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Autore: AriiiC_    10/02/2013    5 recensioni
Finnick Odair aveva quattordici anni, un bel visetto e tanta paura.
Voleva solo tornare nel suo Distretto Quattro sano e salvo.
Non uccidere.
Finnick avrebbe voluto solo un altro giorno per giocare con Tess nella grande villa sul mare degli Odair. Avrebbe speso un po' del tempo per un'ultima nuotata o una notte sulla spiaggia. Avrebbe costruito una rete e portato a casa la cena come faceva di solito. Avrebbe solo voluto che uno di quegli armadi in prima fila gridasse "Mi offro volontario!", come ogni anno. Ma nessuno lo fece, e Finnick rimase in piedi su quel palco, calcolando quante probabilità avesse di tornare.
Poi, Finnick pianse.
Perchè Finnick era solo un bambino che aveva paura.
[Dal secondo capitolo]
Finnick non aveva scampo, non più.
Finnick aveva voglia di scappare, di correre.
Finnick aveva voglia di urlare al mondo che tutto ciò era ingiusto.
Finnick li voleva condannare.
Finnick voleva essere a casa; voleva morire per tornare vicino al mare in una cassa di legno sporca.
Ma Finnick non si mosse: semplicemente, tacque.
Assaporò ogni respiro preparandosi a quella che sarebbe potuta diventare la fine.
E che gli Hunger Games abbiano inizio, caro Finnick Odair.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Chapter twelve:
 You're in ruin.

 
 







 Un quattordicenne correva, ignaro dei pericoli che avrebbero potuto coglierlo alla sprovvista. Le sue gambe si muovevano rapide sulla terra battuta di quella palude infausta che in un secondo l’avrebbe potuto uccidere. Una voce dentro, però, gli diceva di sorridere, ché tutto sarebbe andato per il verso giusto. E lui attraversava rapido le valli, stando attento a non cadere a causa dell’erba alta. A volte zoppicava un paio di passi incerti, prima di andare avanti verso l’ignoto un po’ più sicuro. Il peso dell’arma gli gravava sulle spalle mentre si muoveva, ma ile sue ginocchia erano forti e lo sorreggevano. In fondo, quella sarebbe stata la sua salvezza: la sua ancora verso la vita. La sua vita nel suo Distretto 4.
 La sua vita, con la sua Tess.
 
 «È nata! – urlò Christopher in preda ad una gioia disumana, che il figlio non aveva mai visto. – Theresa è nata!»
 Il maggiore dei suoi pargoli aveva solo due anni, ma i suoi grandi occhi verdi erano felici tanto quanto quelli del vincitore. Perché Laut glielo aveva detto più di una volta: papà aveva vinto. Ma il ragazzino non sapeva cosa avesse concretamente vinto o meno. Ma gli andava bene così. Alla fin fine, aveva due anni: non poteva importargli veramente.
 Nel Distretto 4, nonostante la ricchezza, le donne usavano chiamare un ginecologo e partorire in casa. Neppure l’egregia e ricca Laut Odair, conosciuta e rispettata da tutti, poteva permettersi di andare in ospedale. L’infermiera di turno aveva biondi capelli che le ricadevano sulle spalle in ricci disordinati e irregolari. I movimenti erano calmi e lasciavano intendere che facesse quel mestiere da tutta una vita. Portava in braccio una creaturina piangente, sporca di rosso. La pose delicatamente sotto il getto d’acqua fresca e si pulì. Ora pareva più tranquilla: il suo respiro era regolare e quasi schematico. Su e giù, dentro e fuori: niente di più naturale. L’uomo dalla chioma chiara le si avvicinò, prendendo lo scricciolo in braccio e stringendolo forte. La presa della minuscola mano della bimba si serrò intorno alla maglia del padre, quasi come se capisse che il sangue che aveva nelle vene era suo. Finnick pensò che non ci fosse niente di più bello al mondo: niente era meglio di Tessa.
 «Finn… – balbettò il trentenne, un po’ spaesato. – Dio, Finn: mi ero scordato di te! Vuoi vederla meglio?»
 Il piccolo si avvicinò piano alla sorella, come se ci fosse un qualcosa di invisibile a proteggerla che lui avrebbe potuto mandare in pezzi. Eppure lei continuava ad avere la sua espressione tranquilla e serena in viso, anche quando lui le s’era messo accanto. Odorava di buono, di pulito e di sicuro. Non sapeva come definire quella precisa sensazione, ma era un qualcosa di assolutamente unico e irripetibile. I suoi lineamenti erano delicati, come dipinti da qualcuno che le aveva voluto bene. Le labbra sottili, il naso leggermente a patata, gli zigomi un po’ tondi e un abbozzo di lentiggini sulle guance. Le sopracciglia le incorniciavano gli occhietti ancora chiusi, mentre le dita piccole erano ancora chiuse intorno alla stoffa bianca mentre la bocca del bimbo s’era avvicinata alla sua. Ora respirava il suo respiro. Erano una cosa sola: stesso sangue, stesso cuore. Niente li avrebbe divisi, pensavano. Quando s’allontanò appena, le palpebre dell’appena nata Tess si spalancarono, soffermandosi sul fratello. Le iridi erano di un azzurro cristallino, quasi innaturale. Tutte le persone che la incontrarono, paragonarono il loro colore al cielo. Solo Finnick appena la vide, pensò istintivamente al mare.
 
 «Corri, forza, Finn: corri.» lo incitò una voce nella sua testa.
 Ce l’avrebbe fatta, se lo sentiva. Per Tess, per il mare. Per riuscire a dimenticare tutto e vivere una vita degna di quel nome. Ma non sapeva ancora che nessuno dimentica mai, quando ci sono di mezzo gli Hunger Games.
 E lui voleva essere l’unico a rimanere in piedi, l’unico in grado di respirare alla fine di tutto quello. L’unico con un cuore ancora battente in petto.
 Ma poi pensava a Kae. Alla sorridente Kae che aveva fatto di tutto per proteggerlo, dagli altri e da se stesso. Pensava ai suoi capelli, alle lentiggini che mille volte avrebbe potuto contare e ricontare senza mai annoiarsi, all’increspatura delle labbra quando sorrideva o parlava. Le mani affusolate e per niente dritte, le guance scavate e ogni altro particolare che solo lui aveva notato. Come sarebbe morta Kae? Chi l’avrebbe uccisa?
 Un ricordo tornò nella sua mente vivido. Il Rosso stava di fronte a lui, un sasso in una mano mentre l’altra stava lungo il fianco. «Sai che non sarò io ad ammazzarla.», aveva sussurrato. Ma la risposta del diciottenne ora gli rimbombava nelle orecchie, chiara e forte: «Sappiamo tutti e due che nessuno la ucciderà, se non lo farà uno di noi. Penso sia ora di andare. Per cosa stai vivendo, Odair?»
 Scosse la testa, quando uno scampanellio gli fece vibrare i timpani. Si stupì della velocità con cui i suoi sponsor riuscissero ad inviargli doni. Aprì rapido la stoffa argentea, controllando per un secondo con la mano di avere ancora il tridente in spalla. Ebbene: l’arma c’era. Non aveva sognato. Trovò una corda spessa e resistente, quasi nera. Evidentemente era creata a Capitol City, perché nel Distretto 4 non ne aveva mai viste di simili. La rigirò tra le dita, osservandola. Potevano essere non meno di cinque metri. Ricordò quello che gli aveva dato Annie, e subito i suoi polpastrelli corsero alla cintura, dove c’era annodato il portafortuna datogli dalla madre. Lo carezzò come fosse un tesoro di valore inestimabile, prima di capire che avrebbe dovuto fare come Laut gli aveva insegnato. Richiuse la pezza intorno al lazo e ricominciò a correre. Le sue gambe si mossero incessantemente, fino a che non trovò un salice su cui rifugiarsi. S’arrampicò fino ai rami più nascosti, dove si sentiva al sicuro. Lì le sue mani iniziarono a muoversi agili e precise, fino a che l’intreccio non prese vita. Osservò la sua rete crescere fino a diventare abbastanza grande da contenere un tributo. Uscì dal suo nascondiglio per sistemare nel prato la trappola, agganciandola ad un meccanismo imparato al Centro d’Addestramento che l’avrebbe fatta scattare.
 Poi tornò su, e attese, muovendo le mani intorno al piccolo laccio che le dita della giovane madre avevano già consumato.
 E attese ancora. L’odore acre dell’aria gli ricordava un altro odore, altrettanto forte, ma ben peggiore.
 E rumori.
 
 Finnick stava montando una barchetta di legno in soggiorno, sul tappeto buono decorato da ghirigori multicolori concentrici che lo avevano sempre incantato, quando il padre, Christopher, era entrato in casa trascinando per un braccio la madre, Laut.
Il bimbo dai capelli biondi lo aveva guardato, prima contento perché finalmente non era più solo, poi impaurito perché l'espressione che l'uomo aveva dipinta in volto era mostruosamente paurosa.
«Stupido bambino, levati dai piedi.» aveva ordinato il padre con un’espressione rabbiosa e allo stesso tempo infastidita. 
Finnick aveva lasciato cadere la sua piccola opera d’arte, stringendo le mani a pugno sul petto, gli occhi verdi grandi dal terrore.

Il primogenito degli Odair aveva nove anni. Tess solo sette.
Nove anni e una paura immane del padre, che ogni volta lo tormentava con una terribile e ferrea morsa allo stomaco.
Fino a che non era cresciuto e maturato troppo velocemente per gli standard di un bambino qualunque, non aveva saputo dargli un nome. Ma quando ciò era accaduto, era infine riuscito a distinguere la differenza tra il bene e il male ma, soprattutto, tra l'amore di un uomo e una donna e il sentimento violento che legava i suoi genitori.
Ma, fino ad allora, avrebbe creduto che sua madre e suo padre veramente si amassero, solo che Christopher aveva qualche problema nel controllare i propri sentimenti e quindi era costretto a sfogarsi in qualche modo.
«Non hai capito, cretino? – aveva sbraitato l’uomo, lasciando un attimo la moglie per raggiungere il figlio ad ampie falcate – Ti ho appena detto di levarti dai piedi: sei forse sordo?!»
«P-Papà...» aveva balbettato il giovane, specchiandosi in due iridi azzurre, rese lucide dal troppo alcol.
Anche questa, però, era una cosa che l'allegro Finnick non sapeva: dall'alto della sua innocente età, credeva che gli occhi luccicanti appartenessero solo al padre della famiglia Odair e che, una volta cresciuto, li avrebbe ereditati anche lui.
«Non fare quella faccia da cane bastonato:  mi dà fastidio! Muovi il culo e sparisci di qui, la tua sola presenza mi disgusta.» aveva detto Chris, irato.
Prima che il bambino avesse avuto anche solo la volontà di rispondere – in ogni caso non lo avrebbe mai fatto: era troppo spaventato anche solo per muovere un muscolo –, Laut era intervenuta, posando una mano sulla spalla del marito al fine di calmarlo. 
«Chris, non urlare al bambino, per piacere.»
Quest'ultimo non si era neanche premurato di darle una risposta: semplicemente; le aveva soffocato la mano in una stretta disumana e aveva ruotato il colpo fulmineo; schiaffeggiandola. «Non dirmi cosa devo o non devo fare, puttana!»
La donna aveva barcollato lievemente e subito si era presa la guancia lesa fra le mani; il labbro spaccato e sanguinante.
Nonostante il dolore il suo viso si era aperto in un sorriso luminoso, rivolto sia a l'innocente Finnick che al marito.
«Finn, tesoro mio, va' in cucina. Tra un po' verrò a prepararti qualcosa da mangiare.» aveva detto.
Il bimbo, ormai precipitato in  stato di panico, si era alzato fulmineamente e subito fiondato nella stanza adiacente al soggiorno: porta chiusa a chiave, finestre sprangate.
Aveva tagliato i suoi contatti col mondo, Finnick, per restare solo, in grazia di Dio.
Ma nella sua solitudine non riusciva a fare a meno di provare ancora più paura.
Perché la solitudine è triste e lui non amava assolutamente essere triste.
Però, se stare solo significava essere al sicuro da grida troppo forti e occhi luccicanti, allora andava bene.
Indeciso sul da farsi, aveva acceso la televisione e messo su la prima cassetta trovata: in fondo, sua madre ne aveva comprate tante di cassette. Cassette belle, di cartoni animati, le quali raccontavano storie di amicizia e felicità.
Storie d'amore, che spesso lo facevano dormire, ma comunque meglio delle trasmissioni capitoline in onda ogni giorno e ogni ora su canali decisamente troppo capitolini.
Solo che ai suoi occhi questa cassetta era parsa subito diversa: innanzitutto era partito l'Inno di Panem, tonante e forte, poi le figure nel video erano sembrate troppo vere per essere solo delle creature fatte al computer.
Poi era accaduto qualcosa di inaspettato: un essere viola – a metà fra una piovra e un gambero – aveva gridato il nome di suo padre con tanta forza che Finnick aveva avuto paura per lo schermo dell'apparecchio televisivo.
«Papà è in un film?» Aveva pensato dunque, pieno d'orgoglio e d'emozione, dimenticando i sentimenti provati poco prima.
Nessuno gli aveva mai detto che Christopher era una star di Capitol City e, a questa notizia, le gemme verdi che possedeva come iridi avevano brillato come mille stelle.
Aveva seguito la pellicola con trepidazione; trattenendo il fiato quando il genitore, allora diciottenne, aveva sgominato i propri nemici (il che comprendeva trucidarli, maciullarli, sventrarli, smembrarli, torturarli, impalarli e cose di quel tipo) in quella fabbrica abbandonata, fino a che non erano rimasti solo in due. La compagna di Christopher lo guardava dal basso dei suoi tredici anni, chiedendo perdono per essere rimasta l’ultima, con lui. Ma il ragazzo pareva avere tutt’altro in mente, quando le corse incontro, tagliandole la testa di netto con la sua ascia. Il bambino osservò tutto sgranando gli occhi ed esultando, con tanto di battito eccitato di mani, quando lo aveva visto vincitore, ricoperto di oro e soldi. Eppure, accanto al giovane Chris Odair, giaceva ancora il corpo minuto, senza testa e biondissimo di quella ragazzina che aveva protetto per settimane, prima di ucciderla. Finnick non sapeva il suo nome, ma avrebbe giurato che fosse Katy. Katy, il nome che l’uomo urlava la notte quando si alzava di botto, correva in cucina e beveva grosse sorsate di liquido trasparente da una bottiglia squadrata. Katy aveva i capelli biondi, Katy era innocente, e il diciottenne lo sapeva. Eppure l’aveva uccisa, perché aveva preferito la propria vita alla sua.
 Stranamente, nei giorni seguenti, il piccolo Finnick Odair non aveva visto che rosso.
 Rosso intorno a lui.
 Rosso su di lui.
 Rosso sul tappeto.

 Rosso sulle sue mani.
 Rosso nei suoi incubi.
 
 Non ci mise molto, la trappola, per scattare.
 Il povero malcapitato era un tributo storpio, iridi scure e capelli chiari che ricadevano sulle spalle. Il quattordicenne lo studiò esitante, indeciso sul da farsi. Non avrebbe creato nessuna sorta di contatto con lui perché non doveva andare come con Calypso. Nonostante sapeva che sarebbe accaduto comunque, voleva prevenire che quello sconosciuto potesse apparire nei suoi incubi. Soppesò la possibilità di lasciarlo andare – era, comunque, un avversario debole – e di ritendere la rete. Ma qualcosa in lui gli diceva che non doveva farlo, ché sarebbe finita male. Scese agilmente dal ramo più alto dell’albero con la sua adorata arma in mano e si posizionò davanti a lui. L’espressione del – forse – diciassettenne mutò in puro terrore. La mano del Figlio del Mare si mosse rapida, colpendo.
 Un rivolo rosso scese dal petto del ragazzo, andando a macchiare il tridente di Finn. I suoi occhi marroni lo guardarono, prima che la pupilla s’ingigantisse, facendoli diventare neri. Il quattordicenne lo osservò attonito, prima che le gocce di sangue scorressero fino al manico dell’arma, sulle dita di Finnick.
 Rosso sul prato.
 Rosso che gocciolava.
 Rosso su di lui.
 Rosso intorno.
 E, per la prima volta in vita sua, Finnick Odair desiderò di essere più simile a suo padre.




























 Adolf's corner.

 Oh, here I am.
 Non ci credo, ma ci sono.
 Non sapevo che scrivere. Quindi flashbacks abbestia ùù
 Grazie a Marti, grazie tanto♥
 Anzi, vi invito dalla sua figa ff sui giochi di Mags, Into the West.
 Il prossimo aggiornamento forse al 17 ;)
 Bascio♥
 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall♥
  
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