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Autore: Gweiddi at Ecate    11/02/2013    4 recensioni
dedicata a Laica ed e r a t o
Nove anni dopo il sacrificio di Apollo, Sirius e Toma, c'è chi continua a vivere, e chi cerca disperatamente di farlo a sua volta.
"Non c'è niente."
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Apollo, Silvia de Alisia
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Say my name






Alzò lo stivale dalla pozzanghera di fango con uno sbuffo.
«Attenta qui, si scivola.»
La voce di Gen era avanti di qualche metro e Sophia sollevò lo sguardo dall’apparecchio che teneva in mano.
L’uomo la stava aspettando in piedi su un masso che fuoriusciva da terra, in una spianata di fanghiglia e ghiaccio.
Il terremoto che aveva rischiato di spaccare la Terra dieci anni prima aveva devastato i resti dell’antica Shagri-La. Faceva molto più freddo dell’unica volta in cui Gen le aveva mostrato quelle rovine mozzafiato, e il fiato le si condensava davanti alla bocca.
«Il terremoto deve aver intaccato il nodo di chakra su cui era stata creata la città. Per questo la temperatura è così bassa.» le disse il compagno, rispondendo alla domanda di Sophia prima ancora che lei potesse porla.
A volte la inquietava il modo di fare di Gen, come se potesse leggerle nella mente.
L’uomo sollevò il capo, attirato da un rumore che solo lui sembrava aver udito.
«Andiamo, si sta facendo più forte.»
Sophia controllò lo schermo del ricettore, e notò effettivamente un’onda gialla vibrare su tutto lo sfondo nero. L’onda di energia toccò i bordi dello schermo e poi scomparve, seguita pochi secondi dopo da un’altra. Il rilevatore segnalava un aumento infinitesimale nella portata di energia della seconda onda.
La donna raggiunse il comandante, che le porse la mano per aiutarla a camminare sul suolo ricoperto di ghiaccio e pietrisco.
«Hai avuto notizie di Apollo?» domandò cauta, scavalcando le macerie di un grande pilastro zigrinato crollato a terra.
«No. Da quando ieri siamo entrati a Shangri-La non ho più potuto chiamarlo. Ma per ora non ci sono problemi.»
Gen rispose freddamente, continuando a guardare dritto davanti a sé. Sophia aveva scoperto che era un comportamento che tendeva ad assumere quando si sentiva minacciato.
Non proseguì oltre, capendo che l’uomo doveva essere già sufficientemente preoccupato di suo, senza che Sophia chiedesse altro riguardo il ragazzo.
Per tutto il giorno prima i due avevano cercato entrate per la vecchia città che non fossero franate nel corso degli anni. Il terremoto prima della resurrezione dell’Albero della Vita, e l’ultima battaglia con gli Angeli delle Tenebre avevano causato gravi danni in tutto il mondo, ma l’antica Shangri-La era un segreto di Stato che l’amministrazione aveva lasciato da parte, una volta passato il pericolo degli Angeli, e quindi nessuno si era impegnato a rendere i ruderi accessibili. Era già giunta la sera quando lei e Gen erano riusciti a trovare un’entrata, e si erano accampati una volta arrivati alle porte della città.
Da alcune settimane Yggdrasil generava ondate anomale di energia, che Gen aveva percepito come un coro estraneo nell’Equilibrio, e si propagava dalla vecchia Shangri-La. Inizialmente erano state onde rare e deboli, arrivavano ad essercene al massimo una o due al giorno di udibili a chi, come il comandante, aveva passato secoli e millenni ad affinare le potenzialità del proprio chakra. Ora che i picchi di energia erano aumentati, lei e Gen si erano addentrati nella città, approfittando della lontananza di Apollo, e da quella mattina stavano cercando l’epicentro delle onde.
La voce di Gen proruppe nel silenzio come una martellata.
«Il tempo avanza, ed Apollo somiglia sempre più ad Apollonius.»
Il suo tono risuonava distante, come se stesse attingendo a ricordi antichissimi e quasi perduti. «Anche Silvia è più simile alla guerriera che è stata dodicimila anni fa. Sono più forti, e caparbi. Dopo molti anni stanno diventando consci di chi sono veramente.»
Sophia osservò Gen camminarle di fronte. Quando erano solo loro due, a volte Sophia scordava chi fosse l’uomo con lei e per quanti anni avesse vissuto in quel mondo. Nei primi giorni la verità su Gen l’aveva messa a disagio, prima di comprendere che il passato del suo compagno non ne alterava il presente.
«Non saprei, Gen. Non so come fossero Apollonius e Celiane.» lo disse sorridendo, e una nota di divertimento dovette trasparire dalla sua voce perché Gen si voltò sorridendole a sua volta.
«Giusto. A volte dimentico che non li hai conosciuti. Eccone un’altra.»
La avvisò in tempo dell’arrivo di un nuovo picco di energia. Sophia controllò il ricettore di chakra e ne controllò portata e posizione. Un altro lieve aumento, maggiore del precedente.
«Viene da lì.»
Indicò un punto avanti a loro, di poco sulla destra. In lontananza si vedeva una struttura alta che brillava.
Gli occhi di Gen si illuminarono di comprensione.
«Ho capito dov’è.»
Scavalcando alcune macerie, arrivarono finalmente al centro della città.
Lì, sopra un piedistallo bianco, le statue immense di Apollonius e Celiane svettavano ancora immutate. Nessun segno della devastazione e dello scorrere del tempo che aveva vituperato la città sembrava aver intaccato le loro effigi.
«Sono ancora stupendi.» Sophia ammirò le statue a bocca aperta, e tese una mano per toccare la superficie liscia delle sculture.
Il rilevatore continuava a ronzare. La scienziata diede uno sguardo e si voltò verso Gen.
«Ora che facciamo?»
Lui poggiò a terra la sacca che gli pesava su una spalla, e rivolse gli occhi ad Apollonius e Celiane.
«Aspettiamo.»






Apollo scese dall’aereo piuttosto frastornato. Non aveva mai sofferto di mal d’aria, ma probabilmente era stata la birra scadente che aveva bevuto sul volo a dargli la nausea.
Aveva anche mal di testa. Ormai era quasi un mese che gli serrava il cranio e non se ne andava mai, semplicemente si faceva più lieve o più forte a seconda dei momenti. Poi lui se ne fregava e faceva comunque quello che voleva, ma più di una volta si era rifiutato di accompagnare Anya in qualche commissione perché temeva di potersi sentire male alla guida, e pazienza se si fosse fratturato qualcosa lui, ma non si sarebbe perdonato neanche un graffio sul braccio della sua amica.
Oltre il gate, i genitori di Bran insieme a Shana, la sorella di Natsu, li stavano aspettando per portarli a casa.
Fudo non c’era, ma questo il ragazzo già lo sapeva: ultimamente il vecchio lo chiamava una volta al giorno tutti i giorni, ma non si faceva vedere da un po’.
La cosa che Apollo non aveva previsto, fu la fitta di nostalgia che provò per l’assenza di Silvia.
Il giorno dopo lei doveva essere allo studio come sempre, e per questo era stato Apollo stesso a dirle di non venire all’aeroporto a mezzanotte solo per salutarlo, inoltre aveva ancora gente a casa, amici dei tempi della Guerra. Persone che teoricamente anche Apollo avrebbe dovuto ricordare, e che pure restavano intrappolate nel buco nero che da qualche parte gli stava mangiando il cervello.
Sospirò, e mise le mani nelle tasche dei cargo, giocherellando con i pesi familiari del cellulare e delle chiavi di casa. Era stanco, lo zaino con la roba per il viaggio gli pesava sulla spalla.
Salutò gli amici. Natsu sollevò sua sorella da terra, stringendola in un abbraccio soffocante. Lei rideva, e Reiji li guardava esasperato. Vivevano insieme tutti e tre da quando sette anni prima Natsu aveva litigato con i genitori, e Shana per protesta l’aveva seguito fuori di casa. Reiji al tempo aveva un appartamento con un affitto troppo  alto per una sola persona, e così si erano risolte le cose. E meno male, perché né Natsu né Reiji avrebbe saputo cuocere un uovo, mentre Shana era una cuoca provetta.
Apollo invidiava un po’ il rapporto fraterno di quei tre. A volte avrebbe voluto avere anche lui una persona con cui aver condiviso così tanto, e forse da qualche parte c’era pure stata, ma la sua testa si rifiutava di dirgli chi fosse. Pensò ad occhi verdi e un viso lentigginoso, e per la prima volta un nome gli affiorò sulle labbra.
«Baron.»
Lo sussurrò piano, assicurandosi che suonasse bene, e gli parve il nome giusto. Esultò dentro di sé, ma provò pure un brivido freddo che gli percorse la schiena.
Sospirò. Aveva bisogno di vedere Silvia.
Sedette a cavalcioni della moto che aveva lasciato nel parcheggio sotterraneo dell’aeroporto, e guardò l’ora sul cellulare. Mezzanotte e mezza. Magari era ancora sveglia, o aveva dimenticato il cellulare acceso di fianco al letto.
Provò a telefonarle.
Uno squillo. Due squilli.
Forse avrebbe dovuto lasciar perdere e aspettare il giorno dopo. Poteva andarla a trovare allo studio, quando chiudeva per l’ora di pranzo.
«Apollo, sei tu?»
«A meno che qualcuno non mi abbia rubato il telefono, direi di sì.»
Uno sbuffo. Magari una risata trattenuta.
«Senti, possiamo vederci?»
«Possiamo vederci?»
Lo chiesero all’unisono, e Apollo sorrise.
«Quando vuoi.»
«Adesso. Puoi venire adesso?»
La voce di Silvia era agitata, il ragazzo se ne accorse solo in quell’istante.
«Ehi, va tutto bene?» si preoccupò per lei. Desiderò esserle già a fianco e poterla stringere. Dannazione com’era peggiorato. Ora gli bastava passare pochi giorni distanti per sentire la necessità di riavere Silvia con sé. Non si riconosceva in tutto quel bisogno, quel sentimento, eppure gli era talmente naturale. Silvia era speciale.
«No. Cioè, sì. Per favore.»
«Va bene, dimmi solo dove e arrivo. Stai male?»
«Sono a casa. Conosci la strada?»
Apollo rise sommessamente, ma si innervosì. La ragazza aveva preferito evitare che lui andasse a trovarla dove viveva. C’era davvero qualcosa che non andava.
«Silvia, tu vivi in un’attrazione turistica. È come chiedere ad un romano se sa dove sia il Colosseo.»
«Ci sai arrivare?» insistette lei.
«Dammi venti minuti e arrivo.»



***



Silvia non si pentiva di aver finalmente detto la verità ai suoi amici.
Lì, nel giardino delle rose che Sirius aveva tanto amato, due notti prima aveva confessato di aver visto Apollo una prima volta ancora quell’inverno, eppure no, non aveva detto loro nulla. Poteva essere tante cose, e troppe di queste rischiavano di rivelarsi mere illusioni. Era rimasta in silenzio.
Ma poi l’aveva incontrato di nuovo, e lui era vero: Apollo era tornato sul serio, era vivo, concreto, tangibile, reale.
No, non aveva detto nulla nemmeno allora, perché il ragazzo non ricordava. Non sapeva chi lei fosse. A tratti sembrava che non sapesse neppure chi fosse lui in prima persona, e quella cosa l’aveva spaventata, perché l’amnesia di Apollo strideva: ogni volta che uno dei due nominava qualcosa che il giovane avrebbe dovuto ricordare, Silvia udiva come un grido soffocato, e a lei sembrava di impazzire, specialmente per colpa di quella telefonata del comandante che le ordinava di non dire assolutamente nulla ad Apollo riguardo il loro passato.
Sì, il comandante, proprio lui. Era l’uomo che per otto anni aveva fatto da tutore e padre al loro amico, e forse era persino il solo a capire cosa stesse succedendo. Per mesi, lei e Rena avevano unicamente potuto supporre, le poche volte in cui Silvia si era sentita sufficientemente lucida da esaminare la situazione.
In verità cercava di non pensarci. C’erano troppi dubbi ed ombre scure, mentre la principessa era così follemente grata di poter guardare Apollo negli occhi e stringergli la mano. Si era permessa di cullarsi un po’ in quella felicità.
Apollo era cambiato, era cresciuto, e lei si era innamorata di nuovo, con la stessa forza e tenacia con cui si era innamorata di lui tutte le volte precedenti.
Silvia aveva mentito, dicendo alla sua famiglia che stava frequentando alcuni vecchi amici. Si era sentita in colpa per questo, ma aveva perseverato in quella bugia perché non avrebbe saputo spiegare ai ragazzi quanto fosse importante non dire nulla ad Apollo della sua vita prima della Guerra. Nemmeno lei riusciva a spiegarsi interamente il motivo di quel veto, sapeva solo che esisteva, ed era vitale rispettarlo.
Solo che ormai non ce la faceva più. Aveva già deciso di confessare tutto quella sera, almeno ai suoi amici se non ai piccoli, però poi Sophia le aveva telefonato.
Silvia aveva parlato con la donna ed il comandante, e loro le avevano finalmente rivelato quel che stava succedendo ad Apollo: l’anima di Apollonius era integra dentro di lui, e la parte angelica stava soffocando quella più umana. Per questo la sua memoria era bloccata, ma sforzarlo a ricordare lo avrebbe ucciso. Ogni tanto qualcosa tornava, ma erano solo briciole in confronto a tutto ciò che aveva dimenticato.
Silvia era scoppiata di nuovo in lacrime a quel punto, soffocando mentre diceva a Pierre, Reika, Chloe e Rena che se Apollo non avesse riacquisito la memoria a breve, sarebbe morto comunque, e loro non potevano fare nulla. Solo aspettare, e pregare chissà quale dio.
Se non avesse avuto i suoi amici a fianco in quel momento, e nei due giorni seguenti, la principessa non sapeva come sarebbe potuta uscirne.
Erano stati gentili con lei, non le avevano fatto colpe per aver nascosto loro la verità per così tanto tempo. L’avevano abbracciata e consolata, e Silvia si era lasciata abbracciare e consolare.
Quella notte nessuno di loro aveva dormito.
Reika e Rena avevano lasciato la stanza di Silvia alle prime luci dell’alba, quando la principessa si era addormentata dopo aver tanto pianto, calmata dalla soave ninnananna della bimba albina.
Reika era entrata nella sua camera, e aveva cercato nell’armadio, finché una scatola le era tornata tra le mani. Aprendola, un tesoro di fotografie e piccoli oggetti si era rivelato al suo sguardo: tutti i suoi ricordi della Deava, che aveva raccolto e seppellito sotto maglioni vecchi in modo da non esserne più tentata.
Aveva accarezzato tra le dita una bambola, alcune vecchie lettere. La più bella fotografia che avesse, quando lei, Sirius e Glen erano ancora insieme, fieri di essere un squadra. Poi aveva preso tra pollice e medio una rosa secca, sollevandola con la maggior delicatezza possibile. Le era parso quasi che avesse ancora lo stesso profumo del giorno in cui Sirius l’aveva colta.
Qualche ora dopo Rena era venuta a chiamarla per la colazione, e l’aveva trovata ancora lì, seduta ai piedi del letto, con il fiore morto in mano.
Nella loro stanza, Chloe e Pierre erano rimasti svegli a bisbigliare, a chiedersi come fosse per Silvia ritrovare il suo grande amore, e poi rischiare di perderlo senza poter fare nulla di concreto per salvarlo. Avevano i brividi a pensarci.
Forse avrebbero potuto incontrarlo. Sarebbero stati attenti, non avrebbero parlato di quei ricordi che lui non aveva, ma magari vedere loro e Reika e Rena avrebbe potuto smuovere qualcosa. E poi Apollo sarebbe stato salvo, e anche i bambini avrebbero potuto riabbracciarlo senza rischiare di vederlo più sparire.
Gliel’avevano proposto quel pomeriggio, quando anche Silvia si era svegliata ed era andata in giardino dove Pierre, Hanata e Megane stavano giocando a pallone. L’uomo aveva delle occhiaie profonde quanto la moglie, ma rideva, e faceva del suo meglio per spiegare ai ragazzi come migliorare alcuni tiri.
Chloe si era avvicinata a Silvia e le aveva sussurrato la sua idea. La principessa aveva annuito, e l’aveva ringraziata con un barlume di sorriso in volto.
Per Silvia sia quel pomeriggio che il giorno dopo erano scivolati via come acqua. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era Apollo, e a come desiderasse essere con lui. Non sarebbe riuscita a mascherare facilmente il suo stato d’animo con i ragazzi, specialmente Chibiko, se Chloe non l’avesse distratta il più possibile, aiutando le ore a trascinarsi più in fretta, insieme ai pensieri cupi.
Quella notte era stesa a letto, nascosta sotto le lenzuola, e stava per telefonargli quando arrivò la chiamata di Apollo.
«Apollo, sei tu?»
Era stupido chiederlo, ma per un momento aveva temuto di sentire un’altra voce. Un medico. Un poliziotto. Forse Apollo si era sentito male e ora qualcuno aveva recuperato il suo cellulare per avvisarla. Magari Bran o Natsu.
La risata del ragazzo all’altro capo del ricevitore le aveva liberato il cuore da un peso.
«A meno che qualcuno non mi abbia rubato il telefono, direi di sì
Rise anche lei, rischiando di collassare e piangere di nuovo. Aveva già versato fin troppe lacrime negli ultimi due giorni.
«Possiamo vederci?»
Sorrise ancora udendolo chiederle la stessa cosa in contemporanea.
Silvia strinse il lenzuolo bianco ricamato con la mano libera. Ad ogni secondo aumentava l’urgenza di vederlo.
«Quando vuoi.»
La voce di Apollo era gentile e calma, dolce. Immaginò che anche lui stesse sorridendo.
Sfregò le gambe tra di loro. Si chiese se sarebbe stata in grado di attendere la mattina successiva per vederlo.
«Adesso. Puoi venire adesso?»
Fu troppo precipitosa nel rispondere, perché Apollo si preoccupò.
«Ehi, va tutto bene?»
«No.» aveva troppo bisogno di stringerlo, toccarlo, assicurarsi che fosse ancora vivo e lì con lei «Cioè, sì. Per favore.»
Silvia si morse il labbro e si maledisse. Chissà cos’avrebbe pensato, sentendola così agitata. Le spiaceva, ma non riusciva ad acquietarsi.
«Va bene, dimmi solo dove e arrivo. Stai male?»
Sì, lo stava impensierendo, eppure non se la sentiva di mentire e dirgli che era tutto a posto. Non lo era.
In malora anche i suoi fermi principi di non rischiare mai che i bambini lo vedessero. Tanto a quell’ora erano già tutti a letto, magari bastava che lei e Apollo non andassero al piano di sopra e non avrebbero corso rischi.
«Sono a casa. Conosci la strada?»
Il ragazzo ridacchiò, ma era nervoso.
«Silvia, tu vivi in un’attrazione turistica. È come chiedere ad un romano se sa dove sia il Colosseo
«Ci sai arrivare?» insistette.
«Dammi venti minuti e arrivo.»
Silvia riagganciò la chiamata con un fremito. La serata era fresca, una di quelle che preannunciava la fine dell’estate, eppure non era stata l’aria a farla rabbrividire. Era l’istinto a metterla in agitazione.
Scese dal letto, e uscì dalla stanza in silenzio, a piedi nudi per non fare rumore sui pavimenti in marmo freddo.
Trattenendo il fiato passò davanti alla camera di ognuno dei ragazzi e sbirciò dentro. Stavano tutti dormendo. Maji e Chibiko erano nello stesso letto, e in mezzo a loro si era accoccolata Lise, stringendo la mano di Maji nella sua più piccolina.
Megane si era addormentato con la luce ancora accesa e un libro aperto appoggiato sopra il petto, mentre nella camera attigua Hanata russava piano.
Silvia si sentì rassicurata da quella calma notturna e tornò alla sua stanza. Prese il cellulare e il comando del cancello, poi corse fuori.
Mentre percorreva i gradini, il maniero stava sussurrando piano, ma la principessa non si fermò ad ascoltare i rimbombi stanchi delle pareti.
Il portone dell’atrio all’ingresso era pesante e cigolava. La pelle di Silvia si accapponò allo stridio rugginoso dei cardini, ma per fortuna non c’era nessun orecchio che potesse incuriosirsi per il rumore. Per non rischiare, uscì comunque senza richiudere il portone.
Quando poggiò i piedi sulla pietra ruvida dei gradini esterni e poi l’acciottolato del vialetto, ricordò di essere ancora scalza, ma era troppo nervosa per tornare dentro casa a prendere delle scarpe.
Controllò nervosamente l’ora e si affrettò al grande cancello che bloccava l’ingresso al castello. Camminò avanti e indietro per alcuni minuti prima di accorgersi che i venti minuti erano già passati e Apollo era in ritardo. Scaldò le braccia lasciate scoperte dalla sottoveste di raso, strofinandoci le mani, e si impose di attendere.
Era quasi sul punto di chiamarlo quando sentì il lontananza il rumore della sua moto. Azionò il cancello, che si aprì lentamente e con un vago ronzio metallico.
Dovette arretrare di alcuni passi quando Apollo arrivò. Il fragore del motore truccato era assordante nella quiete notturna.
Il ragazzo alzò il casco e spense la moto. Prima ancora che potesse scendere, Silvia gli corse incontro, abbracciandolo. Il casco che Apollo aveva appoggiato sulla fronte rotolò a terra nello slancio.
«Sono qui, principessa. Che cos’hai?»
La strinse a sé mentre la ragazza tratteneva il fiato.
«Silvia, sono qui. Calmati.»
I guanti da motociclista creavano attrito sulla pelle liscia della principessa, ma non per questo Apollo smise di accarezzarle la schiena.
«Scusa. Scusa, io… non so cosa mi sia preso.» mormorò mortificata.
Silvia cercò di farsi da parte e respirare, vergognandosi per la reazione inconsulta, ma il giovane le prese il viso tra le mani.
«Ehi, va tutto bene. Ti sono mancato così tanto?» la prese in giro, sorridendo.
Lei rise, anche se a fatica «Sono sciocca, vero?»
Apollo le baciò la fronte e la lasciò andare.
«Cercherò di sopportarti. Hai un posto dove posso lasciare la moto?» si guardò intorno, dove i giardini e l’ombra scura del maniero occupavano la vista «Beh, certamente hai un posto dove lasciarla.»
Silvia annuì e ridacchiò. Ora che Apollo era con lei, si sentiva come se tutto andasse per il verso giusto. Raccolse il casco da terra e accompagnò il fidanzato al garage, premendo il telecomando per aprire il basculante.
«Wow, mi aspettavo una specie di magazzino pieno di auto d’epoca, sai?» disse il ragazzo, guardando incuriosito la fila di vetture parcheggiate.
Silvia appoggiò il casco di Apollo sul cofano della sua macchina.
«Non ricordo se ce ne siano mai state, ma anche se fosse, sono state perse nell’incendio in cui sono morti i miei. Greta, August e qualche cameriera vivono qui, quindi ci sono anche le loro auto. »
Apollo lasciò la moto di fianco alla macchina di Silvia, e appoggiò lo zaino su un ginocchio, iniziando a rovistare tra le magliette stropicciate.
La ragazza guardò interessata.
«Che fai?»
«È una sorpresa.» rispose, sorridendole. Afferrò qualcosa all’interno dello zaino e la guardò negli occhi.
«Dammi un bacio, e ti do il tuo regalo.»
Silvia gli rivolse un’occhiata scettica «Non so ancora cosa tu mi abbia regalato.»
«Dammi un bacio, e lo saprai. Ehi, che stai facendo?»
La principessa stava fissando lo zaino di Apollo, che sfuggì dalla presa del ragazzo e atterrò tra le braccia di Silvia.
«Questo è sleale!»
Lei scrollò le spalle, sorridendo con superiorità «Il tuo era un ricatto.»
Apollo stringeva ancora in mano la riproduzione di una donna avvolta in una lunga tonaca bianca, e da dietro le spalle magre ali d’angelo proteggevano la sua figura esile e snella. Il ragazzo si accorse degli occhi sgranati con cui Silvia fissava la statuetta.
«Quando l'ho vista ti ho pensata.» spiegò. La giovane allungò le dita verso l’angelo.
«Una volta ti ho regalato qualcosa di simile, vero? Eravamo su un balcone, ed era sera. Io stavo male.» sussurrò con voce distante.
Silvia fece due passi avanti, sorridendo dolcemente «Sì. Sì, è vero.»
Gli prese la statuina dalle mani e lo baciò, rabbrividendo. Si appoggiò completamente a lui, e il ragazzo inspirò forte, afferrandola per i fianchi e stringendola a sé.
In momenti come quello era come se tutti i tasselli della loro vita andassero a posto, perfetti, ed era impossibile immaginare il pericolo che stava inghiottendo Apollo, all’oscuro di tutto.
Non esisteva nulla che potesse separarli.
Silvia lo baciava, e dentro di lei scattò il ricordo di quell’ultimo giorno, dieci anni prima. La Nuova Era dell’Alta Genesi, il fragore del pianeta che si spaccava, e il calore delle labbra di Apollo sulle sue, la voce dolce del ragazzo che la salutava prima di sacrificarsi per l’Albero della Vita.
Sentiva lo stesso sapore sulla lingua, provava il medesimo tepore contro la pelle, e il cuore batteva ancora all’impazzata come se volesse scoppiare.
Non poteva perderlo di nuovo. Non ancora. Avrebbero dovuto essere vecchi e stanchi e pieni di acciacchi quando si fossero separati per l’ennesima volta, e avrebbero saputo che c’era sempre la possibilità di incontrarsi ancora, e passare un’altra vita insieme.
Una lacrima le scivolò lungo la guancia e Apollo la asciugò con il pollice, accigliandosi.
«Che succede, Silvia?»
La ragazza stringeva l’angelo in mano.
«Ho paura che un giorno tu vada via.»
Apollo sorrise «Tu sei pazza. Io sono qui adesso, e non voglio assolutamente andarmene.»
Lei annuì «Lo so. Ma tu non andartene.»
Il giovane si abbassò e poggiò la fronte su quella di Silvia, e le strinse le braccia attorno alla vita.
«Non lo farò.»
Il respiro di Apollo sulle guance le scaldava il viso, e la principessa si aggrappò a quella sensazione intima. Con la mano libera afferrò la destra di Apollo e arretrò verso l’uscita del garage, camminando all’indietro per non smettere di guardarlo.
«Dove mi porti?» le chiese.
La sua ragazza sembrava ancora più nervosa di prima, ma gli occhi le brillavano, non si capiva se per la paura o per altro.
Silvia inspirò profondamente un paio di volte prima di rispondere, ma sorrise quando lo fece «Resta con me stanotte.»
Apollo si bloccò, e tirò la principessa a sé. In un altro momento avrebbe colto l’occasione al balzo, ma il comportamento di Silvia lo frenava.
«Adesso mi vuoi dire che succede?»
«Ho paura.» ammise lei flebilmente.
«Ti ho già detto che non me ne vado.»
Silvia pestò un piede a terra per la frustrazione «No, ma… maledizione, Apollo, non possiamo andare di sopra e basta?»
Lui abbandonò la presa sulla sua mano «No. Tu stasera non stai bene, e non voglio stare con te se non sei sicura di quello che fai.»
La ragazza strinse le labbra e sembrò sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, ma stavolta per la rabbia. Strinse i pugni.
«Certo che sono sicura! Voglio stare con te, io… non farmelo dire.» aveva il viso rosso per l’imbarazzo, ma Apollo sosteneva il suo sguardo, esortandola a continuare.
«Lo so che stasera sono strana. È vero che non sto bene, ma è per questo che ho bisogno di te. Ho bisogno di stare con te completamente, di…» le tremò il labbro, e brancolò per un momento in cerca di ossigeno «di sentirti con me. Lo so che ci sei, ma ho bisogno di sentire che ci sei davvero. Non mi basta vederti e parlarti e basta, voglio… voglio te.»
Terminò con un bisbiglio talmente flebile che Apollo quasi faticò a sentirla, ma le parole arrivarono comunque, alleggerendolo di un peso.
«Ecco ci voleva così tanto?» sorrise, abbracciandola. Silvia strinse le labbra e gli tirò un debole pugno allo stomaco.
«Violenta.» la derise Apollo, sussurrandole all’orecchio.
«Ti odio.» bofonchiò lei.
Il ragazzo rise a bassa voce «Peccato, perché io ti amo.»
Silvia sobbalzò e gli passò le braccia attorno al collo, guardandolo negli occhi. Tremava.
«Anch’io. Ti prego, ti prego vieni.»
Apollo annuì e la baciò, parlando contro la sua bocca.
«Ovunque, principessa.»
Quando entrarono nel castello c’era un sorriso complice sul volto di entrambi. Apollo guardava l’atrio gigantesco e le scale immerse nell’ombra notturna, mentre Silvia lo conduceva per i corridoi tenendolo per mano. Dalle pareti proveniva un brusio inconsulto che gli metteva i brividi.
«Questo posto è enorme. Sembra pieno di voci.»
«Lo senti parlare?»
«È un edificio, non può parlare.» la riprese scettico.
«Eppure lo fa.»
Quando arrivarono al piano con le camere da letto della sua famiglia la principessa posò un dito davanti alle labbra di Apollo, intimandogli di restare zitto.
«Non dobbiamo svegliarli.» sussurrò pianissimo.
Nonostante il bisbiglio incostante del maniero, quando passarono di fianco alla stanza di Rena i ragazzi udirono ugualmente una flebile ninnananna. Silvia raggelò per un istante. Rena si sarebbe accorta di Apollo?
Nel buio temette di vedere il giovane impallidire mentre ascoltava la canzone di Rena, ma poi lui scosse la testa e proseguì, sempre tenendo la mano calda stretta nella sua.
Davanti alla porta della propria camera, fu Silvia a fermarsi per un attimo. Diede le spalle alla stanza e si girò verso Apollo.
Lui le sorrise, cogliendo il lampo d’ansia nei suoi occhi. Lui stesso stava quasi tremando per l’agitazione, e si sentiva ridicolo da un lato, perché mentre per Silvia quella era la prima volta e l’irrequietezza era normale, lui si poteva dire già ben navigato nel campo. Non ricordava una volta in cui il sesso gli avesse dato qualcosa in più dell’orgasmo, mentre sapeva che ora, con Silvia, sarebbe stato diverso.
La baciò di nuovo, sentendola rilassarsi nel suo abbraccio, chiusa in una gabbia confortevole tra la porta e il corpo di Apollo. Piccoli brividi la facevano fremere tutta contro di lui, persino le labbra tremavano un poco. Apollo si accorse di essere eccitato già solo per come l’anticipazione stava scuotendo Silvia.
Fu lui ad abbassare la maniglia, e far scivolare entrambi all’interno della stanza. Richiuse la porta dietro di sé con delicatezza, continuando a baciare Silvia.
La camera era scura, e dalle tende scostate entrava la luce lunare appena sufficiente ad intuire dove fossero i mobili. Dalla finestra aperta sul giardino entrava un profumo leggero di rose, e quel particolare odore lo colpì, rilassandolo. Si sentì in pace.
Il profumo di Silvia, della sua pelle, dello shampoo per i capelli, gli entrava dentro, circondato da quel sentore di rose che gli sembrava di aver cercato sin dal giorno in cui aveva aperto gli occhi su una spiaggia deserta di Creta. Qualcosa gli montò nel petto, e il cuore prese a battere più velocemente, mentre immagini rapide sfilavano anche davanti ai suoi occhi chiusi.
Ignorò la confusione che gli stava affollando la testa, concentrandosi solo su Silvia e lo sguardo luminoso con cui lo fissava, scostandosi dalle sue labbra solo per il tempo di riprendere fiato.
Prese l’angelo che lei continuava a reggere, e lo posò su un ripiano alla sua sinistra.
Cercò a tentoni la chiave della camera ancora infilata nella toppa, e quando sentì scattare la serratura tornò da Silvia, sollevandola tra le braccia. Aveva ancora i mezziguanti indosso, e il raso della sottoveste della ragazza scivolava.
Silvia si strinse, allacciando le gambe attorno ai fianchi di Apollo finché non sentì il lenzuolo e il materasso contro la schiena, e allora si stese tra i cuscini, allargando le gambe perché Apollo trovasse spazio su di lei.
Il ragazzo le stava sopra, caldo e forte. Passandogli le mani sulle spalle, Silvia fu conscia come mai prima di allora che Apollo era veramente tornato, e non era tutto solo un sogno. La sua pelle era bollente, febbricitante, come stesse accarezzando un raggio di sole rovente.
Ci fu lo strappo secco guanti che venivano slacciati e tolti in fretta, poi le mani nude del giovane erano su di lei, le accarezzavano un fianco, e scendevano sulle gambe.
Il cuore di Silvia batteva velocemente, chiaro e forte, le rimbombava nelle orecchie. Sentiva caldo in tutto il corpo, specie dove la pelle nuda era a contatto diretto con il corpo di Apollo.
Infilò le mani sotto la sua maglietta di cotone, avvertì la veloce contrazione dei muscoli addominali quando lei vi passò le dita sopra, e risalì fino al petto. Poco a sinistra dello sterno, il cuore di Apollo batteva, e sembrava impazzito quanto quello di Silvia se non di più.
Gli sfilò la maglia, gettandola da qualche parte sopra il letto, e passò le dita tra i capelli corti e scompigliati del ragazzo. Sorrise, baciandolo con trasporto.
Apollo emise un lamento sommesso, un gemito, mentre le afferrava i fianchi e aderiva con tutto il corpo a lei, poggiando il bacino sopra quello di Silvia.
«Voglio ricordare tutto.» sussurrò contro il collo della ragazza. «Voglio avere ogni memoria possibile se ci sei tu.»



***



Il fuoco crepitava e odorava di legno e terra bruciata. Sophia dormiva nel sacco a pelo, accoccolata su se stessa.
Fuori il sole doveva essere sorto da poco, ma la vera Shangri-La restava immersa nella luce leggera ed irreale dei cristalli che la illuminavano fiocamente. Gen Fudo ricordava vite passate in cui la città brulicava di vita, gente che urlava e rideva per le strade. Erano tempi talmente lontani che ormai anche lui faticava a riportarli alla memoria, sommersi da innumerevoli altre esistenze. Forse stava arrivando anche per lui la fine delle reincarnazioni.
Pensava che quell’opzione l’avrebbe preoccupato, se non addirittura intristito, invece scopriva di accogliere l’idea con sollievo. C’era un limite a tutto nel mondo, perché l’Equilibrio è fatto di forme e direzioni, e lui probabilmente stava giungendo in prossimità dell’arrivo.
Di tutte le sue vite, quella attuale sarebbe probabilmente la più cara di tutte, più del tempo in cui aveva camminato al fianco di Celiane ed Apollonius, più della sua prima esistenza, quando il Culto l’aveva accolto per la prima volta.
Questa vita gli aveva dato un figlio. Non gli importava nulla dei legami di sangue: qualcosa di più lo aveva legato ad Apollo come fosse stato carne della sua carne. Negli anni aveva avuto fratelli, madri e padri, tutti scomparsi di fronte alla luce del Culto, ma ora quello non valeva più niente di fronte all’affetto che provava per il ragazzo. Il Culto scompariva anche se paragonato a ciò che l’aveva spinto a chiamare Sophia, e farsi accompagnare da lei in quei mesi.
Si girò verso la donna, guardandola dormire. Gli piaceva osservarla, studiare le forme regolari del viso, ma preferiva farlo quando era sveglia, e i suoi occhi verdi brillavano ogni volta che si fissavano nei suoi.
Il rilevatore di chakra di fianco a lei vibrava sommessamente, costante. Per tutta la notte aveva appurato la provenienza e la forza delle onde di energia che Gen percepiva. Eppure per due volte dopo la mezzanotte, Sophia lo aveva avvisato di altre due anomalie nel chakra, in punti totalmente diversi della Shangri-La in superficie. L’uomo non era riuscito a sentirli, troppo intento ad ascoltare i picchi vicini a lui.
Si era domandato per un istante cosa potessero essere stati, prima di decidere di accantonare la questione per un momento, e concentrarsi sul problema imminente, ma il tarlo era rimasto lì a consumarlo. Sophia non aveva saputo indicargli a quali luoghi potessero corrispondere le onde di energia, ma Gen pensava di immaginarlo. Da qualche parte, Apollo era tornato in città, e qualcosa era successo.
Il rilevatore di Sophia aveva un difetto: poteva mostrare solo l’intensità del chakra, e non la sua natura. Così Gen avrebbe dovuto aspettare il giorno inoltrato per poter risalire in superficie, contattare il ragazzo e scoprire se stesse bene.
Un rombo nella consistenza del chakra lo distolse dai suoi pensieri.
L’uomo si alzò dall’angolo in cui era rimasto seduto, afferrò un fagotto di indumenti ben piegati e uscì dalle rovine di una delle poche case ancora in piedi, in cui lui e Sophia si erano accampati.
Lì fuori, nell’antico foro, le statue di Apollonius e Celiane brillavano come plasmate nella luce stessa. Una nuova esplosione di chakra fece vibrare il suolo. Sophia si sarebbe svegliata.
Gen guardò ai piedi delle statue, al piedistallo la cui luce era diventata quasi accecante. Gettò i vestiti alla figura chiara e opalescente che li afferrò appena in tempo, i movimenti anchilosati di chi è rimasto fermo a lungo.
Gen ghignò.
«Bentornato anche a te.»






La luce rovente di una bella giornata di sole le copriva gli occhi e il volto quando si svegliò.
Silvia si passò una mano sulle palpebre, e stiracchiò le braccia e le gambe, sentendosi indolenzita. Tra le cosce sentiva gli strascichi di un lieve bruciore che durante la notte l’aveva infastidita meno di quel che aveva temuto.
Apollo era ancora nel letto accanto a lei, steso sulla pancia e profondamente addormentato. Le lenzuola aggrovigliate tra i loro corpi li proteggevano malamente dalla luce del sole, e Silvia si prese il tempo di guardare i muscoli definiti e la pelle abbronzata di Apollo, la linea curva della spina dorsale, il segno più chiaro del costume da bagno sotto i fianchi. Oltre alla cicatrice sulla guancia ce n’era un’altra che si intravedeva dove la gamba non era coperta dal lenzuolo. Veniva da una rissa ai tempi in cui lui e Gen erano vissuti a Creta, e Apollo era un ragazzo violento e pieno di rabbia molto più simile al mezzo selvaggio che aveva incontrato ad Arc City la prima volta, che alla persona che era diventato alla Deava prima, e sotto la tutela di Fudo poi.
Improvvisamente Silvia si rese conto di una cosa: era giorno. E non le prime luci dell’alba. Era giorno. Mattina. Apollo era lì e forse entro breve i ragazzi si sarebbero svegliati. Lanciò uno sguardo terrorizzato alla sveglia sopra il comodino e scoprì che erano già le sette. Rischiava non solo di essere in ritardo per andare in ufficio, ma entro mezz’ora tutti sarebbero stati svegli, se non addirittura al piano di sotto. Le cameriere erano sicuramente già in piedi.
Diede uno scrollone ad Apollo.
«Apollo! Apollo, svegliati! Maledizione, svegliati!»
Il ragazzo aprì gli occhi faticosamente, assonnatissimo.
«Che c’è, cosa? Ah, la testa…»
Lui si coprì la fronte e gli occhi con una mano, lamentandosi mentre affondava la testa nel cuscino.
Silvia si stava già alzando per recuperare da terra i vestiti di Apollo, quando lui le afferrò il polso.
«Ti prego, è tardi, siamo nei guai.» cercò di spiegargli.
«Silvia, fermati.»
Il panico della giovane per un momento si annullò udendo il tono serio e perentorio con cui Apollo l’aveva chiamata, per poi riaccendersi, decuplicato.
«Che cos’hai? Stai bene?»
Gli si inginocchiò accanto, e appena lui girò il volto, guardandola, Silvia gli accarezzò la guancia.
Il ragazzo la guardava confuso, come se stesse cercando di metterla a fuoco, respirava lento ma pesantemente.
«Apollo…» lo chiamò.
«Ricordo.»
«Cosa?»
Per un momento Silvia non capì, poi vide il sorriso sbocciare ed allargarsi sul volto di Apollo, che l’afferrò ancora più saldamente sul polso, rischiando di farle male.
«Mi ricordo tutto. Gli Angeli, Baron, Toma. Tu. Sempre tu. A Calcutta ti avevo quasi trovata, e poi a Stalingrado. E tutti quegli anni a Toledo e Lawrence da solo, e…» Apollo aveva il fiatone mentre le parlava «ti ho cercata dappertutto.»
Silvia si coprì la bocca con una mano, smorzando un grido. La vista le si offuscò per un attimo, come se stesse per piangere, poi si gettò su Apollo, abbracciandolo.
«Sì. Sì! Ero lì. Ti ho cercato tanto anch’io e-»
«Sono qui.» la rassicurò lui fermamente.
Le chiuse le labbra con un bacio.
«Adesso sono qui.» sussurrò ancora.
Silvia si sentì spingere con la schiena sopra il materasso, mentre Apollo saliva nudo sopra di lei e continuava a baciarla. Silvia allungò le gambe, piegando in alto le ginocchia per stringergli i fianchi contro di sé.
Aveva voglia di ridere, di piangere e di urlare.
Gli graffiò le scapole, stringendosi con le dita e con le unghie a lui mentre la baciava, e i corpi cominciavano a risvegliarsi, l’uno a contatto con l’altro.
Apollo era sceso con la bocca sopra il suo seno quando qualcuno bussò alla porta, cercando vanamente di aprire, contro la serratura bloccata.
«Silvia? Silvia, sono io! Mi hanno detto che non ti sei ancora alzata, guarda che è tardi!»
La ragazza ebbe un singulto per lo spavento e sobbalzò, andando istintivamente alla ricerca delle lenzuola con cui coprirsi, e spingendo via Apollo.
Il giovane grugnì qualcosa prima di scoppiare a ridere, riconoscendo il tono oltre la porta.
«Silvia? Silvia, c’è qualcuno con te?»
La voce di Reika era perplessa, se non addirittura spaventata, e la ragazza cercò di nuovo di aprire la porta.
Silvia non riusciva a parlare, guardava ora Apollo, ora l’uscio oltre il quale Reika la stava chiamando.
«Reika! È Reika, non ci posso credere!» il ragazzo continuava a ridere, e si alzò dal letto, afferrando i jeans che stavano sul pavimento.
«No, aspetta un attimo!» Silvia tentò di fermarlo, ma Apollo stava già andando alla porta, saltellando su un piede per infilare i pantaloni.
«Arriviamo!» il giovane cercò di placare Reika, sempre più agitata, ma la ragazza udendo una voce estranea si preoccupò di più.
«Chi sei? Silvia, chi c’è lì
A quel punto persino la principessa stava per cominciare a ridere. Tirò le lenzuola del letto, riuscendo ad avvolgersele bene attorno al corpo proprio mentre Apollo apriva la porta sorridendo ampiamente.
«Ciao, Reika!»
La donna ammutolì di colpo, e fece un passo indietro. Davanti a lei c’era un ragazzo alto e scarmigliato, con una zazzera di capelli rossi e occhi dorati, feroci e penetranti anche in quello stato di allegria. Impallidì notando la piega famigliare del sorriso, la cicatrice a croce che gli solcava una guancia.
«Non può essere.» mormorò intontita.
«Apollo!» Silvia arrivò dietro al ragazzo, cercando di sistemarsi meglio le lenzuola sopra il seno.
Apollo. Silvia aveva detto Apollo.
Lui abbracciò Reika, ridendo.
«Che fai, non mi saluti?»
Oltre la spalla di Apollo, la ragazza vide il sorriso e le lacrime di gioia di Silvia, e in quel momento Reika si rese conto che la persona che la stava abbracciando era veramente il suo vecchio compagno, lo stesso di cui la principessa aveva parlato loro da pochissimo.
Finalmente Reika ricambiò l’abbraccio.
«Sei tornato. Sei tornato davvero!» sussurrò incredula.
«Sì, sono tornato.» confermò felice.
La ragazza si fece indietro di qualche passo e lo guardò ancora, osservò quanto fosse cambiato, cresciuto. Eppure era indiscutibilmente lui.
«Ma… la tua memoria! Silvia ci aveva detto che…»
La principessa si fece avanti e prese Apollo per mano «Ricorda tutto. Stamattina-»
«Mi sono svegliato, e ricordavo. E…» il ragazzo si fece  improvvisamente serio in volto.
«Oh no, non ci credo. Il comandante! Ho passato tutto questo tempo con quel vecchio!» si rese conto, disgustato «Io quando lo vedo gli spacco la testa.»
Silvia sorrise divertita.
«A questo penserai poi. Adesso dobbiamo andare di sotto. I bambini, i bambini saranno felicissimi di vederti!» realizzò la principessa.
Reika concordò entusiasta, ma lanciò uno sguardo eloquente all’amica «Vado a chiamarli! Voi intanto rendetevi presentabili.»
Apollo ribatté sornione, incrociando le braccia sul petto nudo «Io sono presentabile.»
Silvia lo tirò per il gomito «No che non lo sei. E nemmeno io. Hanno ancora l’età per rimanere traumatizzati da certe scene.»
Lo tirò dentro ridendo, lasciando che fosse Reika a chiudere la porta.
Apollo attese solo un momento prima di prendere Silvia tra le braccia «Va bene, quanto tempo abbiamo prima che venga di nuovo a cercarci?»
Lei si liberò senza mai smettere di ridere, scappando indietro «Poco. Devo andare a lavoro e sono già in ritardissimo.»
Apollo la riacciuffò con un ringhio divertito, e prendendola per la vita la fece volteggiare in aria.
«Maledetta. Non ti lascio più andare via, principessa.»
Silvia strillò finché non il ragazzo non le fece di nuovo poggiare i piedi a terra «Invece devo andare. Avremo tutto il tempo del mondo adesso.»
Apollo strinse ancora e i loro corpi scontrarono. Le sussurrò all’orecchio «Perché non mi hai mai detto niente?»
«Non potevo. Saresti potuto morire se non avessi ricordato da solo.» Silvia bisbigliò con un tremito, di nuovo conscia del pericolo corso.
«Mi racconterai tutto ora?»
«Tutto.» confermò lei, accarezzandogli le mani.
«Okay. Allora andiamo.»









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Ragazze/i, siamo arrivati alle battute finali di questa fan fiction, la vostra spina nel fianco per più di un anno e mezzo, manca solo l’epilogo e poi potremo stappare le bottiglie di vino e salutarci tutti.
Visto che immagino che alcuni di voi siano rimasti piuttosto a bocca asciutta per come ho glissato allegramente dove avrei potuto infilare una lemon, ci tengo a dire due cose: questa fan fiction è un rating giallo, quindi non può contenere nemmeno una scena lemon, altrimenti Erika arriva qui e mi picchia – oddio, non credo che qualcuno di voi andrebbe mai a “denunciarmi alle autorità”, ma è sempre meglio evitare questi piccoli crimini.
Tuttavia trovo stupido mettere il rating rosso ad un’intera fan fiction per colpa di un’unica e misera scena, quindi ho preferito evitare di inserire la lemon. No, fermi, mettete giù quei forconi, nonhofinitodiparlare!
Ecco, bravi, così. Per rimediare al torto subito, sto scrivendo la lemon e la posterò a parte. Quando pubblicherò l’epilogo della fan fiction, vi metterò anche il link a fondo per la lemon.
Visto che vi voglio bene?
   
 
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