissima. –
Era un controsenso, quello che stava dicendo. Avere paura non era una bella cosa, e l’imprevedibile era un punto nero, una macchia, in una tela piena di colori. Federico non poteva dire davvero.
- Come bellissima? –
- Si, bellissima! E’ la costante variabile, quella che anche in una vita piena di progetti ti sconvolge la giornata e ti fa pensare che la vita non è poi così noiosa! Come posso spiegarti… - Stava spiegando Federico, però non se ne accorgeva che gli teneva ancora stretta la mano, che ormai l’emorragia doveva essersi fermata, e che gli si stava bloccando anche la circolazione. Parlava, preso dai suoi pensieri, e non si accorgeva che quella vicinanza lo destabilizzava: non aveva nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo, o di muoversi, ma solo di restarsene lì, con la mano in quella di Federico, in piedi davanti a lui a parlare come se in realtà fossero sul divano. – Ecco, prendi per esempio noi. Facciamo le stesse cose tutti i giorni: tu vai al conservatorio, suoni, io vado a lezione, vado al lavoro, la sera guardiamo la tv. Tutto una routine. Però, ogni giorno succede qualcosa. Ogni giorno tu insegui un’idea diversa, con il tuo pianoforte, e io incontro qualcuno di nuovo al locale, oppure quel tornado di mia sorella si presenta a casa mia a sorpresa, o ancora decidiamo di uscire a prendere un gelato quando piove. – Dominik sorrise istintivamente ripensando alla bellissima sensazione di libertà di quella sera. Si, lo capiva cosa pensava Federico, ma quelle erano pur sempre paure diverse. Un conto era avere paura della verifica, un altro conto era la costante paura dell’ignoto, di quello che potrebbe accadere. La verifica era una sicurezza, mica l’ignoto.
- Quindi devo avere paura? – cercò di trarre come conclusione, e Federico rise.
- No, Dom, no! Non dico che devi avere paura…perché tu ce l’hai. Devi solo accettarla. E sapere che comunque io sono sicuro che andrai benissimo, e lo sai che quando parlo io ho quasi sempre ragione. –
- Quasi. –
- Ero certo che lo avresti sottolineato. –
- Mi conosci… - soffiò, sorridendo.
Poi, Dominik  alzò appena il viso.
Lo fece come risposta riflessa, perché Federico, in risposta alle sue parole,  aveva mosso la mano, accarezzando il dorso della sua con due dita, e aveva sospirato appena. In risposta a quel sospiro, Dominik aveva alzato la testa, per inseguire il soffio di quel fiato caldo. C’era come una strana corda che lo attraeva verso Federico, nel desiderio di sentirlo parlare ancora, di qualsiasi cosa, anche delle più banali, ma di ascoltarlo ancora, perché quando parlava la sua voce era la cosa più morbida e bella che avesse mai sentito.
Però Federico non parlò più e non lo toccò più, perché la porta del bagno si era aperta, e Federico era scattato indietro con tanta forza da urtare qualcosa di metallico sopra la cucina, probabilmente una padella messa lì a gocciolare.
Dominik si chiese perché lo avesse fatto, perché avesse reagito così, perché lo avesse lasciato lì in quel modo così repentinamente. Gli aveva sottratto l’aria calda, e il suono della sua voce, e il contatto morbido sulla mano.
- Che è successo? – trillò la voce di Milena.
Dominik si rese conto solo in quel momento, concentrandosi sulle sensazioni al di là di quelle che gli aveva provocato Federico, che avesse ancora la mano tesa con il fazzoletto intorno al dito e che, probabilmente, quello doveva essere pieno di sangue, a giudicare dai passi affrettati di Milena e dal suo tono un po’ apprensivo. Anche in quello era uguale a Federico, in quella costante smania di essere aiuto agli altri.
Dominik abbassò la mano, stringendo il fazzoletto. Era ancora caldo della pelle di Federico.
- Niente, mi sono tagliato – borbottò.
- Vieni qui, fammi vedere, che mio fratello combina sempre guai! –
Si lasciò fare anche quello, Dominik, nelle mani di Milena.
Pensava solo che Federico era ancora fermo vicino alla cucina, troppo lontano.
 

§§§

 
- Spiegami ancora perché hai addosso questa…cosa. –
- Quanto sei stronzo, Fede? –
Una gomitata di Milena colpì Federico in pieno stomaco, costringendolo a rotolare sul letto per sfuggire alla sua furia, perché stava già iniziando a prenderlo a calci sotto le coperte.
Il punto era che Federico stava ridendo praticamente da mezz’ora, e stava ridendo di lei.
Ma credeva di essere giustificato, dato che sua sorella si era messa addosso un pigiama che doveva risalire a dieci anni prima, con le maniche troppo corte e di un osceno rosa acceso con stampata una sottospecie di mucca ammiccante con le labbra rifatte.
Milena evidentemente non la pensava allo stesso modo.
- Ahi, ahi! Ma sei scema, mi rompi un braccio! –
- Almeno la finisci di dire minchiate! –
Però stava ridendo anche lei, leggera.
C’era sempre da stare leggeri con Milena. Quando c’era lei tutti i problemi sembravano svanire, e non restava altro che sorridere. Succedeva anche quando lui era ancora a casa, a Palermo: lei tornava, con un sorriso splendente, e gli faceva dimenticare i brutti voti a scuola, i problemi con Manfredi, la mancanza di un lavoro, quella sensazione soffocante di trovarsi in uno spazio troppo stretto. Lo stava facendo anche lì, a Milano: aveva portato una spensieratezza strana, una leggerezza che in quella casa non c’era mai stata. Dominik aveva sorriso, riso, aveva affrontato un po’ se stesso e ammesso di  essere un po’ umano anche lui, che un po’ di fifa non fa mai male averla. Dominik si era lasciato aiutare, e quando gli aveva mormorato che non c’era bisogno di avere paura, ma che ne aveva eccome, non aveva messo il broncio, non si era impuntato sul fatto che non fosse vero, ma lo aveva ascoltato. Lo aveva ascoltato davvero, da vicino, e lui si era messo lì d’impegno a spiegargli tutto quello che pensava, ma a modo suo, perché anche lui potesse capirlo, con la sua visione diversa dal mondo. Lo stava condizionando, con il suo modo di pensare e di agire, tanto che adesso gli faceva quasi paura tutta quella vicinanza.
Si era lasciato controllare, curare, persino stringere la mano anche quando non ce n’era più bisogno. E a Federico si era aperta una voragine nello stomaco.
Mi conosci. Era troppo confidenziale, per loro, quella frase, e quel tono, e la dolcezza di quella mano poggiata sulla sua con un abbandono tale da fargli pensare che avrebbe potuto fare di lui qualsiasi cosa avesse voluto.
Era come se non gli appartenesse, come se fosse troppo lontana.
Lo conosceva davvero, era vero? Come poteva conoscerlo, se lo sentiva allo stesso tempo così lontano, così in alto? Non era cambiato molto nel loro modo di fare da quando si erano conosciuti, eppure, da un punto di vista più profondo, era come se fosse davvero diverso.
Non riusciva a spiegarselo.
E non si riusciva a spiegare quella confusione in testa, quel desiderio di essere gentile, di proteggerlo, e insieme quel vuoto che gli si apriva nello stomaco quando se lo trovava troppo vicino, perché, cavolo, fisicamente sarebbe stato una calamita per chiunque.
E doveva smetterla di pensare a cose del genere, perché Dominik era un ragazzino che non voleva nessuno, e oltretutto, oltre a non volere nessuno, non era nemmeno gay.
O almeno, visto che non voleva nessuno, sicuramente non si era nemmeno posto il problema di essere etero o gay.
Federico avvertì un piacevole solletico sul collo, dove Milena si era appoggiata, circondandogli la vita con il braccio. Era strano trovarsi una ragazza così vicina: non succedeva da anni, dagli ultimi tentativi di baciare Ilaria, la biondina della sua classe al liceo. Poi c’era stato solo Manfredi, Manfredi e le fantasie sui ragazzi che passavano per strada. In Milena, poi c’era quella strana tenerezza che si configurava solo tra fratelli. Sollevò una mano per accarezzarle i capelli: sarebbe stato bello dirle la verità, liberarsi finalmente con qualcuno e non dover fingere almeno per un po’.
Sarebbe stato bello raccontarle di Manfredi, e della sua partenza per Milano, e di Dominik.
Ma che speranze aveva, se non riusciva a dire la verità nemmeno al suo coinquilino?
In quanto a fifa, lui, non era da meno di Dominik.
- A cosa pensi? – Una carezza leggera sul viso, che gli fece chiudere gli occhi, il tocco delicato di una mano femminile lungo la mandibola.
- Mah, un po’ a tante cose. A febbraio devo dare almeno un esame. – Milena sbuffò.
- Non ho ancora capito che cavolo ci sei venuto a fare all’università. Non fa per te dovertene restare così fermo a studiare, lo sai benissimo, Fede. E non devi farlo nemmeno per far contenti mamma e papà, che alla fine non gliene importerà troppo se non hai una laurea. –
- Avevo bisogno di staccare la spina, Mile. Non l’hai fatto anche tu, andando a Parma? –
Milena si strinse su se stessa, coprendosi quasi completamente il viso, stesa sulla schiena: i suoi capelli biondi si aprirono a ventaglio sul cuscino. Poi sorrise.
- L’ho sempre saputo che te ne eri andato da casa per un ragazza – mormorò poi. Federico sentì un peso doloroso all’altezza del petto, ma non era ancora il momento di dirle la verità.
- Non ho detto questo, io. –
- Si capisce. Che credi, che non ti conosco? Sono stata lontana, siamo diversi, ma sono sempre sua sorella. Tu sei uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, per nessuna ragione. Tranne che dai sentimenti. I sentimenti troppo forti ti mettono al tappeto. – Federico rimase in silenzio, fissando il soffitto. – Anche io sono così, per questo prendo sempre le cose alla leggera, e per questo posso dirti che ti capisco. Ti ricordi quando è morto il nonno? –
- Certo che me lo ricordo. Ma sono passati dieci anni, Milena. –
- Lo so. Però noi non abbiamo pianto, te lo ricordi? Restavamo lì, a guardare le persone che piangevano, ma non abbiamo pianto. Emozioni così forti ci fanno un po’ paura. Però tu, due anni prima, eri andato da Manfredi, perché era morta sua nonna. Non ti ho mai visto, mai più Federico, piangere così tanto, e non era tua nonna, era la nonna di Manfredi. Credo che Manfredi sia la differenza più grande tra noi: quando c’era Manfredi, tu permettevi ai sentimenti forti di vincere, perché tanto sapevi che c’era qualcuno a raccoglierti. – Federico sentiva qualcosa di caldo, all’altezza del petto, che si stava manifestando in una strana tenerezza, nell’insana voglia di abbracciare sua sorella e premerle il viso nell’incavo del collo, lasciandosi abbracciare dal buio.
Aveva ragione lei, in tutto. Loro adoravano le emozioni potenti, quelle che strappavano l’anima ma lasciavano dentro una strana euforia. Le amavano tanto da andarle sempre a cercare. Però, non permettevano mai a quelle emozioni di scavare troppo dentro, perché ne avevano paura. Con Manfredi era stato diverso: lui era stata l’emozione forte che gli aveva scavato dentro lo stomaco, e allo stesso tempo la spalla cui sorreggersi.
La mano di Milena gli sfiorò il braccio. Si era voltata su un fianco, e stava sorridendo.
- Quindi è scontato che te ne sia andato per una ragazza. Cuore spezzato? – Sorrise anche lui. Non era il caso di specificare che la “ragazza” in realtà fosse un ragazzo. Sempre di cuore spezzato si stava parlando.
- Più o meno – borbottò, facendo spallucce.
- Troverai qualcuno di meglio, Fede, ne sono sempre stata sicura. Quelli come te sono fatti per essere amati. – La vide sorridere ancora. Senza trucco sembrava più giovane di almeno dieci anni, una ragazzina. -  E Dominik? Ce l’ha la ragazza? –
A Federico venne da ridere per l’assurdità di quella prospettiva, però allo stesso tempo lo raggiunse una punta di fastidio. Era certo che nessuna ragazzina sarebbe mai stata in grado di cogliere davvero quello che lui era, tutte le sue sfumature, il suo modo di vedere il mondo. Nessuna si sarebbe davvero presa cura di lui, perché le ragazze erano un po’ così, amavano essere coccolate, e un ragazzo cieco sarebbe stato un bel peso. Ma se anche qualcuna se ne fosse innamorata, non l’avrebbe amato totalmente, con lo stesso abbandono e la stessa passione travolgente che meritava, e che lui riversava nella musica. E, probabilmente, non c’era spazio nel cuore di Dominik per una ragazza, perché tutto era stato dato alla musica.
Milena, fraintendendo la sua ilarità, lo guardò male.
- Mica siccome è cieco non può avere la ragazza, Fede! –
- Non ti scaldare, mica ridevo per quello! Lo so che è cieco, e non è questo il motivo per cui non avrà mai una ragazza. – Fece una pausa, ragionandoci bene su. Si, gli veniva ancora da sorridere. – Dominik è la persona più esasperante, rompipalle e incostante che esista sulla faccia della terra. Riesce a farti girare le scatole nel giro di due secondi. E non ha nessuna intenzione di avere una ragazza, vuole vivere solo della sua musica e diventare il re del mondo. –
Milena scoppiò a ridere divertita, con una risata sonora e cristallina. Rideva così tanto che dovette premersi una mano sulla pancia per quanto le dolevano gli addominali. Federico non ti trovava proprio niente da ridere.
- Oddio, che paraculo! Uno spasso! –
- Non sto scherzando, Milena! –
- Oh, lo so, ma io dicevo per lui! Uno così è solo un grandissimo paraculo! Lascia che una ragazza gli infili una mano nei pantaloni e poi vedi se non gli interessa! –
- Tu non lo conosci, lui…non ragiona così. –
- Oh, eccome. Tutti ragioniamo così Fede, e quel ragazzino non è da meno, non è un angelo sceso in terra. Questa è l’immagine che ti sei fatto tu di lui. Può credere fermamente in quello che dice, nella musica e cose varie, può pensare di essere un santo sceso in terra per portare il piacere delle sonate classiche in tutto il mondo. Ma quando incontrerà qualcuno in grado di fargli battere il cuore, la musica non sarà più una priorità assoluta. E la persona che riuscirà a catturare tanto genio e tanta bellezza sarà la persona più fortunata del mondo! Ascolta me, che sono grande e vaccinata! –
- E spari ancora minchiate come quando avevi quindici anni! –
Scoppiarono a ridere come due bambini, e a Federico vennero in mente tutte quelle volte in cui, da bambini, finivano sul suo letto a mangiare il cioccolato che la mamma prendeva dal suo nascondiglio preferito. Loro lo avevano scoperto subito, che fosse il ripiano in fondo a destra del mobile del salotto, però non glielo avevano mai detto, per non perdere la magia di ricevere i dolci da lei. A volte poi, quando i genitori uscivano e li lasciavano a casa da soli, un cioccolatino ciascuno lo prendevano di nascosto. Ed era un po’ così adesso, con lei, però senza cioccolato.
Milena gli si avvicinò di nuovo, a letto, stringendoglisi addosso con quel pigiama osceno che gli solleticava il collo, quando lei si muoveva.
- A me quell’amicizia con Manfredi ha sempre un po’ fatto paura. –
Federico si irrigidì. Pesante, come un colpo allo stomaco, arrivò la consapevolezza che tutto quel discorso, e tutto quello che c’era stato tra loro negli anni precedenti, fosse accaduto per portare a quello. Per confessarsi qualcosa, per scoprire il motivo per cui erano tanto diversi e tanto uguali, per cui Milena guardava Manfredi sempre con la coda dell’occhio. Deglutì, fingendosi indifferente anche se lei, con il capo poggiato sul suo petto, doveva sentirgli il cuore battere furiosamente.
- In che senso? –
- Non lo so. Mi faceva paura. Come se…come se tu non potessi esistere senza di lui, e lui senza di te. – Un secondo di pausa, poi Milena sorrise. – Come sono melodrammatica, eh? Però davvero, adesso tu sei qui, e lui no. Davvero, non me lo sarei mai aspettato! –
- Mi manca ogni singolo secondo. –
Era semplice. Semplice da dire, da sussurrare, da confessare.
E Milena non ne rimase stupita, anche se quella frase era piena di equivoci.
In quel momento, Federico non stava parlando da amante, ma da amico distrutto. Per questo, quando voltò il capo a sinistra, Milena gli accolse il viso nell’incavo del suo collo, scivolandogli addosso, e con una mano gli percorse la nuca, in una carezza che prometteva sicurezza.
Si sentiva leggero, non ci pensava tanto, si sentiva con la coscienza a posto, e pulita.
Però Manfredi gli mancava, e gli sarebbe mancato probabilmente per tutta la vita.
Non poteva farci nulla. Non poteva tornare indietro, ma neppure andare avanti senza voltarsi ogni tanto a guardare indietro.
Sarebbe stato sempre così.
Ogni tanto, nei momenti peggiori, si sarebbe voltato indietro a cercarlo, e avrebbe lasciato che qualcuno, sua sorella, o Samuele o chiunque, lo abbracciasse solo per un attimo, per ricordargli quanto fosse riuscito a fare da solo.
- Lo so. Lui è a Palermo, Fede, non dall’altra parte del mondo. C’è il telefono, le e-mail, e skype. –
Però lo sapeva anche lei, che non era lo stesso, che la presenza fisica, il tocco di una mano, un sorriso reale, sarebbero sempre stati diversi.
Solo che Milena non poteva sapere che per loro non c’erano più nemmeno il telefono, o skype.
Perché era meglio così, perché Manfredi non sarebbe stato pronto, e lui doveva accettarlo.
E poi Natale era vicino. A Natale lo avrebbe riabbracciato.
Si girò dall’altro lato, chiudendo gli occhi per cercare di dormire, e Milena non disse altro. Si raggomitolò su se stessa, come faceva sempre per dormire, ma prima gli lasciò un bacio sulla schiena, sopra il tessuto del pigiama che indossava. Un bacio tenero, morbido, carico di tenerezza.
Un bacio nel punto più debole del corpo, tra le scapole, dove era più facile colpire e far male.
Si addormentò subito, mentre lui si rigirava tra le coperte, preso da un’inquietudine che lo soffocava e che non riusciva a spiegarsi. Chiudeva gli occhi, si girava su un fianco, respirava regolarmente, ma il cervello era troppo sveglio, tutto concentrato a inseguire un pensiero che aveva sull’orlo della coscienza, ma che non riusciva ad afferrare, una consapevolezza forte, nel petto, che non riusciva a tramutare in pensiero, ma che non gli faceva chiudere occhio.
Solo un attimo prima di addormentarsi, quando la sveglia segnava quasi le tre del mattino, si rese conto che quella sensazione di soffocamento fosse dovuta alla consapevolezza che il Natale fosse tanto vicino, e Praga tanto lontana.





(1) Milena ha il volto di Hayden Panettiere.
(2) Il titolo "1334" indica i kilometri che, in linea d'aria, separano Praga da Palermo.
Nota al capitolo 18
Come promesso, il capitolo è stato postato oggi, in anticipo di quasi un'ora rispetto ai programmi!
E come promesso, la 100esima recensione ha avuto in premio uno spoiler di questo capitolo.
Il nuovo personaggio che avevo annunciato, avrete capito, è Milena, la sorella maggiore di Federico. Per me è un po' un terremoto, e se Samuele fosse stato etero sarebbe stata la sua donna ideale! Sempre come annunciato, il titolo è 1334, che riprende l'ultimo rigo del capitolo, la conclusione di Federico che Praga, una volta che Dominik fosse partito per Natale, sarebbe stata lontanissima. 1334 km in linea d'aria.
Per chi non avesse capito niente di quello che ho detto, le mie "promesse" e i miei "annunci" sono stati fatti sulla mia pagina facebook, dove ho inserito anche un piccolo missing moment e delle foto di questa e delle mie altre storie!
Qui: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Questo capitolo a me piace molto, e spero che piaccia anche a voi! ^_^
Un bacio a tutti, e spero di aggiornare presto. Passate dalla mia pagina per avere sempre aggiornamenti su come procede! ^_^
Esse

   
 
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