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Autore: Viki_chan    11/02/2013    0 recensioni
Anna-chan, vent'anni, fotografa.
Questa è l'identità che il caso, l'ansia e alcuni "lost in translation" mi hanno portato a creare.
Tutto quello che viene dopo è un insieme di (s)fortunati eventi poco chiari, totalmente involontari e piuttosto divertenti. Di mezzo, oltre a una grande confusione, ci siamo io, la mia vita prima e la mia vita dopo l'incontro con i Super Junior. E l'amore, in tutte le forme che vivere a contatto con questi ragazzi mi ha permesso di conoscere.
#1: La clandestina;
#2: Mister Park...;
#3: Il lavoro extra...;
#4: L'interprete Siwon...;
#5: L'ospite inaspettato...;
#6: Il messaggio in codice...;
#7: SUKIRA...;
#8: Le diversità...;
#9: L'incubo, la canzone e...;
#10: Fantasticherie romantiche, differenze linguistiche e..;
#11: Gli angeli, l'assenza e...;
#12: L'attesa, la voce metallica e...;
#13: Gli sguardi, la cena e...;
#14: Le modelle, il chiarimento e...;
#15: l'incontro con Park, il Tokyo Dome e...;
#16: Il compagno di shopping...;
#17: Non Anna-chan, l'appartamento e...;
#18: Le terrine vuote, le forme e...;
#19: La cena, la trasformazione e gli abbracci;
#20: La valigia, Incheon e la scatola di scarpe;
#Epilogo
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una serie di (s)fortunati eventi


Evento #3

 


“Cosa sta succedendo?”
Il signor Park ha chiamato entrambi gli ascensori. Ci ha fatto accomodare sul primo arrivato e ci ha fatto un inchino.
Il signor Freddi, accanto a me, ha pigiato il tasto per tornare al piano terra.
“Park ha bisogno di una fotografa e mi ha chiesto se per te è un problema fare del lavoro extra durante la nostra permanenza in Corea. Ovviamente gli ho detto che tu sei disponibile.” dice così velocemente da dimenticare di respirare. “Starò qui due settimane e, essendo la mia assistente, dovrai dire la stessa cosa. La nostra azienda produce pannelli luminosi e istallazioni. Tu sei qui fotografare il ritmo dei lavori.”
Mentre l'ascensore ci riporta al piano terra, il signor Freddi mi porge anche il suo biglietto da visita.
“Io e la mia famiglia alloggiamo all'Hilton e ho detto a Park che tu sei arrivata oggi e non hai ancora scelto dove dormire. Se hai bisogno di qualcosa mandami una mail.”
“Ma...”
Apro e chiudo la bocca, senza sapere cosa dire.
Le porte dell'ascensore si aprono e il signor Freddi esce, lo seguo a ruota.
“Bene Anna, ci vediamo tra un paio di giorni.” mi dice porgendomi la mano.
“Dove sta andando?”
“A incontrare gli operai.”
“E io?”
“Ora arriva il signor Park e ti spiega tutto.” vedendo che non gli stringo la mano, il signor Freddi abbassa il braccio. “Buona fortuna.”
Non posso dirgli nient'altro. Si è già allontanato.
Mi volto verso la reception e cerco di mantenere un certo contegno. Sto tremando.
“Posso avere la mia valigia?” chiedo a una delle signorine, in inglese.
“Il signor Park ha già dato disposizioni in merito. Sta arrivando anche lui, il suo ascensore è partito ora dal quarantesimo piano.”
Annuisco e, con discrezione, mi asciugo le mani sudate sui pantaloni.
Non so cosa devo fare, così pretendo di essere una statua e non mi muovo, quasi non respiro.
Non so quanto tempo ci abbia messo il signor Park a scendere tutti i piani ma, quando sento l'ascensore aprirsi, mi sembra passata un'eternità.
L'uomo non è solo, con lui c'è una signorina in tailleur con in mano un plico di documenti. Mi passa accanto, li appoggia al bancone e dice qualcosa in coreano alle receptionist.
Park, invece, mi fa cenno di avvicinarmi.
“E' pronta?”
“Dove stiamo andando?” chiedo prima in italiano, poi in inglese, aggiungendo un mezzo inchino di scuse.
“Non si preoccupi, il signor Freddi sa che oggi non può aiutarlo.” risponde sorridendo. “Ora mi segua, l'autista ci aspetta qui fuori.”
Non ho niente da perdere, mi dico.
Continuo a ripetermelo stando mezzo passo dietro al signor Park, superando la porta rotante, lasciandomi sferzare il volto dall'aria fredda che lambisce Seoul. Davanti all'edificio, una monovolume a otto posti ci sta aspettando con il motore acceso. Il signor Park apre una portiera e mi fa cenno di salire. Lui si sistema sul lato passeggero anteriore, accanto all'autista.
Mi siedo e mi allaccio la cintura: da dentro l'auto sembra ancora più grande. Al posto dei sedili centrali sono stati messi due tavolini in legno scuro, che fanno sembrare il mezzo una specie di salottino in movimento.
Quando l'autista risale sul mezzo, dopo aver messo la mia valigia nel baule, il signor Park inizia a parlare in coreano.
Non capendo un accidente di cosa si dicono, inizio a guardare fuori dal finestrino.
Cinque minuti dopo la nostra partenza dal quartier generale della SM, la vita di Seoul ci circonda completamente. Auto e persone, luci, negozi, pullman. Tutto intorno si muove, pulsa, ci supera velocemente.
Sono shoccata, sbalordita, spaventata e eccitata.
Prendo un respiro profondo e cerco di fare mente locale: sono qui per fotografare qualcosa.
Punto uno, non ho idea di come far funzionare la macchina fotografica di ultima generazione che ho in borsa.
Punto due, anche se sapessi come accenderla, non sono mai andata oltre le foto da gita scolastica al museo di scienze naturali o quelle scattate con il cellulare durante alcune serate alcoliche.
Cercando di fare il più piano possibile, prendo la macchina fotografica dalla borsa, la estraggo dal fodero di protezione e me la giro tra le mani.
Ha un pulsante On/Off, bene.
Tolgo il tappo davanti all'obbiettivo, ok.
La accendo fa un bip. Sullo schermo compare quello che sto inquadrando al momento, ossia metà del mio ginocchio destro e il pavimento dell'abitacolo.
“Anna.”
Il signor Park mi sta guardando. Spengo immediatamente la macchina fotografica e faccio un cenno con la testa.
Lui, non so per quale ragione, si mette a parlare coreano.
“Bla bla bla bla bla...”
Non capisco il coreano, mister. E' inutile.
“Bla bla bla bla bla – forse ha detto la parola studios, ma è probabilmente una mia allucinazione – bla bla bla bla.”
“Non capisco il coreano.” dico con la voce forse un po' troppo rude. “Sorry.
Il signor Park si ferma e sorride.
“Era solo per esserne certo.” commenta in inglese. “Fra mezz'ora saremo agli studi, direi che è arrivato il momento di spiegarle cosa succederà.”
Grazie al cielo.
“Il signor Freddi mi ha detto che lei è qui per documentare l'andamento dei lavori e mi dispiace toglierle del tempo prezioso, ma da settimana scorsa siamo alla ricerca di una ragazza che ci aiuti con il backstage di una campagna promozionale e lei sembra la persona giusta.”
Il signor Park fa una pausa, io non so se commentare o tacere.
“Lei conosce i Super Junior?”
Preferisce che inizi a citare date di nascita, cibi preferiti, soprannomi, composizione delle loro famiglie o che le mostri la mia versione di ogni coreografia di ogni canzone di ogni video da loro interpretato?
“Sono dei cantanti della vostra etichetta.” rispondo dopo qualche secondo di scompenso emotivo.
“Ottimo. Saprà quindi che si tratta di un gruppo di ragazzi. Quanti anni ha lei?”
Quanti anni ho?
Chi sono?
Ha davvero detto Super Junior?
Calmati, finta Anna, calmati.

“Venti.” dico in giapponese, poi in inglese. Poi ci penso e mi accorgo che non è vero. Parlare in inglese, pensare, fingere, respirare. Troppe cose da fare contemporaneamente.
“Sa il giapponese?”
“Sì, lo parlo abbastanza bene.”
Perfect.
Silenzio.
Il signor Park si volta verso la strada e solo in quell'istante mi accorgo che l'auto è entrata in una via laterale. L'autista si ferma davanti a una sbarra e parla con la guardiola. Un istante dopo il varco viene aperto.
“E' importante che lei mi stia accanto, d'ora in poi. Se qualcuno le chiede qualcosa, indichi la sua macchina fotografica e il pass che le daranno all'ingresso.” dice mentre l'auto si ferma accanto a un marciapiedi, a cento metri da un rettangolo di cemento che separa due edifici gemelli.
Il signor Park non mi dice altro, scambia ancora qualche parola con l'autista, poi scende e mi apre la portiera. Lo ringrazio e lo seguo nel piazzale.
I due edifici, venti piani a testa, hanno le facciate a vetri e alzando lo sguardo è possibile vedere qualche impiegata muoversi accanto alle finestre.
Bello e inquietante allo stesso momento.
Cammino, la borsa a tracolla che rischia seriamente di rompermi una spalla, tanto è pesante.
Il signor Park si volta un paio di volte per controllare che io stia al passo, si dirige verso l'edificio di destra, mi apre la porta e mi fa entrare prima di lui.
Altra reception, ma l'ambiente è totalmente diverso da quello alla SM. Dietro al bancone ci sono cinque impiegare indaffaratissime e, dietro a una porta a vetri, vedo due uomini con un grande carrello pieno di cavi.
Ci avviciniamo al bancone e, vedendo il signor Park, l'attività frenetica si ferma. Tutte le ragazze si alzano e si inchinano. Quella più vicina al bancone dice qualcosa a testa bassa, mestissima.
Il signor Park parla tranquillo, qui deve essere una sorta di autorità.
Ad un certo punto la ragazza mi guarda, è l'unico momento in cui posso vedere i suoi occhi scuri.
Stanno parlando di me.
Abbozzo un sorriso e mi sposto i capelli dietro alle spalle.
Questo gesto fa reagire una ragazza dietro al bancone.
Mi ero dimenticata di essere così bionda, accidenti.
Qualche secondo dopo sento il rumore di una stampante e la ragazza che sta parlando con il signor Park mi porge un cartellino appeso a un laccio. Lo metto al collo e ringrazio in giapponese.
Lasciamo il bancone e ci avviciniamo alla porta a vetri, ad apertura automatica. E' una sorta di barriera tra due mondi, appena la varco sento una voce maschile che sembra fare una prova microfono. Poi ci sono delle urla, il rumore di un paio di trapani. E' strano perché non vedo da dove questi suoni provengono: il corridoio in cui stiamo camminando è abitato da persone silenziose, che entrano ed escono dalle svariate porte che si aprono sia sulla parete di destra che su quella di sinistra.
Una donna ci viene incontro e saluta cortesemente il signor Park. Ha in mano una cartelletta con una lista spuntata. Cerco di non badare al suo sguardo indagatore.
“Aspettami qui.” mi dice l'uomo indicandomi una sedia pieghevole accanto a una porta bianca.
Annuisco e mi siedo, lui fa qualche passo con la signora e entra in una stanza più avanti.
Un istante dopo, una ragazza esce dalla porta accanto a me e, vedendomi solo all'ultimo, si spaventa.
Fa un inchino e dice qualcosa in coreano.
Io vi odio tutti.
Come mi ha detto il signor Park, indico il mio pass. La ragazza annuisce e dice qualcos'altro. Alla vita ha allacciata una cintura piena di pennelli per il trucco.
“Non parlo coreano.” dico in giapponese, poi in inglese.
Lei prosegue con il suo monologo e mi ripete per l'ennesima volta la stessa frase.
Sconsolata, prendo la mia macchina fotografica e gliela faccio vedere.
Il suo sguardo si illumina.
“Bla bla Super Junior bla bla bla.” dice ancora in coreano, decisamente entusiasta.
Annuisco e spero nella botta di fortuna.
La ragazza è iper eccitata e inizio ad avere paura. Mi prende per un braccio, mi strattona verso la porta dove il signor Park è entrato poco prima e si ferma.
Mi dice qualcosa, ma io non riesco più ad ascoltarla.
La porta è aperta di qualche centimetro e mi sento morire.
Il signor Park è di spalle e sta parlando con una decina di ragazzi.
Ragazzi, che dico.
Loro.
Prendo un respiro e mi butto letteralmente sul l'altro lato del corridoio, contro il muro.
Prima che io riesca a capire che sta succedendo, il signor Park esce dalla porta.
“Anna, sei qui.” dice tranquillo. “Ora ti do' le istruzioni, poi puoi iniziare a lavorare.”
Fotografare i Super Junior.
Ti amo, signor Park.

   
 
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