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Autore: missohara    11/02/2013    3 recensioni
Elisa fino a poco tempo fa contava le calorie di ogni pasto e quando doveva mangiare vomitava.
Elisa saliva sulla bilancia decine di volte al giorno, e ogni etto perso era un sospiro di sollievo e ogni etto acquistato una sconfitta personale.
Ora no: ora Elisa ha realizzato di voler bene alla vita e ci prova con tutta se stessa, a uscire dal tunnel dell'anoressia.
Ci prova e non sempre ci riesce, e a mille problemi che le martellano in testa.
Francesco è cieco, invece. Francesco non sa muoversi senza un bastone, legge con le mani e troppo spesso è lasciato in disparte perché non ci vede, e troppo spesso si fa delle paranoie inutili per questo.
Francesco ed Elisa. Stesso liceo, stessa classe, tre anni passati a ignorarsi, o quasi.
Lui non la può vedere, lei non vuole che il suo corpo sia visto...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo secondo: quasi amici
“Louis, questo potrebbe essere l’inizio di una grande amicizia.”
(tratto dal film “Casablanca”, 1942)
 
 
(Elisa)
Oggi è il fatidico giorno della pizza e, sinceramente, ho l’estremo terrore di mangiarne anche solo un boccone.
Senza contare il fatto che dovrò uscire, vestirmi magari decentemente, far vedere a tutti il mio corpo….
Dio, quanto sono demente. Le mie paranoie sono tanto ridicole quanto insensate, eppure non riesco mai a liberarmene.
È una bella giornata, tutto sommato. Nel cielo s’intravvede un sole più o meno splendente e l’aria è fredda, ma non troppo.
In casa per una volta c’è anche mia madre, che si aggira in cucina.
Quando le ho detto che questa sera non ci sarei stata, ha tentato di dissimulare lo stupore. Non esco da anni, e penso che la cosa sia abbastanza eccezionale. Mia mamma è contenta, però, perché penso che il suo più grande sogno sia quello di vedermi felice. È l’aspirazione di ogni mamma, il vedere felici i figli nonostante la mia sia sempre stata una madre assente o con la testa altrove.
Sono le quattro del pomeriggio e, stranamente, in casa si respira un’atmosfera serena. Le poche volte che la mamma è in casa a quest’ora finiamo per litigare o per chiuderci in silenzi imbarazzati, perché spesso non sappiamo nemmeno cosa dirci.
Invece oggi no: oggi lei lava le verdure per la cena e canticchia tranquilla un vecchio successo di Battisti. Lui è uno dei suoi cantanti preferiti e le sue canzoni mi accompagnano da sempre. Sono una piacevole costante della mia vita, con le loro melodie spesso fresche e i testi profondi, a non troppo lirici. Preferisco de Andrè a Battisti, perché il cantautore genovese riesce a parlarmi attraverso mille metafore e mi commuove sempre un po’. Mi sento vicina alle sue parole e spesso quando canta di quei suoi personaggi emarginati e realistici, io mi sento compresa. Come se lui, che è morto da un decennio e non mi ha mai vista, potesse parlarmi in una lingua senza tempo.
 
 Io faccio i compiti con la porta aperta, semisdraiata sul letto.
Questa settimana a scuola ci sono state tante, troppe interrogazioni, però sono tutte andate discretamente. Non ho avuto troppo tempo per pensare alla cena con Francesco, Marta e Giacomo. Marta si era dimenticata della cosa, infatti quando stamattina gliel’ho ricordato è caduta dalle nuvole.
Quella ragazza è mitica, comunque.
Quanto a Giacomo e Francesco….  Giacomo mi sorride e mi saluta con la mano tutte le mattine, adesso, e ieri mi ha detto di aver prenotato il ristorante.
Francesco mi ignora, anche perché non potendomi guardare non ce lo vedo a chiamarmi a gran voce, è francamente troppo timido.
Io spesso lo guardo, non vista, e mi soffermo ad osservare i suoi movimenti, quell’attenzione che dedica a percorrere tutto col bastone. È bello, a modo suo, chino sul portatile con le mani che scorrono sulla barra braille. Legge qualcosa che noi non potremo mai capire, e il modo in cui sfiora i caratteri e ne decifra il significato ha acquisito per me, negli ultimi giorni, un qualcosa di magico.
Stasera ho deciso che se annasperà nel tagliare la pizza gli offrirò il mio aiuto, ma senza insistere. Non so quanto ad una persona con un problema fisico faccia piacere essere aiutata, è una di quelle cose che non riesco a capire e per questo a volte temo di avvicinarmi a lui.
Ho paura di ferirlo, di offenderlo, di urtare in qualche modo la sua sensibilità o di ledere il suo orgoglio. Forse questa sera sarà tutto diverso, saremo più rilassati.
Vado in cucina, decisa a dare una mano alla mamma con le verdure. Mi dedico all’affettare carote mentre lei asciuga l’insalata, canticchiando sempre Battisti. Ora è il turno di “Una donna per amico”, che intona a labbra chiuse. È una delle mie canzoni preferite, quella, ha un ritmo dinamico e un testo che riesce sempre a farmi sorridere.
Guardo la mamma, di profilo. Un ciuffo di lucenti capelli castani le cade sulla fronte, conferendole la solita aria un po’ buffa e trascurata. Il grembiule è stropicciato e i capelli raccolti alla meglio, il che fa presumere che non curi i dettagli della propria persona. Non c’è niente di più  vero. Mia mamma è sempre di fretta, sempre con la testa da qualche altra parte, sempre incurante delle piccole cose. Quando ero bambina non era la mamma a farmi scrivere la letterina a Babbo Natale, non addobbavamo l’albero insieme e si dimenticava puntualmente di riempire la calza della befana, o di preparare il calendario dell’avvento. Non penso lo abbia mai fatto di proposito, è che semplicemente tutte queste cose per lei non contavano. Mia mamma è in continuo movimento e lascia una scia di cassetti aperti, rossetti dimenticati e profumo alla lavanda, a casa come in ufficio.
Papà l’ha picchiata spesso, quando ero piccola, perché lasciava un oggetto in giro, non piegava le camicie o scordava di lavare le tazze sporche. Ho passato metà della mia infanzia pulendo ciò che lei lasciava sporco, mettendo a posto quel che dimenticava in luoghi improbabili; tutto, purché mio padre non scatenasse le sue ire contro di noi.
Anche oggi, la mamma ha lasciato il rubinetto aperto e, del tutto incurante della cosa, ha continuato  a centrifugare l’insalata.
“Con chi esci, stasera?”, trilla lei interrompendo la canzone che stava mormorando.
“Con due o tre compagni di classe… andiamo a mangiare la pizza.”, rispondo sbrigativa e già le volto la schiena, per riporre il coltello in un cassetto.
“Oh… Nessun ragazzo in vista, vero?”, chiede sforzandosi che la domanda suoni naturale.
“No che non c’è nessun ragazzo, mamma. Come potrebbe esserci se le mie ossessioni sono il cibo, il contare le calorie o il cercare di fare in modo che la bulimia non prenda il sopravvento?”, vorrei dirle. Vorrei urlarle che è anche colpa sua e di papà, che è colpa di quell’infanzia orrenda che ho passato, che tutto il dolore e la paura provate da bambina mi hanno resa così. Lo vorrei fare per il solo gusto di vederla sbiancare e trattenere le lacrime, in modo da farla soffrire una minima parte di quel che ho sofferto io.
È inconcepibile, lo so. Razionalmente non è giusto, perché lei è stata male quanto me e ne ha passate di tutti i colori. Ma mia mamma è sempre così lontana, così distratta, che a volte provo il desiderio di urlarle addosso tutto il dolore e la sofferenza che ho in corpo.
Invece no, mi limito a scuotere la testa e non dico niente, perché in fondo le voglio bene, o forse perché preferisco il quieto vivere alle tempeste emotive.
Dovrei rompere il silenzio, incoraggiare anche minimamente la conversazione. Solo che la serenità di questo pomeriggio autunnale  si è incrinata, come se fosse una tazza di porcellana sbattuta violentemente contro al tavolo.
Corro in camera, mi chiudo a chiave e accendo l’ipod.
Ho creato apposta una playlist per i momenti così: per quelli di rabbia e dolore insieme, per quelli in cui non mi raccapezzo più e sono così disorientata, con tanta furia dentro eppure altrettanta voglia di scoppiare in lacrime.
Non ci riesco, a piangere. Non ci riesco perché ho pianto troppo, durante la mia infanzia  e durante la mia prima adolescenza. Ci sono solo le canzoni a tenermi compagnia, c’è Cat Stevens che canta la sua “wild world”.
“Oh baby, baby, it’s a wild world…”, recita la canzone. È maledettamente vero, soprattutto nel mio caso.
È un mondo cattivo quello in cui viviamo tutti noi, un mondo selvaggio in cui non c’è giustizia per nessuno. A me questo cavolo di mondo ha portato via un’infanzia e una famiglia, una famiglia di quelle vere. A Francesco ha portato via due occhi funzionanti. È strano che pensi a lui adesso, perché di solito quando mi sento così non penso mai a nessuno, sono esageratamente egoista, almeno a volte.
Deglutisco la rabbia, la tristezza, l’insofferenza per tutto quello che mi circonda. È assurdo come le mie giornate possono prendere pieghe impreviste per una casualità, come la domanda distratta e affettuosa della mamma.
Tolgo le cuffie e mi concentro, creando mentalmente una lista di cose da fare: finire i compiti, fare la doccia, decidere come vestirmi.
L’ultima cosa mi provoca una stretta al cuore.
Se mi reputassi anche solo vagamente carina, cambierei modo di vestire. Mi piacciono le gonne, gli abiti leggeri e colorati, le camiciette bianche molto perbenino e anche i jeans vagamente stretti.
Invece no: nascondo il mio corpo sotto allo strato informe di felpe, tute larghe e maglie lunghe, facendo in modo di apparire il più possibile invisibile.
Di trucco o capelli pettinati in maniera vagamente diversa dal solito, neanche per idea.
Dopo aver finito i compiti mi dirigo sotto la doccia. Mi sciacquo via i residui della rabbia di oggi pomeriggio, sperando che l’acqua possa lavare il mio cattivo umore. Asciugo i capelli molto rapidamente e mi dirigo con passo marziale verso l’armadio. Credo che la mia espressione, in questo momento, sia simile a quella di un condannato a morte.
Osservo i vestiti appesi alle grucce, torturata dall’indecisione. Mi piacerebbe agghindarmi decentemente, per una volta, ma mi vergogno. Eppure l’idea di mettermi qualcosa di sformato mi fa sentire sì più protetta, ma ho paura che Giacomo e Marta possano giudicarmi male.
Anche se alla fine, né l’uno né l’altra fanno particolarmente caso al modo di vestire e Francesco, non vedendomi, non farà caso a nulla.
 
Opto per l’unico paio di jeans decenti che ho, né troppo larghi né troppo stretti e per una camicia celeste, con sopra un maglione abbastanza sformato bianco.
Metto del lucidalabbra, cosa che non faccio, credo, dal giorno della cresima. Per quel che riguarda i capelli, non so proprio cosa fare. Mi piacerebbe avere una bella chioma dorata, da bambola nordica, con tanto di riccioli biondi e lucenti.
Invece io mi ritrovo con dei lunghi spaghetti castani, che mi sfiorano le scapole, pieni di doppie punte. Non sono più rovinati come ai tempi in cui vomitavo, dato che allora perdevo ciocche su ciocche. Alla fine decido di dar ai miei capelli un’energica spazzolata e di raccoglierli in una coda bassa del tutto anonima.
Esco di casa senza salutare la mamma, mentre per le scale incontro mia nonna che sta salendo per la cena e mi rivolge un’occhiata stupefatta vedendomi uscire.
Mi tocca attraversare mezza città a piedi per trovare il ristorante, dato che i soldi per l’autobus li ho dimenticati e ho a malapena quelli per la pizza.
Attraverso le vie più in fretta possibile, dato che il cielo azzurro di oggi pomeriggio ora promette pioggia e di arrivare al ristorante gocciolante e scarmigliata non mi va.
Alla fine raggiungo il locale, trafelata, e noto con disappunto che non c’è ancora nessuno.
Non so se entrare e sedermi, oppure aspettare fuori. Mi rendo conto solo ora che non ho il numero di cellulare di nessuno dei tre, posto che Marta ne abbia uno. Inizio a camminare ansiosa qua e là, sperando che il 21 dicembre 2012 sia anticipato di un paio di mesi, e che improvvisamente finisca il mondo. La mia prima uscita non può andare a finire così, non può!
Nervosamente, giocherello con un laccio della borsa e fisso l’orologio. Sono perfettamente puntuale.
Ed ecco Giacomo. Lo scorgo risalire la strada praticamente di corsa, e salutarmi intimidito.
“Ciao.”, gli dico quando è a portata di voce.
“Nessuno degli altri in vista? Temevo di essere io in ritardo…”, mormora e non mi guarda negli occhi. Dev’essere anche più timido di me, il ragazzo.
“No. Conoscendo Marta è probabile che possa presentarsi a mezzanotte, o qualcosa del genere…”, dico cercando di sciogliere quella strana tensione che si è venuta a creare.
“Francesco dovrebbero portarlo i suoi.”, dice lui.
Stiamo in silenzio. Ci osserviamo reciprocamente con la coda dell’occhio. Lui è alto, terribilmente alto. Ma cammina piuttosto curvo, come se non volesse mettersi troppo in mostra. Ha sempre la testa bassa. Però è carino, più o meno. Ha degli occhi verdi particolari, che nasconde dietro a un paio di occhiali e i capelli pettinati all’indietro.
Non è esattamente il tipo di ragazzo che fa voltare tutte per strada, però nell’insieme non è male.
Lui mi starà osservando e starà facendosi un’idea di me, e la cosa mi mette sempre un po’ a disagio.
Una macchina accosta e ne esce Francesco, muovendo il bastone. Sua mamma da dentro gli dice dove deve andare e lui cautamente ci raggiunge.
“Ciao…”, mormora con voce incolore. Non ha idea di chi di noi sia presente, immagino.
“Ciao Francesco! Ci  siamo solo io ed Elisa e stiamo aspettando Marta…”, Giacomo lo toglie velocemente dall’imbarazzo.
“Ciao”, gli dico.
Ce ne restiamo lì, ad aspettare Marta. Prego Dio che la mia amica sia in grado di sciogliere quest’imbarazzo che c’è fra noi, perché è insostenibile.
Non mi viene in mente niente da dire, nemmeno la più banale delle chiacchere sul compito in classe di filosofia di questa mattina, né niente.
Ed ecco Marta. Arriva con ben diciotto minuti di ritardo, trotterella facendo dondolare i lunghi capelli neri.
Ha indosso i più assurdi vestiti che io abbia mai visto. Porta una gonna che sembra presa dall’armadio di una trisnonna. È ampia, color lavanda e decisamente antiquata e Marta, esile com’è, ci nuota praticamente dentro. Non mi stupirei se odorasse di canfora, se solo l’annusassi.
Sopra Marta indossa una camicia altrettanto assurda, lilla pallido, con delle maniche a sbuffo letteralmente enormi e degli orli di pizzo orribili.
Il tutto è condito da una sciarpa di lana verde, di quelle che a me piacciono tanto, ma che con quest’abbigliamento non c’entrano niente. Sembra un elfo, decisamente.
Giacomo la guarda allibito. Credo sia tentato di spalancare gli occhi e battere le mani, ma non lo fa.
“Ohilà!”, trilla lei frenando il suo trottare davanti a noi.
“Ciao Marta! Come ti sei conciata?”, le chiedo visibilmente stupefatta.
“Oh!  Sai, Guglielmina, un’amica di mia nonna, è andata in casa per anziani e ha lasciato un baule pieno di questi bellissimi abiti vintage… Era un po’ demente, poverina…  e allora ho pensato che tanto valeva impossessarmi dei suoi vestiti!”, dice lei.
“Alla faccia del vintage…”, mormoro.
“Entriamo?”, propone Francesco ed è la prima volta che apre bocca.
Acconsento di buon grado ed entriamo nel ristorante. È decisamente un posto squallido:.ai tavoli di formica bisunta c’è seduta tanta gente che fa chiasso, le luci sono tetre e il posto è male illuminato, nonché sporco.
Ci sediamo ad un tavolo posto in un angolo, probabilmente il più buio della stanza.  Sembro l’unica a far caso alla tristezza del locale, dato che né Giacomo né Marta si sono mai guardati attorno.
Lo stomaco mi si è chiuso ancor di più e la sola idea della pizza mi agita e mi mette tanta nausea.
Ordiniamo da bere le nostre acque e la conversazione langue, finché Marta non accenna un argomento di conversazione:
“Qual è, ragazzi, il vostro sogno? Voglio dire… Quel qualcosa che volete fare nel vostro futuro, che vi renderebbe felici e sperate in tutti i modi di voler concretizzare?”
Ha un talento per le domande assurde, ma belle, Marta. Sono domande che io personalmente farei alla mia migliore amica, non a tre compagni di classe che conosco a malapena.
Marta però sembra assolutamente tranquilla. Ha una mano sotto al mento, in un’espressione concentrata e ci scruta tutti attenta.
Nessuno di noi sa cosa dire, e tutti riflettiamo. È Giacomo il primo a parlare:
“Io voglio suonare. Mi fa star bene e strimpellare sulla chitarra mi immerge in un mondo nuovo, in cui non esistono i brutti pensieri. La musica mi porta via e il resto è così lontano, quando suono. Vorrei farlo per sempre, così da tener lontana ogni preoccupazione. Lo so che non si può fare, ma almeno mi piacerebbe che la musica diventasse il mio lavoro.”, dice e un po’ mi commuove. Quel ragazzo così timido e di poche parole, che non alza mai gli occhi dal quaderno e non si comporta come gli altri della sua età, parla con un’intensità che ho sentito a poca gente.
Decido io di dire qualcosa, adesso:
“Io voglio aiutare le persone che soffrono. Voglio diventare psicologa per sapere cosa passa in testa alla gente, voglio aiutarla a vivere meglio, per quanto possibile. Voglio far capire alle persone che le loro paranoie sono inutili, nella maggior parte dei casi. E voglio, anche se è un po’ presuntuoso da parte mia dirlo, far passare le loro paure, aiutarli a sbrogliare i loro dubbi e lavorare sulle loro insicurezze. Anche se sono la prima che non riesce a psicanalizzarsi da sola.”, dico, e per un attimo mi sembra di essermi tolta un peso enorme dal cuore. È il mio sogno, lo è davvero.
Marta, sorridendo, dice:
“Io voglio scrivere o disegnare, è uguale. Voglio scrivere di universi fatati in cui la magia esiste, in cui i buoni vincono sempre e gli animali parlano. Perché è maledettamente bello sognare, anche se i miei sogni non contemplano grandi ideali né niente. Voglio far sorridere i bambini e i ragazzi con le mie storie strampalate e i miei disegni, perché… Perché i sorrisi, le risate, quei momenti che la gente passa a leggere accoccolata sotto le coperte e si appassiona alle trame, sono unici.”, dice lei e ha un sorriso grande, da bimba, come se in quel suo viso da folletto ci fosse racchiuso un mondo, un mondo luminoso e bello in cui soffrire è impossibile.
La guardo, la mia amica, così esile e buffa che parla del suo sogno con voce lontana, come se fosse già con la testa altrove.
“E tu, Francesco?”, gli chiedo io timidamente, ma sono curiosa.
Lui riflette molto prima di rispondermi:
“Non lo so, Elisa, non lo so. Io un sogno non ce l’ho, non uno vero come la musica di Giacomo o le parole e i colori di Marta. Non voglio fare del bene alla gente come te, Elisa. Vorrei averlo anch’io, un sogno così grande, però adesso no.”, e si ferma. Ho l’impressione che non ci abbia detto niente, niente di quello che in realtà voleva dirci.
“Suoni? Cioè, voglio dire, suoni da qualche parte? In un gruppo, in un bar..?”, chiedo invece a Giacomo.
Lui scuote la testa e ride.
“Figuriamoci… Io parlo tanto, Elisa, ma non avrei il coraggio di andare su un palco. Non sai quante volte mi hanno chiesto di suonare in pubblico, o di far parte di un gruppo, ma io non ho il coraggio. Non mi piace la gente, sapete.”, dice lui.
“Io penso che a nessuno di noi piaccia tanto la gente.”, dice Francesco un po’ incerto.
Ha ragione, lo sappiamo tutti e quattro. Io ho paura delle persone perché mi giudicano, giudicano il mio corpo e dietro alle loro occhiate c’è commiserazione, al massimo pietà sincera.  
Marta non lo so, perché scappa tanto dalla realtà. Non la capisco, lei, a volte. Sembra che dietro a quella sua maschera di ragazza distratta e fantasiosa si celi qualcosa, anche se non so cosa.
Francesco ha paura della gente, lo si intuisce appena lo si guarda. Non parla mai, è sempre nel suo angolino e a scuola cerca sempre di passare il più inosservato possibile, per quanto nelle sue condizioni non sia fattibile. È difficile non notarlo, con il bastone bianco e il computer.
 
E Giacomo… Giacomo è un timido, immagino. È uno di quei ragazzi che non riesce ad identificarsi con la massa o con l’idolo del momento, uno di quelli che non parla mai perché non sente il bisogno di farlo e che usa la musica come solo mezzo di comunicazione.
Il cameriere interrompe le nostre riflessioni. Ordinare la pizza si prospetta un’impresa epica. Marta sceglie una pizza dal nome impronunciabile, guarnita da ingredienti fantasiosi  e inusuali. Giacomo si limita alla più classica delle margherite, e così Francesco.
Io esito e non so cosa fare. Ho smesso da molto tempo di mangiare i latticini e con le cose lievitate non è che abbia un bel rapporto. Alla fine opto per una pizza al prosciutto, al limite potrei mangiare solo quest’ultimo lasciando tutta la pasta intatta, anche se è assurdo.
“Elisa, ma tu di preciso cos’è che hai? Voglio dire… Siamo in banco da una vita e ti vedo tutti i giorni, e tutti in classe dicono che sei anoressica, ma io non li ascolto. Adesso ti vedo ordinare una pizza e non capisco..”, osserva Marta con quel suo tono casuale.
È una buona osservatrice, allora. Penso sempre che Marta sia immersa in un universo tutto suo e non faccia mai caso agli altri, tantomeno a me. Pensavo mi considerasse una persona come tante, quella a cui chiedere gli appunti, e invece pare che mi abbia scrutata più di quanto pensassi.
La guardo, quasi atterrita. Non sono abituata a tanta franchezza, e anche Giacomo e Francesco sembrano stupiti.
Decido di risponderle sinceramente e quando inizio a parlare non mi pesa più di tanto perché so che lei non mi giudicherà mai male, né proverà compassione per me:
“Io soffro di anoressia dalle medie. Per anoressia intendo il voler dimagrire a tutti i costi, il contare calorie, e tante altre piccole cose. Non mi sono mai vista magra, e il primo anno di liceo tutto raggiunse dimensioni troppo grandi. Iniziai a digiunare o a mangiare pochissimo. Non so se ti ricordi, ma ho avuto tantissimi cali di zuccheri, svenivo ed a un certo punto si preoccuparono tutti. Beh, questa cosa è andata avanti per due anni. Poi mi sono accorta che forse tutto questo non andava bene, che io non volevo passare la mia vita a vomitare e non mangiare. Ora sto provando ad uscirne, diciamo così. Ma a volte la forza di volontà e la tenacia non bastano. È per questo che adesso ordino una pizza.”, dico in fretta.
Ho omesso molte cose, non da ultimo il fatto che mangiare certe cose mi fa paura e che spesso ci ricado, nei miei problemi.
Tutti e tre sembrano aver capito tutto, però.
“Mi  dispiace. Per quanto possa suonare assurdo, mi dispiace. Cioè, tu… Tu non te lo meriti, ecco.”, dice Francesco e mi sento arrossire, mio malgrado. È strano come un complimento così timido e abbozzato, sempre che si tratti di un complimento, mi abbia agitata.
Non sento una parola di elogio nei miei confronti da una vita, eccetto le lodi dei professori davanti ai miei bei voti.
***
   
(Francesco)
 
L’ho detto. Ho detto a Elisa quello che penso da quando la conosco e cioè che lei i suoi problemi non li merita.
 Lo penso davvero, infondo. Lei, che ha sempre una parola gentile per tutti e non l’ho mai vista parlar male di nessuno, che ogni volta che le andavo a sbattere contro non si voltava con le sue amiche ridacchiando, o sussurrando: “Oh, poverino”.
Elisa ride.
“Me la sono andata io a  cercare, l’anoressia. Non è un tumore, che ti ritrovi senza averlo né cercato né voluto.”, dice e mi sento così stupido.
Non oso ribattere, ma vorrei dirle che mi dispiace infinitamente lo stesso.
Restiamo in silenzio. Fra noi si è venuta a creare un’intesa, una complicità del tutto strana.
È come se tutti noi, che ci sentiamo costantemente inadeguati, finalmente siamo parte di qualcosa.
“Sarebbe anche ora di parlare di qualcosa di un po’ più frivolo, non trovate?”, ciarla di nuovo Marta. È così buffa e sui generis, eppure è lei ad averci sciolto la lingua, con quelle sue domande assurde.
“Tipo parlare male dei nostri adorabili compagni di classe.”, propone Giacomo sarcastico. Non ha un’alta opinione della gente in generale, lui, figuriamoci dei nostri compagni di classe.
 
“Oh, sì! Sembrano i protagonisti di un romanzo fantasy… Sono tutti dei nani orrendi venuti dalle profondità della terra. Formano degli eserciti, capeggiati da mostri superpotenti. Tipo quel Moccia, quel Justin Bieber, quella Meyer che ha rovinato per sempre la categoria dei vampiri.”, dice Marta e tutti, per l’ennesima volta, la guardiamo con occhi sgranati.
È completamente matta, ma le cose che dice non sono stupide, affatto.
“Quand’è che ti deciderai a vedere la realtà in maniera vagamente più oggettiva, tu?”, chiede Elisa divertita.
“No grazie! A furia di diventare oggettivi si diventa come te, che prendi appunti su appunti, tieni i quaderni in ordine e hai sempre tremila matite disposte in ordine da per fettina sul banco..”, dice Marta ridendo.
“I miei appunti e le mie matite ti fanno comodo, però.”, la stuzzica Elisa e l’atmosfera è di colpo rilassata.
Iniziamo a chiaccherare di tutto un po’. Scopro che Marta oltre a fare domande allarmanti  può anche risultare simpatica e sa veramente parlare di qualsiasi cosa. Giacomo è riservato, come sempre. Dosa con cura ogni affermazione che dice, ma questo comportamento è da lui. Semplicemente, quando pensa che quello che ha da dire sia scontato o privo d’importanza, tace.
Elisa mi piace sempre di più, a ogni frase che dice. Ha un modo di essere sempre così analitica e tranquilla, sia che si stia parlando di un cantante o di un compagno di classe, che mi spiazza. Cerca di vedere le cose da mille prospettive e sembra che, quando parla, veda tutto il mondo buono.
Mi piace il suo modo di essere.  
Mi sorprendo a pensare, e me ne vergogno anche un po’, all’opinione che lei si sta facendo di me. Chissà se le piaccio, se mi trova interessante, o soltanto un ragazzino timido con mille paranoie.
Arrivano le pizze e annaspo nel tagliare la mia. Spero che nessuno mi noti, anche se passo tutto fuorché inosservato.
“Vuoi che ti aiuti?”, è la voce cristallina di Elisa a giungermi. Mi coglie sempre il solito di rabbia quando la gente mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Mi sento tremendamente scemo, quando mi vengono rivolte queste domande e non riesco a pensare che, magari, vogliono solo essere gentili con me.
Però Elisa mi sorprende ancora: “Non volevo offenderti, davvero. Immagino che sentirsi rivolgere domande del genere non sia il massimo. Se vuoi una mano, comunque, io sono qui.”.
Scuoto la testa  e non so cosa dire. Mi affanno ancor di più con le posate e sicuramente starò facendo casino.
 
**
 
(Elisa)
La pizza no. Credo che questo sia davvero troppo, anche per stasera.
Ho chiesto a Francesco se potevo aiutarlo per una pura ragione egoistica, e cioè quella di perdere tempo prima di affrontare quell’ammasso di salsa al pomodoro, mozzarella, prosciutto e pasta che mi ritrovo nel piatto.
Però Francesco ha rifiutato la mia richiesta, e quindi mi ritrovo a fissare la pizza con autentico panico.
È peggio di qualsiasi altra sfida affrontata. Peggio del pandoro con crema al mascarpone di Natale, delle torte di compleanno troppo caloriche, della cioccolata con panna che mi sono forzata a bere in montagna l’anno scorso.
Questa pizza è terribile. La guardo e col passare del tempo il mio odio verso di lei si moltiplica.
Inizio a tagliarla in pezzettini minuscoli, e mi dimentico degli sguardi increduli di Marta e Giacomo. Quando sollevo gli occhi, però, noto che la mia amica sta mangiando di gusto e Giacomo, per discrezione, guarda da tutt’altra parte.
Francesco è alle prese con una pizza che è stata sventrata in pezzi irregolari, e la farcitura si è tutta sparpagliata per il piatto.
È un incubo. Io non posso riuscire a mangiare questa roba, non posso.
È panico quello che sento attanagliarmi lo stomaco, e nel giro di pochi secondi capisco che devo fare qualcosa, se non voglio che i conati di vomito prendano il sopravvento.
“Devo andare in bagno…”, farfuglio e corro via.
Arrivata alla toilette mi rifugio in un cubicolo e mi rannicchio, cercando di calmarmi. È assurdo come una pizza, una banalissima pizza, sia stata in grado di gettarmi in uno stato di ansia così.
Affiorano i ricordi. I ricordi di quando non mangiavo, di quando bastava un banalissimo piatto di pasta a farmi venire la nausea e le lacrime agli occhi. Ho superato davvero tante piccole sfide durante la mia faticosa risalita verso la guarigione.
Questa è una sfida grossa: mangiar una pizza davanti a tutti senza impiegarci troppo tempo né sentirsi male.
Inizio a calmarmi e a dominare le lacrime. Respiro in maniera più regolare e libera, e il nodo allo stomaco si fa meno serrato. Esco dal cubicolo e mi avvio verso il lavandino, dove mi sciacquo energicamente la faccia.
Sto decisamente meglio, quando avverto una mano sulla mia spalla. È Marta, che con un’espressione molto meno distratta del solito, mi fissa attenta.
“Da quanto sei qui?”, sbotto e già mi sento male. Dio, magari ha sentito i miei singhiozzi, ha percepito il mio panico.
“Sono arrivata adesso. Sono secoli che sei rinchiusa qui dentro.”, costata con tutta la tranquillità del mondo.
“Secoli? Ma io…”, inizio a dire qualcosa.
“Volevo solo dirti che non devi mangiarla, se non ti va. Cioè, non è che ci devi fare un favore, mangiando la pizza.”, esclama lei e sorride.
L’impulso di gettarle le braccia al collo e raccontarle tutto è forte, ma mi trattengo.
“Grazie… Forse ne mangerò un pochino lo stesso. Giacomo e Francesco si sono accorti di come sto?”, chiedo ed è una domanda retorica.
“Beh, considera che se una scappa in bagno come una furia o soffre di una forma di diarrea improvvisa e lancinante, o c’è qualcosa che non va.”, sentenzia con tutto il candore del mondo.
“E comunque non faranno commenti su come sei andata via correndo, sta’ tranquilla. Ci sono solo io a romperti le scatole.”, continua lei.
“Grazie…”, è tutto quello che so dire. Sono davvero commossa.
Forse, dietro a quegli occhi sgranati e all’espressione stralunata, dietro a Marta si cela un’amica.
Ci dirigiamo di nuovo in sala e quando vedo la pizza, faccio un sospiro di sollievo e inizio a mangiare.
Non continuo a lungo, sarebbe troppo per me. Ma una fetta l’ho mangiata, e mi sento soddisfatta.
Come se fosse la più epica delle imprese, come se avessi appena combattuto una guerra…. Quando comincio a fare paragoni non la smetto più, e prima di continuare all’infinito nella mia testa a farne cerco di pensare a qualcos’altro.
Francesco sta lottando con uno degli ultimi bocconi di pizza e lo guardo, quasi intenerita, e un po’ di pena – anche se so che non dovrei- la provo.
Giacomo è assorto, come sempre. Non osserva nessuno in particolare, si limita  a tenere gli occhi bassi. Darei qualsiasi cosa per stare nella sua testa e capire a che cosa stia pensando, perché da aspirante psicologa quale sono considero il soggetto interessante, decisamente.
Mi piacerebbe fossimo tutti  aici. Amici davvero, intendo. Di quegli amici che si dvdono spesso, che condividono qualcosa oltre alle chiacchere più banali.
Saremmo un bel gruppo. Non saremmo gli adolescenti più normali e omologati che esistono, però ci terremmo compagnia.
Prendo un respiro profondo e penso che tanto vale tentare.
“Potremmo vederci un’altra volta… Magari per un cinema.”, azzardo intimidita e  subito avrei la tentazione di rimangiarmi la lingua. Perché il cinema? Potevo farmi venire in mente qualsiasi trovata più brillante di questa. Francesco non ci vede, ed io non so precisamente quanti ciechi vadano al cinema.
Non è stata la più delicata delle affermazioni, comunque.
“Volentieri!”, esclama Giacomo stupendomi per lo sguardo entusiasta che mi ha lanciato. Penso soffra tremendamente di solitudine, lui.
“Certo! Francesco, non temere, ti descriverò io tutti i film! Se poi ci aggiungo qualche dettaglio di mia fantasia non ti offendi, vero?”, esclama Marta e la santificherei davvero. Per la seconda volta mi trovo a pensare che forse, a dispetto dello sguardo distratto, capisce la gente tremendamente bene.
Francesco ride e scuote la testa.
“No, non mi offenderò, promesso.”, dice divertito.
Penso che vorrei ancora stare con loro, che nonostante il piccolo inconveniente dovuto alla pizza mi sento bene stando con Marta, Francesco e Giacomo. Non mi sento giudicata, non troppo, e soprattutto ogni tanto sembra che mi dimentichi dei miei problemi.
Non ho amici dai tempi dei primi anni di medie. Dopo le angherie che mi ha fatto subire quella che all’epoca era la mia migliore amica, ho come chiuso il capitolo della mia vita dedicato alle relazioni che non sono semplici conoscenze. Questi tre ragazzi che non sono come tutti gli altri, anzi, sono le prime persone con cui voglio instaurare un’amicizia sincera.
Ho ancora tanti dubbi e tante paure. Mi sento inadeguata, chissà perché, ma spero che passeranno.
Non mi sono accorta che gli altri stanno pagando, e mi accingo a tirar fuori i soldi.
“Io devo andare e anche in fretta. Mi aspettano le mie sorelline, a cui ho promesso di guardare insieme un cartone disney. Prevedo che mi addormenterò appena toccato il divano, ma fa niente!”, trilla Marta e , dopo avermi gettato le braccia al collo in segno di saluto ed aver belamente ignorato i miei occhi sgranati, se ne va.
“Anch’io dovrei andare. Mio padre non vuole che faccia troppo tardi.”, proferisce Giacomo, ci saluta e anche lui sparisce.
“Tu aspetti i tuoi?”, chiedo a Francesco.
“Già. Non so quando saranno qui. Ma tu non preoccuparti, puoi andare, se vuoi.”, dice lui.
“No, figurati. Tanto in casa mi aspetterebbe solo la lavastoviglie da riempire, dato che mia mamma non ne ha ancora capito il funzionamento.”, dico ed è la pura verità.
 
(Francesco)
Elisa mi accompagna gentilmente su una panchina, all’asciutto. Mi guida con voce insicura, come se temesse di darmi fastidio o chissà cos’altro.
Ci sediamo, attenti a non sfiorarci nemmeno un po’.
“Tu… Non hai problemi con i film, vero?”, chiede lei esitante dopo un po’.
“No, affatto. La gente si fa sempre mille problemi per questo, ma a me non è che dia fastidio guardare i film. È più imbarazzante chiedere a qualcuno di descrivermeli, però qualche volta sono andato e mi sono anche pseudo divertito.”, dico
“Alle descrizioni ci penserà Marta. Se all’uscita del cinema dovessi scoprire che il film in realtà aveva una trama del tutto diversa da quella che ti ha propinato Marta, non temere.”, ride lei ed ha una bella risata cristallina, anche se timida.
“Siete molto amiche, voi due?”, chiedo. Elisa e Marta sono spesso insieme, a scuola, ma non mi danno l’idea di essere granché affiatate.
“A dire la verità no. Mi è sempre stata simpatica, l’ho sempre trovata buffa, ma vedi, io non è che abbia intrecciato grandi rapporti con la gente, ultimamente. Tu e Giacomo, invece?”, chiede lei e immagino voglia cambiare argomento.
“Non è il migliore amico da film, non esattamente. Voglio dire, non abbiamo condiviso nessuna delle cose epiche che fanno gli adolescenti, in teoria. Niente prime canne, niente avventure con ragazze, niente vacanze insieme.”, le spiego e ho l’impressione che abbia capito tutto della nostra amicizia, anche fin troppo.
“Né tu né Giacomo siete esattamente i tipi da canne, ragazze o vacanze epiche.”, ride lei.
“Hai ragione. Però gli voglio bene, tanto. Forse lui vuol più bene alla sua musica che a me, non lo so. Però a volte senza Giacomo che mi tiene compagnia e non mi fa sentire diverso, strano o isolato io non so cosa farei.”, le dico e mi accorgo, mentre parlo, che sono assolutamente sincero.
“Non conosco Giacomo, ma penso che ti voglia bene almeno quanto gliene vuoi tu. Solo che non sa dimostrarlo, ecco tutto. O meglio, lo dimostra, ma non te lo dice. Non è il tipo da promesse d’amicizia infinite, e forse è meglio così.”, dice e c’è un velo di malinconia nelle sue parole. Non voglio indagare oltre, penso che Elisa nasconda tanta, troppa tristezza dentro e che se provassi a chiederle qualcosa si chiuderebbe in se stessa.
Dovrei consultarmi con Arianna, lei  conosce la mente femminile sicuramente meglio di me.
Devio la conversazione su un terreno più o meno neutro.
“Sei brava come psicologa. Osservi tanto la gente, vedo. Non oso pensare come mi avrai già psicanalizzato bene.”, dico e lei ride.
“Tendo a guardare la gente e a cercare di capirla, ecco tutto.”, sentenzia tranquilla.
“Il giorno in cui diventerai un medico importantissimo potrò dire di essere stato uno dei tuoi primi clienti.”, dico.
“Io non diventerò mai famosa, neanche come psicologa. Non penso di contare granché da nessuna parte e non credo riuscirò a essere particolarmente brava in qualche campo.”, mormora lei, affranta.
“E perché non dovresti diventare una brava dottoressa, scusa?”, chiedo sinceramente stupito. La conosco poco, eppure mi è sembrata sensibile ed intelligente, e una psicologa deve avere queste doti.
Penso che se la vedessi in viso, scorgerei a questo punto un’ombra di tristezza e degli occhi rabbuiati.
“Perché ogni volta che sembro afferrare un sogno, o raggiungere qualche obiettivo, questo si sgretola.”, dice lei e il suo tono è tanto serio e amaro da lasciarmi a bocca aperta.
Vorrei porle tante domande. Vorrei ascoltare quella storia triste che, ora ne sono sicuro, è stata la sua vita.
Non faccio niente di tutto questo. Ascolto il silenzio pregno di pioggia, annuso l’aria densa e vorrei dirle qualcosa, qualsiasi cosa.
“Guarda, i tuoi genitori!”, esclama lei con tono improvvisamente animato.
Mi accompagna gentilmente alla macchina, ed io immagino già mia mamma guardarla con occhi adoranti.
Prima di salire in auto, mormoro un: “Ci vediamo presto.”, e lei mi stringe un po’ più forte il braccio.
La lascio lì, con in testa chissà quali pensieri, e non posso fare a meno che la sua immagine di ragazza triste e dolce insieme mi si fissi in testa.
 
 
All these years I've been wandering around,
Wondering how come nobody told me
All that I was looking for was somebody
Who looked like you.
 
Tutti questi anni ho vagato in giro
Chiedendomi come mai nessuno me l’avesse detto
Tutto quello che stavo cercando era qualcuno
Che fosse come te.
(I’ve got a feeling, the Beatles)
Note:
Quasi amici: stupendo film uscito a fine 2011, chi non lo avesse ancora guardato deve assolutamente farlo.
Allora, allora, allora.
Sono riuscita a scrivere il capitolo, iniziavo seriamente a dubitare delle mie capacità di autrice.
Ci tengo tanto, a questo capitolo. Tengo a Elisa, in primis, perché ormai scrivere immedesimandomi in lei mi è naturale. E a Francesco, perché scrivere di un personaggio che ha il mio stess problema è un’esperienza strana, ma bella.
Che dire? C’è tanta amicizia, fra questi quattro. Sono “quasi amici”, come ho scritto nel capitolo. Perché sì, la loro per il momento non è la più epica delle amicizie, ma va bene così.
Marta e Giacomo sono unici, semplicemente. Di loro parlerò presto, molto presto, anche se prima dovrò scrivere alucni capitoli-flashback che parlano dell’infanzia dei vari personaggi, erché credo le cose risulteranno più chiare.
La prima parte del capitolo, con protagonista Elisa, è un assaggio di quello che lei ha dovuto subire. Il padre violento, la madre vittima insieme a lei di queste violenze, l’infanzia privata di qualsiasi gioia.
 
Ha vissuto nel terrore per anni, lei, e presto ovrete capirlo.
Però ora c’è Francesco, con lei. Francesco che le parla con tanta timidezza e tanta sincerità insieme, e che un po’ di Elisa è già innamorato perché quel suo essere tanto fragil risveglia, anche se in modo non proprio eclatante, il suo istinto di protezione.
Beh… spero sarete in tanti a recensire!
Baci
Ceci
  
   
 
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