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Autore: Herm735    10/02/2013    11 recensioni
Raccolta di One-Shot per provare a dimostrare che, in qualsiasi modo, in qualsiasi mondo, Callie e Arizona si sarebbero trovate. L'ambientazione cambia di capitolo in capitolo, in epoche diverse, luoghi diversi, con una sola costante: il loro amore. Almeno, è così che mi piace pensarla...
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici! <3

Avvertimenti: very AU. OOC. Characters death (morte di personaggi principali. Vengono trattati temi forti, come omicidio e aggressione, non leggete se questi temi possono disturbarvi.)


Confesso che dopo aver visto questo banner ho giurato amore eterno a Trixie. Purtroppo lei non ricambia...ma tranquille, ha spezzato il mio cuore molto delicatamente!

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La prima città che abbiamo visitato insieme


~ Hello there, the angel from my nightmare. The shadow in the background of the muorge. The unsuspecting victim of the darkness in the valley. ~

Uscii di casa fischiettando.
Era una bella giornata, la prima giornata di sole dalla fine dell'estate precedente. E pensare che era Marzo, quindi ne era passato di tempo.
Ma per Londra la pioggia non era una novità.
Scesi le scale con calma, sapendo di avere tutto il tempo del mondo.
Incrociai una delle inquiline del sesto piano all'ingresso, salutandola con un sorriso e un cenno della testa.
“Signora Leroy, è un piacere vederla. Sta salendo o scende adesso?”
Lei fu felicissima di una scusa qualsiasi per parlare con qualcuno e così mi trattenne per due chiacchiere sulle rumorose attività notturne dei due ragazzi del quarto piano. Io mi limitai a dirle che non ci avevo fatto caso, ascoltando però le sue lamentele e annuendo di tanto in tanto per farle sapere che aveva ancora la mia attenzione.
Era una vecchietta un tantino ficcanaso e a volte parecchio noiosa, ma in fondo era buona con tutti ed era molto gentile. Perfino quando ancora non sapeva neanche il mio nome, mi aveva sempre trattato bene.
Quando entrò un'altra delle donne che abitavano nel palazzo, si scusò per andarle a parlare di qualcos'altro.
Io sorrisi a me stessa della frivolezza di quella donna, decidendo che era il caso di andar via se volevo portare a termine le commissioni della giornata.
Ero stata a Londra per tre mesi, a causa di un impegno di lavoro. Il mio datore di lavoro aveva provveduto a pagare per l'affitto di quell'appartamento e ad un pagamento per i miei servizi che avveniva tutti i mesi e che prevedeva una liquidazione finale.
La signora Leroy non riusciva mai a ricordarsi quale era il mio lavoro.
Ogni volta dovevo mettermi a rispiegarle, con pazienza, che lavoravo nel campo della progettazione informatica. E a quel punto dovevo spiegarle cosa era la progettazione e cosa era l'informatica, dicendole in cosa consisteva il mio lavoro e che attualmente stavo lavorando per una banca di Londra ad un programma di sicurezza per i loro dati registrati su database informatico. Erano molti dati, ecco perché ero dovuta rimanere tutto quel tempo.
Ma era uno sforzo inutile, sembrava proprio non riuscire ad entrarle in testa.
Non mi dispiaceva rispiegarglielo, però.
Avevo molto tempo libero.
Uscii all'aperto, indossando i miei occhiali da sole e aprendo la macchina con il comando centralizzato.
Mi piaceva guidare per Londra. Era una città in cui il poco traffico che c'era non sembrava pesare agli abitanti. Era raro sentire un clacson suonare o qualcuno urlare. Mi piaceva come città. Avrei anche potuto viverci per il resto della mia vita.
Parcheggiai davanti ad un bar, uscendo dalla macchina e iniziando a camminare verso l'edificio in fondo alla via.
Era un palazzo composto da otto piani, il colore all'esterno era uno strano bianco sporco, tendente al giallo. Ero fuori dal centro della città, era un quartiere residenziale. Non era particolarmente trafficato.
Un posto tranquillo, con un vicinato tranquillo.
Il posto ideale in cui sarei voluta andare a vivere io. Mi piaceva proprio quella città.
Quando arrivai davanti al palazzo giusto, mi appoggiai con le spalle al muro a destra della porta d'ingresso.
Improvvisamente, il cielo aveva iniziato ad oscurarsi. Respirai e sentii nell'aria l'umidità crescente, capendo immediatamente che da lì a poco sarebbe iniziato a piovere. Ed io avevo lasciato l'ombrello in macchina.
Sospirai, tirando fuori un paio di guanti neri e indossandoli.
Finalmente, dopo circa una decina di minuti, qualcuno uscì dal palazzo. Io guardai la donna dai capelli biondi allontanarsi con la coda dell'occhio.
Quando fui sicura che non mi avrebbe notato, afferrai la maniglia della porta giusto un attimo prima che si richiudesse, entrando all'interno dell'edificio. Mi avvicinai immediatamente all'ascensore, seguendo la strada che avevo imparato a memoria, senza neanche un'incertezza. Premetti il bottone ed attesi.
Non avevo fretta, in fondo.
Dentro l'ascensore c'era una musichetta tranquillizzante, di quelle tipiche da ascensori o da ristorante cinese. La dolce melodia mi entrò subito in testa. Era orecchiabile. Iniziai a fischiettarla senza rendermene conto.
Arrivata al quinto piano uscii, percorrendo il corridoio fino all'ultimo appartamento.
Eccolo lì, appartamento 507.
Volevo sbrigarmi a fare quella maledetta commissione di lavoro. Avevo programmato un pomeriggio intenso di shopping dall'altra parte della città e dovevo sbrigarmi se volevo avere una speranza di trovare posto nel mio ristorante preferito.
Bussai alla porta, mentre mi toglievo gli occhiali da sole e me li sistemavo appesi al collo della maglietta.
“Sì?” venne la risposta dall'interno.
“Salve, stavo cercando il signor Grant. È a casa?”
“Chi lo cerca?”
“Devo fare una consegna. Ho bisogno solo di una sua firma. Se è in casa da solo e si sente più a suo agio, posso far passare il modulo sotto la porta e una volta firmato può aprire per prendere il pacco, ma devo assicurarmi che lei lo riceva.”
“Non può lasciarlo fuori dalla porta?”
“Mi dispiace, signore. È il mio lavoro.”
“Capisco perfettamente. Solo un secondo.”
Qualche istante dopo, dopo aver sentito scattare diversi lucchetti, la porta si aprì.
Era più giovane di quello che mi aspettavo. Vent'anni, nel fiore della sua età. Era di bell'aspetto, dai tratti delicati, ma il viso era trascurato, la barba lasciata crescere. Eppure, aveva l'aria di un bambino che si era perso per sbaglio nel mondo degli adulti. Qualcuno doveva prenderlo per mano e mostrargli la strada di casa.
“Dove devo firmare?” chiese, un po' nervosamente.
Io gli sorrisi.
“Un secondo, ho una penna.”
Infilai la mano destra nella tasca interna del giacchetto che stavo indossando.
Lui si guardò alle spalle, ignorando il fatto che non avevo in mano un modulo né dei fogli da fargli firmare. Si voltò di nuovo nella mia direzione mentre io estraevo la mano destra dal giacchetto e gli sparavo in mezzo alla fronte.
Cadde immediatamente all'indietro. Io lo afferrai al volo, attenta a non macchiarmi i vestiti, appoggiandolo sul pavimento delicatamente, evitando di far insospettire gli inquilini al piano inferiore.
“Dio benedica i silenziatori” sussurrai, chiudendogli le palpebre e dando un'occhiata veloce all'appartamento.
Sembrava tutto vuoto.
Gettai un ultimo sguardo al corpo senza vita ai miei piedi, poi uscii, richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle.
Sarebbero passati giorni, prima che qualcuno trovasse il suo corpo.
Per allora, io sarei stata in un altro continente.
Risistemai la pistola dentro la tasca interna della giacca e salii in ascensore.
Una volta fuori dall'edificio, mi accorsi che era di nuovo uscito il sole. Iniziai a passeggiare verso il punto in cui avevo lasciato l'auto, togliendomi i guanti. Mi rimisi gli occhiali da sole, felice che il sole fosse tornato per illuminare e riscaldare il lungo pomeriggio di compere che mi attendeva.
Involontariamente, mi trovai a fischiettare la musichetta che pochi minuti prima avevo ascoltato in ascensore.
Mi era davvero entrata in testa.
Continuai a camminare verso la macchina, giocherellando con le chiavi che avevo in mano.
Per essere pieno giorno, la strada era relativamente silenziosa.
Amavo profondamente quella città.

“Risponda solo sì o no alle domande che le farò. Conosce il funzionamento della macchina a cui è attaccata?”
“Sì.”
“È una macchina della verità basata sul battito cardiaco e gli impulsi nervosi.”
“Ok.”
“Risponda solo sì o no, per favore. Inizierò con alcune domande che registreranno i suoi dati quando dice la verità e poi passerò a farle alcune domande riguardanti il suo caso. La macchina sarà in grado di dirci se sta mentendo. È pronta?”
“Sì.”
“Benissimo. Iniziamo dai dati anagrafici.”


New York non era paragonabile a Londra.
Era caotica. Troppo frenetica, per i miei gusti.
Ma ero stata in posti peggiori.
Il lavoro come free lance informatico mi piaceva. Potevo cambiare città ogni volta che volevo senza avere problemi nel trovare un lavoro quasi immediatamente.
E anche se non trovavo lavoro, non era un problema. Avevo i risparmi di una vita per mantenermi tutto il tempo che avessi voluto passare senza far niente.
C'era un bar di New York che mi piaceva particolarmente. Ci andavo ogni mattina che passavo in città. Mi lamentavo tanto del caos di quella città, ma in realtà era una delle mie preferite al mondo, una di quelle in cui andavo più spesso.
Certo, non l'amavo quanto Londra, ma non era tutti i giorni che potevo concedermi un viaggetto oltreoceano.
Insomma, andavo in questo bar e mi sedevo ad uno dei tavoli all'aperto, con gli occhiali da sole anche in pieno inverno e osservavo i passanti, cercando di indovinare chi fossero, dove fossero diretti, cosa facessero nella vita.
Due uomini ad uno dei tavoli avevano attirato la mia attenzione. Non sembravano lì per caso, e più di una volta avevo notato uno dei due lanciare occhiate nella mia direzione. Ma alzarmi e iniziare a correre, probabilmente, non sarebbe stato il modo migliore per non attirare attenzione.
Rimasi lì a sorseggiare il mio cappuccino finché la sveglia che avevo impostato sul cellulare iniziò a squillare. Dopo aver premuto il pulsante per spegnerla, mi portai il cellulare vicino all'orecchio, assicurandomi di parlare a voce abbastanza alta, ma non talmente alta da destare sospetti.
“Ehi, sono in ritardo. Mi sono fermata per un caffè. Sto arrivando, sarò lì tra una decina di minuti, ok? Ciao.”
Finsi di chiudere una conversazione mai iniziata e poi mi alzai, afferrando il mio giacchetto ed andandomene.
I due uomini si alzarono immediatamente.
Svoltai il primo angolo e appoggiai le spalle contro il muro, sparendo tra l'ingresso di un palazzo e un piccolo albero. Pochi secondi dopo anche i due uomini entrarono nella via, proseguendo a dritto, guardandosi intorno.
Dilettanti.
Io tornai sui miei passi, cambiando totalmente direzione. Non potevo preoccuparmi di loro, avevo da fare. La sveglia che era appena suonata sul mio telefono significava che era ora di smettere di perdere tempo in giro e iniziare.
Passeggiavo, con le mani in tasca, tranquilla come al solito. La presenza dei due uomini, non mi aveva turbato.
Cosa mai avrebbero potuto fare? La cosa peggiore che potevano fare era uccidermi.
Sorrisi al pensiero, iniziando a fischiettare mentre mi avvicinavo all'edificio dove era richiesta la mia presenza, indossando i guanti.
Quando bussai alla sua porta, lei mi osservò per qualche istante dallo spioncino. Il mio sorriso innocente probabilmente la convinse, perché, senza neanche chiedere il mio nome, tolse la catena ed aprì.
“Posso fare qualcosa per lei?”
“Salve. Cercavo la signorina Donovhan.”
“Sono io.”
“Suo fratello mi ha dato questo indirizzo. Ha detto che mi stava aspettando.”
Lo sguardo sulla sua faccia si tranquillizzò.
“Entri pure, agente. Non pensavo si trattasse di una donna.”
Si spostò dalla soglia, facendomi cenno di entrare. Io ricambiai il sorriso, facendomi strada all'interno dell'appartamento.
Era arredato in maniera sofisticata, di certo non quello che mi sarei aspettata da una segretaria, ma dopotutto, il fratello era nei ranghi alti dell'esercito. Doveva aver pur fatto qualcosa con tutti quei soldi. E quale uso migliore, se non quello di viziare la sorellina?
“Allora, cosa le ha raccontato esattamente suo fratello?”
“Niente di particolare. Che è successo qualcosa, laggiù. Qualcosa di grosso. Che avrebbe mandato qualcuno per farmi portare al sicuro.”
Annuii, esaminando la superficie perfettamente pulita del tavolo.
“Lei è affetta da un OCD, non è vero?” chiesi sommessamente.
“Mi scusi?”
“Per via dell'incredibile pulizia di questo posto, dell'ordine, della simmetria. Ci sono due lampade ai lati opposti della stanza” indicai le due pareti. “Due divani posti di rimpetto, con al centro un tappeto, su cui è raffigurato un disegno a tratti lineari simmetrici, non una figura semplice. I quadri sono sistemati a coppie poste di rimpetto, due sono di argomento religioso, altri due sono paesaggi e gli ultimi due sono ritratti. Quando siamo entrate la prima cosa che ha fatto è stato sistemare l'angolo semi avvolto del tappeto e poi ha risistemato uno dei cuscini in modo che fosse perfettamente dritto, anche se il disordine della casa non dovrebbe essere un problema visto che sono qui per portarla via.”
Feci una pausa. Lei non rispose.
“Inoltre, i numeri sulla porta di ingresso sono incredibilmente puliti per un appartamento così vecchio, perfino negli angoletti del numero '7'. Sembra che qualcuno li abbia lucidati usando uno spazzolino da denti. E il non riuscire a confrontare uno sconosciuto con la porta chiusa può voler dire che ha problemi a relazionarsi con persone...”
“D'accordo” mi fermò. “Comprendo che il mio disturbo è evidente ai suoi occhi.”
“Mi dispiace” mi scusai. “Non volevo metterla a disagio. Sono abituata a fare questo tipo di osservazioni, nel mio lavoro.”
“Capisco. Fare il suo lavoro deve essere difficile.”
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“Dobbiamo sbrigarci. C'erano due uomini che mi seguivano mentre stavo venendo qui.”
“Due uomini? L'hanno seguita fino a qui?” chiese spaventata.
“Oh, no, non si preoccupi” la tranquillizzai. “Li ho depistati. Non sanno ancora dove è il suo appartamento.”
Lei annuì, andando verso la camera da letto. Ma, una volta sulla porta, si bloccò.
“Chi pensa che fossero questi due uomini?” chiese, voltandosi lentamente.
Io le rivolsi un piccolo sorriso, guardandola con le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Gli agenti dell'FBI che dovevano venire a prenderla” le spiegai brevemente.
Fece un passo indietro.
“Se suo fratello si fosse degnato di spiegarle che non possono venire a prenderla prima di essersi accertati che qualcuno la sta davvero cercando, avrebbe saputo che gli agenti non sarebbero stati qui prima di tre giorni.”
I suoi occhi erano pieni di terrore.
Mi piaceva quella sensazione. Mi piaceva perché era quello che doveva aver provato lei a suo tempo. Mi piaceva che la provassero anche loro.
“Ma allora lei chi è?”
Avanzai lentamente nella sua direzione.
Era letteralmente paralizzata dalla paura.
“Io sono la persona che la stava cercando, signorina Donovhan.”
Estrassi lentamente la pistola dal posto che aveva dentro il mio giacchetto e la puntai contro la sua testa.
“La prego, non lo faccia. Non ho fatto niente di male, non ho fatto niente. La prego, la supplico, non mi uccida.”
“Avrei voluto prendermi il mio tempo. Spiegarle perché sta morendo. Spiegarle chi è davvero suo fratello. Ma come ho detto, dobbiamo sbrigarci. L'FBI troverà il suo cadavere tra tre giorni. Per allora, io devo aver lasciato lo stato. È un vero peccato. Avrei voluto che almeno uno di voi sapesse, prima di morire” confessai, caricando il colpo. “Oh, beh, sarà per il prossimo.”
“No, per favore. Se è per qualcosa che ha fatto mio fratello se la prenda con lui, la imploro. La prego, la prego non mi uccida” iniziò a piangere sommessamente.
Me la sarei presa volentieri con suo fratello, in effetti. Ma i quattro bastardi erano spariti dalla faccia della terra.
Feci un altro passo verso di lei.
Cadde in ginocchio a due passi da me, continuando a piangere.
“La prego, la prego” continuò a ripetere come un mantra.
Sentii un nodo in gola.
Potevo risparmiare quella donna. Se volevo, potevo andarmene da lì in quel preciso momento e lasciarla vivere.
Ma poi un flash. Un'immagine complessiva di quelle infinite fotografie apparve ancora vividissima nella mia memoria.
Aveva implorato anche lei? Anche lei aveva pregato per una libertà che non era mai arrivata? Anche le sue suppliche erano state vane?
Quello che stavo facendo mi si abbatté addosso come una scarica da un milione di volt.
Io non ero migliore di loro.
Abbassai il braccio destro finché fu disteso lungo il mio fianco, immobile.
Dicono che in ognuno di noi ci sono due parti. Una buona, l'altra cattiva. Quale di queste due indoli prende il sopravvento, è poco più che un caso. Basta qualcosa di piccolo, minuscolo, per farci cadere da una parte o dall'altra. L'equilibrio è molto precario. Ma alla fine dei conti, è quello che ci è stato fatto che stabilisce il tipo di persona che diventiamo.
Io non ero una persona cattiva.
Un tempo, ero stata una persona buona. Ed avevo sempre avuto un carattere gentile.
Però, mi era stato fatto qualcosa.
Personalmente, credo che chiunque sarebbe in grado di fare qualunque cosa, se messo in determinate condizioni, anche le cose più tremende, che non pensava sarebbe mai stato capace di fare.
Alzai la pistola e la uccisi.

“Il suo nome è Arizona Robbins?”
“Sì.”
“La sua data di nascita è il 9 Agosto del 1979?”
“Sì.”
“Il nome di suo padre è Daniel Robbins. Conferma?”
“Sì.”
“Quello di sua madre Barbara Robbins.”
“Sì.”
“Ha un fratello.”
“Sì.”
“Il suo nome è Tim Robbins.”
“Sì.”
“Abbiamo abbastanza dati per proseguire. Parliamo del motivo per cui si trova qui oggi. Conosce i suoi capi d'imputazione?”
“Sì.”


Non ero mai stata in Australia.
Ma il clima caldo di Sydney fu un piacevole cambiamento rispetto all'inverno che stavo affrontando a casa.
Era venuto fuori che gli agenti speciali che mi stavano seguendo in realtà non erano affatto agenti speciali, ma due tizi mandati da Jeffry Corchoran per cercarmi.
E non erano nemmeno tanto svegli.
Era stato stupido, in effetti, da parte mia, pensare che l'FBI fosse stata coinvolta.
Tutte le parti in causa volevano che quella questione rimanesse fuori dal radar di azione del Bureau, e per Jeffry era stato facile convincere Donovhan a mentire alla sorella.
Ero stata lì per due settimane, quando decisi che era meglio chiudere quella storia, prima che gli uomini di Corchoran riuscissero a trovarmi di nuovo. Non potevo essere sicura che non avesse mandato un paio di scagnozzi più intelligenti, quella volta.
Quella sarebbe stata la mia ultima sera in città. Decisi di godermela, mi vestii a dovere ed entrai in un bar.
Robert era un dottore di origini Californiane. Tutta via, i numerosi anni che aveva passato lavorando a Sydney, gli avevano causato un buffo accento a metà tra quello americano e quello tipico degli australiani.
Era divertente ascoltarlo parlare.
Ed è quello che feci per quasi mezz'ora dentro quel bar.
Mi piaceva, Robert. Oltre l'accento, anche le sue battute erano divertenti. Era un tipo sicuro di sé al punto giusto, non tanto da essere presuntuoso, ma abbastanza da risultare estremamente affascinante.
Così, quando, dopo a malapena mezz'ora dalla prima volta che i nostri sguardi si erano incrociati, mi propose di seguirlo fuori dal locale, accettai con un sorriso la sua offerta.
Iniziammo a passeggiare al chiaro di luna.
“Fa piuttosto freddo questa sera” mi fece notare con quel suo buffo accento.
Sembrava un ragazzino con ancora qualche difficoltà nel capire come si pronunciavano bene alcune parole. Faceva tenerezza.
“Hai ragione” concordai, abbottonandomi il giacchetto ed indossando dei guanti.
Lui si limitò a sorridermi.
“C'è un albergo, proprio in fondo alla strada. Forse, per evitare che tu prenda freddo, potremmo prendere una stanza.”
Ed ecco che, da sicuro di se stesso, Robert diventava presuntuoso. Ma questo cambiamento non fece vacillare il sorriso sulle mie labbra.
“Credevo onestamente che avresti proposto casa tua.”
Sembrò, per un attimo, essere imbarazzato.
“Al momento, ci sono delle persone a casa mia. Diciamo che me la sono svignata e non ci tengo proprio a tornare lì.”
Lo guardi, perplessa.
“Lascia stare. È una lunga storia.”
Io guardai dentro i suoi occhi scuri come la notte. Robert era un bell'uomo, ma i suoi occhi erano quelli inespressivi di un ragazzo che non ha ancora imparato molto dalla vita.
“Che albergo sia, allora” gli feci cenno di precedermi.
Quando arrivammo davanti alla porta di ingresso, io mi fermai, fingendo di ricordarmi improvvisamente una chiamata che dovevo fare quella sera stessa.
“Mio padre sarà preoccupato. Avevo promesso di chiamare oggi pomeriggio. Facciamo così, prendi una stanza e mandami il numero per messaggio. Ti raggiungo appena ho finito, se per te non è un problema.”
Per un attimo valutò se il mio potesse essere un modo carino per rifiutarlo e darmela a gambe lasciandolo ad aspettarmi tutta la notte in quella stanza.
Poi, decidendo di correre il rischio, mi sorrise e annuì.
Lo guardai entrare, poi aspettai, finché, un paio di minuti dopo, mi arrivò per messaggio il numero della camera. Attesi ancora dieci minuti. Fortunatamente, all'interno dell'hotel sembrava esserci un via vai di gente parecchio vasto. Nessuno avrebbe notato la mia presenza.
L'importante era che Robert non mi registrasse al check-in. E sarebbe stato difficile, visto che di me sapeva solo un nome, per giunta falso.
Salii le scale fino al terzo piano. Nessuno mi aveva visto.
Bussai alla camera. Lui aprì con un sorriso radioso.
“Speravo che non avessi deciso di scappare.”
Gli rivolsi un mezzo sorriso, entrando. Rimasi con le spalle appoggiate alla porta, cercando di distrarlo parlando.
“Allora, chi sono le persone che in questo momento sono a casa tua?” chiesi, mentre lui si metteva seduto sul letto e si allentava la cravatta.
Mi portai una mano dietro la schiena, trovando a tentoni la chiave della porta. Per fortuna, Robert mi aveva incoraggiato ad indossare i miei guanti.
“Come ti ho detto, è una lunga storia.”
“Vuoi che provi ad indovinare?” proposi. “Tre tentativi.”
“Perché invece non vieni a sederti qui, sul letto, accanto a me?”
Io gli rivolsi un sorriso intrigante.
“Numero uno, stai ospitando dei vecchi compagni di college, con cui però non hai più molto in comune.”
Lui rise, accettando finalmente la mia provocazione.
“Fuochino.”
“Numero due, in realtà sei sposato e ci sono i tuoi suoceri a casa tua, che monopolizzano la televisione.”
Lui rise di gusto.
“Acqua. Acqua profonda. Sei del tutto fuori strada.”
“D'accordo” strinsi gli occhi, pensando attentamente, sfiorandomi il mento con una mano e sedendomi sul bordo della scrivania che arredava la piccola stanza, probabilmente la più economica dell'hotel rimasta disponibile. “Ah, ci sono. Tuo fratello ha chiamato l'altro giorno e ha detto che ci sono stati dei problemi. È successo qualcosa. Non ti ha detto cosa, è rimasto sul vago, ma potevi benissimo capire dal suo tono, che è qualcosa di molto serio.”
La sua espressione cambiò lentamente, mentre parlavo, passando da tranquilla a stupita, e infine iniziò ad essere leggermente preoccupato.
“Così ha mandato degli uomini a proteggerti. Uomini armati. A cui però, onestamente, importa poco di proteggere un uomo che non vuole protezione. Così non è stato difficile riuscire a sgattaiolare via. Dimmi, dottor Corchoran, sono vicina al fuoco, adesso?”
Scattò in piedi, correndo verso la porta. Chiusa a chiave. La chiave sparita. Era saldamente nascosta dentro la mia tasca. Ringraziai il fatto che aveva scelto un motel tanto economico da non avere ancora le chiavi ad apertura magnetica.
Si voltò verso di me, vedendomi tenere in mano una pistola con il silenziatore già al proprio posto, gli occhi sgranati. Stava iniziando ad avere paura.
“Siediti, Robert. Facciamo due chiacchiere. Non vuoi sapere cos'è che tuo fratello ti sta nascondendo?”
“No. Voglio solo andarmene via.”
“So che hai paura, ma in realtà non c'è niente di cui avere paura. Personalmente, trovo che la vita faccia molta più paura della morte.”
“Mi ucciderai?” chiese. La voce gli tremò.
“Sì.”
“Chi sei?”
“Tre anni fa, quando tuo fratello era ancora...”
“Chi sei?” chiese a voce più alta.
Lo stava chiedendo, ma non voleva davvero saperlo.
Non provava interesse nel sapere chi fossi.
Non era una storia che voleva sentire.
Non capivo perché avessero tutti così paura. Non volevano prendersi il tempo di sapere per quale motivo stavano morendo? Nessuno di loro sembrava interessato a sapere perché. Volevano solo disperatamente tentare di evitare il loro destino, pur sapendo che non ci sarebbero potuti riuscire in quel modo. Non era un comportamento razionale, il loro.
Ma in fondo, chi ha paura, non è mai razionale.
“Nessuno. Non sono nessuno.”
Rimasi un paio di minuti. I suoi occhi ancora aperti si spensero. Era come se fossero stati ricoperti da un velo. Si erano prosciugati. Avrei potuto avvicinarmi e chiudere le sue palpebre. Ma il sangue che scorreva dalla sua fronte su tutto il suo viso avrebbe sicuramente macchiato i miei guanti, e non avevo intenzione di farmi beccare proprio allora.
Così me ne andai, lasciando la chiave dentro la stanza.
Scesi al piano terra, sorridendo quando realizzai che il guardiano notturno stava dormendo. Era come se non fossi mai stata lì dentro.
Uscii, chiamando un taxi che mi portasse verso l'aeroporto.
Quando arrivai, riconobbi l'elicottero nero anche da una certa distanza.
Salii a bordo, indossando le cuffie per il viaggio.
“Hai registrato il volo?”
“Né l'andata né il ritorno” rispose, preparandosi a decollare.
“Grazie, Teddy.”
Lei mi osservò per un momento. Poi si alzò in volo.
“Non voglio entrare in questa storia. Non sono stupida, so quello che sta succedendo. Ma, tecnicamente, quello che sta succedendo non ha motivo di succedere, quindi se vogliono muovere qualche accusa dovranno venire allo scoperto. E puoi stare tranquilla, non è qualcosa che nessuno di loro ha intenzione di fare. Quindi, come ho detto, io non voglio entrare in questa storia.”
Per qualche attimo lasciai che il solo rumore fosse quello dell'elicottero che si alzava verso il cielo notturno di Sydney.
Quando l'elicottero fu alto sull'oceano, estrassi la pistola. Dei sette colpi presenti originariamente nel caricatore, ne erano rimasti dentro solo quattro. Tolsi il caricatore, facendo cadere i proiettili sul palmo della mia mano. Gettai la pistola e il caricatore, seguito da tre proiettili, nelle profondità dell'oceano sotto di noi, tenendo un solo colpo e riponendolo dentro la tasca interna del giacchetto che indossavo.
Era tutto quello che mi serviva.
Mi era rimasto un solo colpo da sparare, e non avevo intenzione di sprecarlo.
“Non so di cosa stai parlando, Teddy.”
“Esattamente quello che speravo di sentirti dire, Callie.”
“Comunque, ho chiuso questa storia. È finita.”

“Sto per mostrarle tre fotografie. Riconosce la donna delle immagini?”
“Sì.”
“L'ha mai incontrata prima, di persona?”
“Che razza di domanda è questa?”
“Signorina Robbins, risponda solo con un sì o un no.”
“Sì. Certo che l'ho incontrata. E lo sapete benissimo.”
“Signorina Robbins, un sì o un no sono sufficienti. Non c'è bisogno che li argomenti con osservazioni personali del tutto inutili ai fini dell'indagine. Si attenga al protocollo da qui in avanti, ha capito?”
Ci fu una lunga pausa. Infine, la risposta sommessa.
“Sì.”
“Ha mai incontrato questa donna di persona?”
“Sì.”
“Ha mai parlato con questa donna prima di due settimane fa?”
“Sì.”
“Riconosce il luogo delle immagini?”
“Sì.”
“Di tutte e tre?”
“Sì.”
“Questo è il suo appartamento?”
“Sì.”
“Quest'altra invece è stata scattata in uno dei parchi di Seattle.”
“Sì.”
“E anche quest'ultima è stata fatta a Seattle.”
Prese la fotografia delicatamente tra le dita, accarezzandone la superficie.
Come poteva dimenticare?
“No. No, non è Seattle.”


Di tutte le città in cui ero stata negli ultimi cinque mesi, Londra, New York, Sidney, nessuna era mai davvero stata casa mia.
Casa mia era Seattle.
Tornarci fu un sollievo.
Era finita.
Potevo finalmente riprendere a vivere.
Senza più problemi, senza dover tenere il fiato sospeso.
Avevo fatto quello che dovevo fare. Quello che sarebbe successo da allora in poi, era solo un bonus in aggiunta alla vita che avevo programmato per me stessa.
Dicono che la vita è quello che ti succede mentre sei occupato a programmare qualcos'altro. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse vero, finché un giorno mi sedetti dentro ad una caffetteria, in uno dei tavoli più lontani dall'ingresso, e la vidi entrare.
Non fu una sorpresa.
Quello era il suo posto preferito in città.
Andava a prendere un caffè lì dentro cinque giorni a settimana, alle otto in punto.
L'avevo vista spesso. Ma avevo sempre pensato che non avrei mai avuto l'occasione di poter andare a parlare con lei.
Ma, in fondo, cosa mi tratteneva a quel punto?
Così andai a parlarle. Tutto quello che le dissi fu 'Ciao'. Da allora, qualcosa dentro di me cambiò per sempre. Non fui la stessa persona mai più.
Le strinsi la mano. Parlammo a lungo. Quando mi disse che doveva tornare a lavoro, le risposi che, se conosceva il bar in fondo alla strada, sarei stata lì quella sera alle otto. Le dissi che speravo venisse a bere qualcosa insieme a me. L'unica risposta che ottenni fu un sorriso.
Ma quella sera, alle otto in punto, la vidi varcare la soglia di quel bar.
Era divertente. Sorrideva molto. Aveva qualcosa negli occhi. Una scintilla, non so bene come spiegarlo. So solo che i suoi occhi mi scaldavano il cuore.
“Che ne dici di uscire da qui?”
“Mi sembra un'ottima idea” risposi, seguendola fuori dal locale.
Indossò la giacca, stringendosela addosso dopo aver avuto un piccolo brivido.
“Fa molto freddo, stasera.”
Io le rivolsi il fantasma di un sorriso.
“Hai ragione. Fa freddo.”
Sfilai i guanti dalla borsa, indossandoli.
“Suppongo che quindi fare due passi sia fuori discussione?” le domandai. “Potremmo andare da me, ti offro un altro giro.”
Esitò solo per qualche istante.
“Mi sembra una buona idea.”
Le rivolsi un sorriso, fermando il primo taxi che vidi passare. Aprii la portiera per lei, entrando subito dopo.
“Archfield Hotel” ordinai al tassista.
“Whoa. Credevo andassimo da te, non in un hotel” la sua protesta mi colse alla sprovvista. “Come siamo passate da 'un altro drink' a 'prendiamo una stanza in un albergo'?”
“Questo è imbarazzante.”
“Sì, lo è.”
“No, intendo, è imbarazzante perché” sospirai. “Io vivo in quell'hotel.”
La sua espressione passò da irritata a confusa.
“Mi dispiace. Non volevo metterti a disagio. Vuoi che scenda e ti lasci il taxi?” chiesi, non sapendo bene come avrei dovuto comportarmi.
“No, no, certo che no. È colpa mia, sono saltata alle conclusioni. Possiamo andare nel mio appartamento, se per te fa lo stesso. C'è una cucina, e un soggiorno. In una camera d'albergo di solito c'è solo...”
“Un letto?”
“E un frigo bar.”
“Casa tua va benissimo.”
Casa sua era anche meglio. Sarebbe stato difficile da spiegare perché non avevo una stanza in quell'albergo.
Davanti alla porta del suo appartamento, capii che era il momento in cui avrei dovuto togliermi i guanti. Però non lo feci. Entrai dopo di lei, guardandola richiudersi la porta alle spalle. Mi guardai attorno.
L'arredamento era sobrio e ordinato, forse c'erano un po' troppi colori per i miei gusti, ma non era strano o volgare. C'erano diverse foto sparse per l'appartamento e qualche quadro appeso alle pareti, la cucina era separata dal soggiorno e c'era una camera da letto che si poteva intravedere perfino dall'ingresso dell'appartamento.
Quando mi voltai di nuovo verso di lei, mi accorsi che stava nervosamente giocando con le chiavi che aveva in mano.
Avrebbe dovuto stare tranquilla. Non c'era niente di cui avere paura.
Feci qualche passo verso di lei, osservando attentamente i suoi occhi. C'era qualcosa di magico, in lei.
“Ci siamo” pensai. “Se non lo faccio adesso, in questo istante, non troverò il coraggio di farlo mai più.”
Mi avvicinai ancora, rivolgendole un piccolo sorriso.
“Sei davvero molto bella, Arizona.”
Le detti a malapena il tempo di inspirare, poi mi abbassai di qualche centimetro, baciandola a fior di labbra.
E, in quel momento, il resto del mondo cessò di esistere.

Stavo leggendo il menù quando la sentii ridere.
Mi sorprese, perché io avevo i nervi a fior di pelle. Raramente ero stata così agitata per qualcosa in vita mia.
Ma il nostro primo appuntamento doveva andare bene.
“Scusa” mi disse, coprendosi le labbra con una mano prima di sparire a sua volta dietro al menù che stava leggendo.
Io per un attimo fui spaesata, ma poi tornai a leggere le pietanze che il ristorante offriva quella sera, e stavo giusto valutando di ordinare una pizza hawaiiana, quando la sentii di nuovo. Quella risata cristallina.
Sbirciai da sopra il mio menù, vedendola cercare di nascondersi dietro il suo.
“Scusami. Mi dispiace. È solo che...” altra risatina. “Leggi a pagina cinque.”
Voltai un paio di pagine.
“Calzone” ridacchiò di nuovo.
La donna di fronte a me era completamente incomprensibile, la maggior parte delle volte. Ma forse, se avessi avuto abbastanza tempo, avrei potuto imparare a capirla alla perfezione, forse addirittura meglio di quanto a volte capivo me stessa.
“Che cosa c'è di così buffo in una pizza arrotolata?”
“Hai mai sentito parlare di Brangelina? O di Bennifer? Tomkat?”
“Isole tropicali?”
“Coppie di attori. I fan mischiano parti dei loro nomi per formare dei soprannomi. Per esempio, Brad Pitt e Angelina Jolie, Brangelina. O Ben Affleck e Jennifer Lopez, Bennifer.”
“Fammi indovinare. Tom Cruise e Kathrine Holmes...”
“Tomkat.”
Annuii lentamente, iniziando a capire cosa significavano quegli strani nomi.
“E perché questo ti fa ridere? Intendo, a parte il fatto che i nomignoli sono ridicoli.”
Lei mi sorrise.
“Se fai la stessa cosa con i nostri nomi” voltò il menu nella mia direzione, i suoi occhi sporgevano da sopra il bordo, lessi la scritta in rosso proprio dove avrebbe dovuto trovarsi il suo naso.
“Calzona.”
Io inclinai la testa di lato, alzando le sopracciglia e trattenendo a malapena un sorriso.
“Mi dispiace. Non so perché mi è venuto in mente. Era davvero una pessima cosa da dire ad un appuntamento.”
Io tornai a leggere il menù, schiarendomi la voce.
“Quindi saremmo una pizza arrotolata? Delizioso. E Calzona è molto meglio di Bennifer.”
La guardai di sottecchi mentre rideva.
“Mi dispiace così tanto, Calliope. Non riesco a smettere di ridere.”
“Mi piace sentirti ridere” le dissi immediatamente. “Anzi, farò il possibile perché tu non faccia mai altro.”
La sua risata si trasformò in un sorriso dolce.
“Siete pronte per ordinare?” ci chiese il cameriere avvicinandosi al nostro tavolo.
Io sorrisi, chiudendo il menù e riconsegnandoglielo.
“Io prendo un calzone.”
Di nuovo, le sentii fare quella melodiosa risata.

“Non lo so. Che ne dici di Londra?”
“Mi piace Londra. È la mia città preferita al mondo” risposi sorridendo, mentre nascondevo il naso contro il suo collo.
Lei rise, continuando a sfogliare la rivista che aveva tra le mani. Era seduta tra le mie gambe, io ero appoggiata con la schiena alla spalliera del letto.
“Allora è deciso. Londra. Quando vuoi partire?”
“Fammi pensare” la baciai sulla guancia. “Mi stai chiedendo quando voglio partire” mormorò un assenso, distratta dai miei baci sul suo collo. “Per andare a Londra insieme a te. Le due cose che preferisco al mondo. Vediamo...Subito?”
Rise, voltando la testa di lato e baciandomi.
“E allora partiamo subito” mi guardò intensamente negli occhi, sfiorandomi una tempia con la punta delle dita.
Sentii un nodo in gola.
Mi salirono le lacrime agli occhi.
Dopo tutto quello che avevo fatto, dopo tutto il male, il dolore che avevo causato, avevo comunque trovato lei.
“Calliope?” sussurrò, baciandomi su uno zigomo.
“E allora partiamo subito” confermai.

“È Londra.”
“Londra? Dice sul serio?”
“Sì. Più o meno sei mesi dopo che ci eravamo conosciute, avevamo deciso di fare un viaggio insieme. Avevamo scelto Londra” la voce le tremò.
“Lasciamo stare le foto, che ne dice?”
Annuì. “Le dispiace” guardò per qualche altro secondo le due figure presenti nella foto. “Le dispiace se questa la porto via con me?”
“Faccia pure. Ne abbiamo una copia.”
“La ringrazio.”
“Adesso mi dica, quanto tempo fa è stato il vostro primo incontro?”
“Circa un anno.”
“Che tipo di rapporto c'era tra di voi?”
Quella domanda la irritò.
Il figlio di puttana sapeva benissimo che tipo di rapporto c'era tra loro.
“Stavamo insieme.”
“Intende dire che eravate sentimentalmente coinvolte e avevate una relazione?”
Si morse la lingua per non urlargli addosso.
E rispose la sola cosa che le era concesso rispondere dentro quella stanza.
“Sì.”
Ci fu un lunghissimo silenzio.
“Cosa è successo esattamente quella sera? Tutti i dettagli che riesce a ricordare.”
Sentì un nodo in gola.
Preferiva di gran lunga quando le uniche risposte che poteva dare erano sì o no, rispetto ai dettagli di quella storia.


Ero una persona molto intuitiva.
Avevo capito quando stava per finire. Non che servisse un genio.
Ma se anche non lo avessi capito prima, i suoi occhi chiari non mi avrebbero lasciato comunque il minimo dubbio.
Non sapeva mentire a me.
Avevo avuto un lungo preavviso, comunque. Almeno dodici ore. Non è da tutti un privilegio del genere.
Erano le otto di mattina quando, uscendo di casa, trovammo suo fratello ad aspettarci davanti alla porta.
“Tim Robbins.”
“Callie Torres.”
“Tim, ti ho parlato spesso di Calliope. Sono felice che tu la conosca, finalmente.”
“Anche io sono felice di avere finalmente questo piacere.”
“Arizona mi ha parlato moltissimo di te” replicai con un sorriso.
Avrei potuto fare qualcosa, in quelle dodici ore.
E invece rimasi dentro casa. Sdraiata su quel suo letto che era diventato il nostro. Persa nei miei ricordi, persa in domande che non avrebbero mai avuto una risposta.
Avrei dovuto probabilmente fare una valigia e sparire prima che tornasse a casa.
E se allora avessi scelto di farlo, forse avrei potuto salvare le cose.
Salvare noi.
Ma non ne fui capace.
Di tutte le cose che avevo deciso di non cercare, lei era l'unica che mi aveva trovato comunque. Non potevo scappare.
Così feci qualche commissione, ma poi tornai a casa ed aspettai, fino alle otto di sera, quando tornò anche lei.
Esitò sulla soglia, giocherellò con le chiavi che aveva in mano, aspettò che dicessi qualcosa, ma io rimasi ferma dov'ero con le mani in tasca.
Poi mi guardò negli occhi. Ed ebbi la conferma che cercavo.
Era finita.
Annuii, distogliendo lo sguardo solo quando non riuscii più a nascondere quello che stavo provando.
Presi il giacchetto da sopra il divano, indossandolo.
“Dove stai andando?”
“Via” risposi solo. Risposte secche. Non più di due sillabe alla volta. In modo che le lacrime non cadessero.
Lei posò le chiavi, gettando a terra la borsa e mettendosi davanti a me.
Mi guardò negli occhi per parecchi secondi.
Poi appoggiò le dita di entrambe le mani sulle mie tempie, si alzò in punta di piedi e mi baciò sulla fronte.
“So che hai in testa un casino, ma prometto che posso aiutare.”
Con il più piccolo dei gesti, lei riusciva a disarmarmi.
Io continuai a guardarla.
L'unica persona a cui ero riuscita a mostrare le mie debolezze era l'unica persona al mondo a cui non importava che fossi debole. L'unica persona che non voleva altro che essere parte della mia forza.
Spostò le mani sul mio viso.
“So che adesso vuoi scappare. So che il tuo primo istinto è quello di andartene dell'altra parte del mondo. Ma non farlo, ok? Non senza di me.”
“Arizona.”
“Ovunque tu stia andando, torna a casa, stasera. E domani mattina andremo via insieme. Andremo a...” aveva le lacrime agli occhi. “Andremo a Londra. Vivremo lì. Compreremo una casa in un quartiere tranquillo, in periferia, come hai sempre voluto.”
Coprii le sue mani con le mie, sperando che potesse capire tutto quello che non ero mai riuscita a dirle e che di certo in quel momento non era appropriato dire.
“Ci vediamo tra poco” la rassicurai.
Poi mi abbassai di quei tre centimetri che ci allontanavo e la baciai.
Speravo solo che se fosse successo qualcosa, in qualche modo, un giorno, fosse venuta a conoscenza della verità.
Mi allontanai e andai velocemente verso la porta, aprendola. Mi bloccai solo per un secondo, voltai la testa di lato, senza voltarmi di nuovo verso di lei.
“La prima cosa da cercare sono i calzini rossi, nel primo cassetto del mobile in camera nostra. Sono la primissima cosa, ok?”
Senza aspettare una risposta, me ne andai.
Lui mi stava aspettando proprio lì fuori, a qualche metro dall'ingresso dell'edificio.
“Tenente Robbins.”
“Callie Torres. Ho parlato con il Maggiore Corchoran, proprio l'altro giorno. Immaginerai la mia sorpresa quando mi ha detto che ti aveva finalmente trovato. Soprattutto quando mi ha dato l'indirizzo di casa tua ed era quello di mia sorella.”
“Corchoran. Interessante. Pensavo sinceramente che a trovarmi sarebbe stato il Sergente.”
“No” scosse la testa, guardando per un istante verso il basso. “No, vedi, Grant ha smesso di provarci tempo fa. Pensava di aver pagato il prezzo per l'azione terribile che aveva commesso e si era dato pace. È sempre stato un tipo debole. Ma noi non potevamo lasciar stare, soprattutto non io, che ho ancora molto da perdere.”
“E cosa farai, esattamente? Perché c'è un sacco di gente in questa strada, al momento. Almeno uno di loro ti riconoscerebbe.”
“Correrò il rischio, se necessario.”
Annuii lentamente.
“Lei un giorno saprà la verità.”
Rise, facendo un passo nella mia direzione.
“No. No, io non credo.”
“Quale verità dovrei sapere?”
Entrambi ci voltammo di scatto.
Nessuno dei due aveva previsto che lei sarebbe potuta scendere in strada. Nessuno di noi due la voleva lì.
Mi bastò un attimo.
Infilai la mano destra nella tasca interna del giacchetto, strinsi l'oggetto saldamente in mano.
“No!”
“Arizona, non avvicinarti.”
Lei non lo ascoltò. Mi corse affianco, inginocchiandosi vicino a me.
Guardò la mia mano destra.
La afferrò delicatamente, facendomi dischiudere le dita. Prese il piccolo oggetto, studiandolo attentamente.
“Questo era il mio, non è vero?” chiese, alzando gli occhi dal proiettile.
“Avrei voluto poterti spiegare, ma adesso è un po' troppo tardi” balbettai in modo vagamente incoerente.
Alcune persone si erano radunate attorno alla scena. Qualcuno aveva chiamato un'ambulanza, altri la polizia. Quando si erano accorti che l'uomo che mi aveva sparato aveva ancora la pistola in mano, si dispersero velocemente. Non importava.
Avrebbero ricordato il suo viso in modo perfetto. La paura, avevo imparato, è molto di aiuto per la memoria.
Bastava quello per assicurarmi che passasse il resto della sua vita nel posto a cui apparteneva. In prigione.
“Se sapessi tutta la storia, forse allora avrei una minuscola possibilità di avere il tuo perdono” le dissi in modo poco chiaro.
“Calliope, tu hai tutto ciò che vuoi da me. Hai il mio perdono. Io ti perdono.”
Il mio sorriso sparì, corrugai la fronte.
“Puoi tenermi la mano? Fa male. Fa davvero male.”
Guardai in basso. C'era molto sangue. Era quasi finita.
Vedevo le sue labbra muoversi. Credo mi stesse pregando di vivere. Ma non ne fui sicura. Ormai, l'unico rumore che mi riempiva le orecchie era quello assordante del silenzio. La gola mi stava andando a fuoco. Sentivo gli occhi chiudersi lentamente.
Cercai qualcosa da dire. Qualsiasi cosa. Ma c'erano troppe cose. E, tristemente, non mi venne in mente niente che potesse bastare.
Nessuna vita poteva essere riassunta in un'unica frase. O almeno, nessuna vita degna di essere vissuta.
Quindi capii che non c'era niente che sarebbe mai potuto essere abbastanza da dire.
Guardai nei suoi occhi perfetti e sorrisi.
“Sono solo grata di averti trovato.”

“Quindi conferma che è stato suo fratello ad uccidere la donna della fotografia?”
“Sì.”
“Signorina Robbins, c'è una persona che vorrebbe parlarle. Ha seguito l'interrogatorio da dietro lo specchio a vetro. Posso farla entrare?”
“Sì.”
Quando la donna le si sedette davanti fu stupita nel vederla indossare l'uniforme militare.
“Da adesso non stiamo più registrando l'interrogatorio, Maggiore.”
La donna annuì, prendendo atto della situazione.
“Buongiorno signorina Robbins. Il mio nome è Teddy Altman. Ho prestato servizio come medico d'urgenza nell'esercito insieme ad Aria Torres.”
Corrugò la fronte alla familiarità del nome.
“Era la sorella di Callie.”
La sua confusione crebbe ulteriormente. Non era quello il motivo per cui quel nome le era così familiare. Callie, non le aveva mai parlato di una sorella.
“Immagino che Callie non le abbia mai parlato di lei. Ma probabilmente il nome le dice qualcosa, ha seguito il suo caso. Due anni e mezzo fa. Lavorava come agente all'FBI. Quello di Aria le fu presentato come caso interno, di solito le competenze militari non sono date allo Stato, ma l'episodio si è verificato qui.”
Appoggiò un fascicolo sul tavolo. Arizona, esitante, lo prese tra le mani.
“Sì. Adesso ricordo. È la donna che aveva accusato quattro dei suoi colleghi militari di aggressione e stupro. Tim era tra gli imputati, ma il caso non finì mai in tribunale. La donna ammise di essersi inventata tutto.”
Teddy annuì, porgendole alcune foto.
“Aria Torres si è tolta la vita circa una settimana dopo. Aveva subito delle minacce che l'avevano spinta a ritirare le accuse. Ma non è riuscita a convivere con quello che le era stato fatto.”
“Aspetti. Maggiore Corchoran, Sergente Grant, Tenente Donovhan, Tenente Robbins. Questi nomi mi dicono qualcosa.”
“Il fratello del Sergente Grant è stato ucciso a Londra, un anno è quattro mesi fa, nella tranquillità della sua casa. Poco dopo di lui la sorella di Donovhan ha avuto una sorte simile. L'ultimo è stato Robert Corchoran, il fratello del Sergente Jeffrey Corchoran.”
L'espressione sul suo viso si trasformò in una di amara comprensione.
“Calliope.”
“È l'ipotesi più probabile, sì. Adesso che Grant ha deciso di confessare, che tutta la storia è venuta allo scoperto, il movente sembra molto chiaro. Loro quattro avevano minacciato di uccidere Callie se Aria non avesse ritirato le accuse, così, quando Aria si è tolta la vita, lei ha deciso di far pagare ai fratelli dei quattro uomini che hanno violentato sua sorella il prezzo che loro non avrebbero mai pagato. Erano spariti dalla faccia della terra. Senza contare che Callie non aveva paura della morte, quindi per lei non sarebbe stata una punizione sufficiente per ciò che hanno fatto. In più, i rispettivi fratelli avevano rilasciato dichiarazioni preliminari dicendo che erano con loro al momento dell'accaduto, costringendo così Aria a ritirare la denuncia.”
“Il proiettile che aveva in mano, era per me.”
Teddy chiuse il fascicolo che Arizona stava ancora fissando, attirando così il suo sguardo.
“Sì” rispose senza esitazione. “La prima volta che ti ha visto è stato quando stavi seguendo il caso di sua sorella, anche se non ti ha mai parlato di persona. Dovevi essere la prima. Non sarebbe tornata a Seattle mai più. Ha iniziato a venire ogni giorno nella caffetteria vicino a casa tua, sapeva che andavi lì ogni mattina alla stessa ora. Non so cosa è successo. Ha smesso di tenersi in contatto con me, se n'è andata a Londra. Poi a New York. Infine a Sidney. È tornata a Seattle, con quel proiettile ma senza più nemmeno avere una pistola. Sono stata io a riportarla qui da Sydney, ed è stato allora che mi ha detto che aveva chiuso con questa storia, che per lei era finita. Non aveva mai avuto in programma di ucciderti. Credo che tenesse quel proiettile per ricordare a se stessa che era stata una sua scelta. Avrebbe potuto ucciderti, in qualsiasi momento, sia prima di partire per Londra che quando è tornata, ma ha deciso di non farlo. Credo che per lei quella fosse la prova che il suo cuore batteva ancora, visto che era stata in grado di scegliere di non sparare a qualcuno che...”
“...amava” concluse per lei.
“Già” sussurrò Teddy in risposta. “Aveva programmato la sua morte fin dall'inizio, temo. Voleva che Tim andasse in prigione, ma non aveva prove. E, da quando sua sorella era morta, non aveva più neanche un testimone che l'aiutasse a fare giustizia. Sapeva che sparare ad una donna disarmata in mezzo ad una strada affollata, però, lo avrebbe mandato dietro le sbarre piuttosto in fretta.”
Il silenzio calò sulla stanza mentre Arizona scrutava quella foto di loro due durante il loro viaggio a Londra.
“Se un giorno riuscissi a perdonarla, se riuscissi a ricordare quanto l'hai amata, allora lei non sarebbe morta invano.”
“Oh, io la amo” rispose subito Arizona. “Ma avrei potuto evitare tutto, se solo non avessi dato per scontata l'innocenza di mio fratello.”
Non alzò lo sguardo.
Continuò a fissare quegli occhi che ogni giorno le mancavano.
Teddy si alzò in silenzio, dirigendosi verso la porta. Si bloccò quando aveva già un piede fuori dalla stanza.
“Cosa c'era dentro quei calzini rossi?”
Scrollò le spalle.
Si perse per un attimo nei suoi pensieri.
Alla fine, alzò lo sguardo verso di lei e rispose in un sussurro.
“La chiave di una cassetta di sicurezza.”


“Signorina Torres, è un piacere vederla tornare.”
“Salve Becky.”
“Vuole tornare alla cassetta di sicurezza di sua sorella?”
“No, grazie. Vorrei comprarne un'altra, se non è un problema.”
“Ma certo, nessun problema. Mi segua.”
Conoscevo bene l'edificio.
I primi tempi dopo la morte di Aria, lo visitavo molto spesso. Becky mi accompagnava in una stanza, aprivo la cassetta di sicurezza, e rileggevo le dichiarazioni di Aria alla polizia, pagine di diario che aveva scritto, registrazioni telefoniche di minacce che aveva ricevuto, era tutto lì. In una scatola di metallo era contenuta la prova che lei aveva detto la verità.
“Vuole concludere la procedura oggi stesso?”
“Sì, purtroppo domani devo partire. Lascio la città.”
“Si prende una vacanza?”
“In realtà, viaggio di lavoro. Vado a Londra per tre mesi, una banca mi ha offerto un lavoro di programmazione informatica, mi occuperò di aggiornare i loro database.”
“Sembra interessante.”
“Sono sicura che lo sarà” risposi, pensando improvvisamente alla pistola che avevo comprato soltanto poche ore prima illegalmente.
“D'accordo. Firmi qui, qui e qui. Questa è la sua copia della chiave. Terremo l'altra, ovviamente, in modo che sia possibile aprire la cassetta solo sotto la nostra supervisione. Se vuole che sia possibile consentire ad altre persone di accedervi scriva i loro nomi qui.”
Feci velocemente tre firme, poi, nell'ultimo punto che mi aveva indicato scrissi velocemente un nome.
“Agente speciale Arizona Robbins” lo lesse ad alta voce. “FBI?”
“Già.”
“Vi conoscete molto bene?”
Io le sorrisi, riponendo la penna.
“Diciamo di sì.”
Io ed Arizona Robbins non avevamo mai parlato prima.
“Posso chiederle di aggiungere il suo nome anche nella lista della cassetta di mia sorella?” le domandai.
“Possiamo farlo appena finiamo qui.”
Annuii, soddisfatta dalla sua risposta.
“Bene. Direi che siamo apposto. Sa che devo chiederle di sistemare gli oggetti in mia presenza, per essere sicura che il contenuto della cassetta di sicurezza non sia illegale.”
“Oh, ma certo. Si tratta solo di poche cose.”

“Dentro ci sono tutte le prove dello stupro e delle minacce. In poco tempo farò in modo di ripulire il nome di Aria da ogni sospetto di diffamazione e farò arrestare gli uomini che le hanno distrutto la vita.”
Teddy annuì.
“Callie sarebbe grata.”
“Lo spero davvero” sussurrò.
Non poteva fare a meno di sentirsi come se quello che era successo a Calliope fosse completamente colpa sua.
Se avesse indagato più a fondo, Aria sarebbe stata ancora viva, Callie non sarebbe mai diventata un'assassina, e quel giorno sarebbe stata ancora sana e salva al suo fianco.
Con suo enorme rammarico, non poteva cambiare il passato.
Quando l'FBI le consentì di andarsene dalla sala interrogatorio, Arizona si incamminò verso il suo appartamento.
In realtà, le chiavi erano due.
La seconda, aveva aperto una cassetta contenente solo tre oggetti.
Un CD su cui era incisa una sola canzone - I miss you, dei Blink.
Un pezzo di carta con sopra una scrittura inconfondibile - 'Le cose non vanno nel modo in cui avresti voluto che andassero. Mai.'
E un anello di fidanzamento, con un nome inciso all'interno - Arizona.


“Signorina Torres. È passato un sacco di tempo dall'ultima volta.”
“Lo so. Devo mettere una cosa nella cassetta a mio nome. Una cosa velocissima.”
“D'accordo. Mi segua. Allora, l'ultima volta che ci siamo viste stava partendo per Londra.”
Io le sorrisi, consegnandole nel frattempo la mia copia della chiave.
“Da allora sono stata in parecchi posti. Ma giusto la settimana scorsa ero di nuovo a Londra, e continuo ad essere convinta che sia la città più bella del mondo.”
“Di nuovo per lavoro?” chiese, porgendomi la cassetta già aperta.
“No. Stavolta no. Ero lì con la persona che amo.”
Estrassi dalla cassetta la lettera che vi avevo riposto tempo prima, esitando per qualche secondo prima di stracciarla. Un tempo, desideravo che conoscesse la mia storia, che sapesse quello che stavo per fare e che poi avevo in effetti fatto.
Ma in quel momento, non volevo che venisse a conoscenza di ciò che era successo. Non volevo che sapesse la verità, volevo solo che fosse felice.
Riposi dentro la cassetta di sicurezza un CD ed un pezzo di carta.
Poi presi la piccola scatoletta che avevo in tasca e la aprii, guardando quell'anello per l'ultima volta.
Quello era stato il mio piano fin dall'inizio, ma questo non significava che non mi stesse lasciando con moltissimi rimpianti che avrebbero continuato a perseguitarmi in eterno.
Non avrei mai avuto il privilegio di darglielo io stessa. Non avrei mai potuto vedere la sua espressione di sorpresa quando mi inginocchiavo davanti a lei. Non l'avrei mai vista vestita di bianco.
Così lo risposi insieme agli altri oggetti, sapendo almeno che, dopo la mia morte, lei lo avrebbe trovato.
“Andiamo Becky” sussurrai. “Ho finito.”

Guardando il suo viso, la sua espressione pacifica, gli occhi chiusi e la bocca incurvata in un sorriso, mi abbassai e la baciai sul collo. Poi appoggiai le labbra vicino al suo orecchio.
“Ti amo” le dissi per l'ennesima volta, in un sussurro. “Qualsiasi cosa succeda, cerca di non dimenticarlo mai. È l'unica cosa di cui devi essere sicura sempre.”





Ho convinto me stessa che in realtà Callie sia sopravvissuta e Teddy l'abbia aiutata a fuggire in un'isola sperduta per non farla arrestare e che dopo l'interrogatorio abbia portato Arizona da lei...ma questo è un altro discorso...

Comunque...abbiate una buona giornata (e settimana), e premetto che la prossima domenica potrei non farcela ad aggiornare, visto che avrò due esami nella stessa settimana e a malapena sono riuscita a farcela questa domenica...

Alla prossima! :)





  
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