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Autore: UncleObli    11/02/2013    1 recensioni
In origine avrei voluto pubblicare questi racconti come una semplice raccolta, ma pare sia vero che è il racconto ad influenzare lo scrittore, e non viceversa. Ora questi racconti, pur avendo in comune il tema dell'inverno e ciò che porta, sono spesso legati fra loro in modi più o meno evidenti e riprendono di tanto in tanto scene e personaggi comuni. Cercherò di pubblicare un nuovo racconto ogni Martedì e Venerdì.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Fuori la neve continuava a cadere.

“Sei ancora qui? Ti avevo detto di tornare a casa...”

D'istinto, alzai la testa di scatto. Mi ero appisolato, alla fine avevo ceduto al sonno. Cercai di ritornare lucido, un impresa piuttosto difficile, soprattutto se si è reduci da due notti di veglia ininterrotte. Con voce calma, ma rotta dalla stanchezza, replicai:

“Non ti preoccupare per me. Piuttosto, tu non dovevi tornare domattina?”

La ragazza di fronte a me mise il broncio, vagamente irritata. Si tolse il cappotto e lo posò sull'unica altra sedia presente in quell'asettica camera d'ospedale. Poi appoggiò la borsa sopra il cappotto e mi offrì un croissant ancora caldo, che si era evidentemente premurata di acquistare al bar dell'ospedale.

“Domattina è adesso. Hai dormito più o meno quattro ore. E' stato il dottore a dirmi di chiamarti. Dovrebbe fare il giro visite, ma non sapeva se fosse il caso di svegliarti, dato che non chiudevi occhio da giorni. Usciamo, ti farebbe bene prendere un po' d'aria fresca. E poi non c'è molto che tu possa fare per lui, qui.”

Con riluttanza gettai un'occhiata al letto al centro della stanza. Sul materasso giaceva un ragazzo. Sembrava solo addormentato, ed effettivamente sul suo viso non si poteva scorgere alcun segnale di sofferenza. Però io sapevo che la verità era ben diversa. Mi alzai, e con passo incerto lo raggiunsi, come per sincerarmi delle sue condizioni. Il pallore sul suo volto sembrava peggiorato. E dopo due giorni ancora non si svegliava...

“Si, potrebbe essere una buona idea. Grazie per il croissant...”

Lei mi sorrise, poi mi accarezzo la testa, scompigliandomi i capelli. Io le ringhiai contro: sapeva benissimo quanto detestassi che mi si spettinassero i capelli. Rise, e mi accompagnò fuori con un sorriso. Diedi un morso esitante al croissant. Era alla marmellata. Lo finii in pochi morsi, resomi conto di quanto fossi in realtà affamato.

“Allora, ci sono novità?”

Io sobbalzai, poi scossi la testa, sconsolato.

“Non una che sia una...semplicemente continua a non ridestarsi dal coma. Non so più che cosa fare, non voglio che muoia...se succedesse non so che farei...”

Lei mi abbracciò, comprensiva. Capii solo qualche istante dopo di aver rotto un piccolo tabù: fino a quel momento nessuno di noi aveva avuto il coraggio di ammettere la possibilità di perderlo per sempre. Per qualche istante mi odiai, come se il fatto di aver messo in conto una simile possibilità mi rendesse automaticamente un mostro.

“Non ti devi preoccupare, vedrai che andrà tutto bene. Su, andiamo in giardino. Guarda, è da qualche ora che nevica. E' uno spettacolo magnifico, ti tirerà su di morale, credimi.”

Passeggiammo insieme senza dire nulla, ciascuno perso nei propri ricordi. Non ebbi il coraggio di guardarla in faccia: non riuscivo a togliermi dalla testa la sensazione di essere in errore, di aver commesso un crimine irreparabile. Proprio io, che mi ero ripromesso di proteggerlo a tutti i costi. Capendo il corso dei miei pensieri lei disse, dolce:

“Senti, te l'ho già detto, ma permettimi di ribadire il concetto: non è stata colpa tua. Certo, nemmeno sua ovviamente ma adesso non è il momento di piangersi addosso. L'unica cosa che possiamo fare è avere fiducia nei medici. D'accordo?”

Io annuii, continuando a tacere. Arrivammo al giardino. Era effettivamente un paesaggio stupendo, un parco gradevole e curato stranamente vicino all'ospedale. E imbiancato dalla neve aveva un qualcosa di magico. Non saprei dire cosa, ma sono certo di non sbagliarmi se dico che non ho più visto uno spettacolo simile. Mi accucciai all'ombra di un pino, e raccolsi una manciata di neve fresca. Me la feci scivolare fra le dita, godendo della sensazione di fresco che mi donava. Poi mi alzai, pulendomi le mani sui pantaloni.

“Lo so, ma non riesco a perdonarmi comunque. Sai, non ho mai voluto fare nulla per gli altri. Avrei voluto proteggere un'unica persona, e ho fallito. Le mie forze non sono state sufficienti nemmeno per questo...provo una grande rabbia per la mia incapacità...”

“Ti capisco, ma purtroppo non è possibile disfare il passato. Cerchiamo di costruire il nostro futuro, piuttosto. Lui non è ancora morto. Non ci è ancora stata negata la possibilità di ritornare a ridere felici, tutti e tre insieme, giusto?

Io mi asciugai le lacrime che intanto avevano iniziato a scorrere con un sorriso triste. Avevo perso ogni speranza per la sua guarigione. Dentro di me già sapevo che oramai era solo possibile ritardare l'inevitabile. Però non permisi al mio egoismo di distruggere anche l'ultima scintilla di speranza nel cuore di lei. Sarebbe stato ingiusto, e ignobile.

“Rientriamo, comincia a fare freddo...”

Camminammo con calma, facendo tutta la strada a ritroso senza una parola. Quando si avvicina la morte di una persona cara spesso si ha la sensazione di non poter intervenire, di dover preservare il fragile equilibrio che si viene spontaneamente a creare. Eppure non mi stupii quando il medico ci venne a chiamare poco dopo il pranzo. In fondo nessuno di noi ci credeva. Nessuno di noi aveva la forza di negare che ora dopo ora la sua vita ci sfuggiva dalle mani, come un origami sotto la pioggia: per qualche istante esso sembra conservare la sua grazia, anche sotto il diluvio, ma poi, senza appello, si disfa, e non rimane che il ricordo per chi invece resta.

Lei piange, si dispera. Io rimango calmo, perché glielo devo, in qualche modo. Lui vorrebbe che io fossi forte, come mi sforzavo di essere davanti a lui. Ma la testa e il cuore sembravano di ghiaccio, e pulsavano dolorosamente.

Era destino, mi dissi. Almeno non soffre, mi ripetei. Ma queste piccole consolazioni non riescirono a risarcirmi allora e non lo fanno nemmeno adesso. Che cosa crudele: lui non era ancora morto, eppure per noi già lo era. Con la consapevolezza non giunge immediatamente l'accettazione, ma il passo non è poi così lungo. Quando lei se ne andò per andare a lavoro io rimasi al suo capezzale. Un vecchio sacerdote entrò per celebrare l'ultima unzione. Io lo respinsi con dolcezza, ma fermezza. Né io né lui siamo mai stati persone religiose, e preferii evitare di cadere nella banalità accettando una facile consolazione. 'Quando stasera tornerò a casa e cenerò con lei, lui sarà già in un posto a me precluso.' Il solo pensiero mi era intollerabile. Decisi di andarmene poco prima delle sette. Mi alzai per l'ultima volta e lo guardai in viso. Gli accarezzai i capelli. Avrei desiderato che lei fosse lì con me, per sorreggermi, e per salutarlo, come sarebbe stato giusto. Fuori, la neve continuava a cadere.

 

Fuori, la neve continuava a cadere.

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Nota dell'autore:

Salve a tutti. Sono UncleObli, ragazzo liceale di diciassette anni. Questa è la prima volta che cerco di pubblicare una serie di racconti legati ad un tema comune. E' una sfida che spero possa interessarvi, ma imploro la vostra comprensione per eventuali errori negli scritti. Su di me non ho molto da dire, anche se è la prima volta che scrivo qualche parola al termine di un mio racconto, quindi glisserò con classe l'argomento. E va bene lo ammetto: cerco di raccattare umilmente visite giocando sul presunto alone di mistero che dovrebbe circondare l'autore. Scherzo. Vi rivelerò qualcosa andando avanti con i capitoli, se vi interessa. Alla prossima.

UncleObli

 

  
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