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Autore: Mirokia    12/02/2013    2 recensioni
Vivere per inerzia può essere una scocciatura quanto una benedizione.
Chi vive per inerzia non causa alcun tipo di problema, disturbo o contrattempo a coloro con cui entra in contatto. E’ come se, invece di inciampare su un difetto dell’asfalto e rovinare su un passante, inciampi e cadi giusto accanto a lui: non gli causi alcun tipo di danno, ma intanto sei caduto e, anche se ti sei fatto male, quasi non lo senti, perché sei abituato a vivere per inerzia. E allora ti alzi, ti spolveri, e vai avanti, ed è come se non fosse successo nulla.
Poi arriva il momento in cui semplicemente non puoi più far finta di nulla. Proprio non ci riesci. E il tuo mondo costruito per inerzia sembra crollare come un castello di carte.

[...]
«Io sono gay.»
«No che non lo sei, hai solo bevuto troppo.»
«Ho una cotta per te.»
«Non sai di cosa parli. Adesso va' a dormire, basta vaneggiare.»
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Cap. 25


 

 

 

 

 

 








Bonatti mi invitò a bere un goccio in un bar in centro durante le vacanze di Natale, e il che mi stupì, visto che non è che io e lui fossimo poi così amiconi. Lui non faceva che trattarmi a merda – si comportava così con il mondo, in realtà – e io non facevo che ignorarlo o dargli corda se proprio era in uno dei suoi giorni no. Quindi avevo accettato titubante, e anche perché mi sentivo piuttosto solo, visto che Valerio, come lui stesso aveva promesso al padre, era già partito per la Puglia, come faceva ogni anno a Natale. Era solo il giorno prima della vigilia, e lui doveva starsene lì sino al sei gennaio, perché a sua detta, suo padre ci teneva a regalare le calze della befana piene di dolciumi ai suoi due nipotini. Io ero solo in casa da tre giorni, e già mi stavo deprimendo. Mi guardai la mano prima di entrare nel bar in cui mi aveva dato appuntamento il mio collega: sul mignolo troneggiava un filo di lana rosso che Valerio aveva strappato dal suo maglioncino poco prima di partire e che poi aveva legato stretto al dito, col rischio di bloccarmi la circolazione. Poi aveva tagliato il suddetto filo e si era legato l’altra metà al proprio mignolo. “Così ti ricordi che siamo connessi anche se non ci sono. Guai a te se lo togli.” Mi aveva intimato, col cipiglio divertito, ben conscio che una roba del genere non avrebbe fatto altro che darmi fastidio, e che me la sarei tolta seduta stante. Ma a quanto pareva, avevo davvero iniziato ad impazzire, visto che era tre giorni che mi lavavo le mani senza la benché minima intenzione di tagliare via quel misero pezzo di lana attorno al dito. E di nuovo, quel filo rosso mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo ancora a mettere bene a fuoco l’immagine stampata da qualche parte nel mio cervello.
Sospirai ed entrai nel tiepido locale odoroso di cioccolata calda, e vidi Bonatti discutere col cameriere, anche in modo piuttosto acceso. Mi dissi che avevo fatto malissimo ad andare incontro a una tale scocciatura quale era Bonatti, e alzai gli occhi al cielo, spinto a rimanere sul posto solo dalla vocetta nella mia testa – che poi era quella di Valerio – che mi diceva di prendere in mano la mia vita e di piantarla di vivere all’ombra degli altri. Bonatti si alzò dal tavolino tondo in cui era stravaccato, disse “Va bene, va bene!” al giovane cameriere, poi mi prese dal braccio e mi trascinò fuori con un “Sediamoci fuori, ché non mi fanno fumare dentro, ‘sti bastardi”. Neanche mise piede fuori che si accese la sua benedetta sigaretta, e solo dopo si allacciò il cappotto e mi fece segno di accomodarmi in un tavolino fuori. Ed eravamo gli unici seduti lì al gelo. Solo per Bonatti e la sua dannata sigaretta. “Valerio, dammi la forza”, mi ripetevo in testa, e mi sentivo anche piuttosto ritardato.
«A cosa devo questo invito?» chiesi dopo essermi rotto del silenzio disturbato soltanto dagli sbuffi di fumo del mio collega.
«Ti vedevo strano e allora ti ho invitato,» rispose lui con nonchalance, le gambe accavallate e la mano libera nascosta nelle cosce.
«Dove mi vedevi strano?» chiesi giustamente, visto che neanche mi ricordavo l’ultima volta in cui l’avevo incrociato. Lui mi disse che gli ultimi giorni prima delle vacanze natalizie entravo in facoltà che ero cupo e uscivo che ero nero pece. Non arrabbiato, piuttosto depresso, triste, e disse che aveva deciso che mi avrebbe invitato a bere qualcosa, visto che siamo colleghi e “sulla stessa barca”. Quindi era sicuro che ci saremmo capiti come, insomma, membri della “stessa squadra”. E ogni volta faceva in aria il segno delle virgolette. Insopportabile.
«Il tuo malumore è dovuto a quello che è successo due settimane fa?» mi chiese, la domanda in netto contrasto col suo solito tono menefreghista. Cos’era successo due settimane prima?
«Ma… da quand’è che ti preoccupi per me?» gli chiesi di rimando, e lui sbuffò rumorosamente e con scazzo una nuvola di fumo, facendo poi segno a una cameriera di prendere le ordinazioni.
«Senti. Io non avevo un cazzo da fare stasera, tu nemmeno, ti ho invitato a prendere un goccio per non passare la serata davanti a un film di serie B. Faresti anche solo finta di apprezzare l’iniziativa?» mi chiese retoricamente, con la cameriera lì in piedi al gelo, in attesa che quello si decidesse a ordinare. Lo guardai con un occhio socchiuso e sollevai d’istinto il lato della bocca in un sorriso, perché no, davanti a individui del genere proprio non riesci ad incazzarti seriamente. Ti fanno un po’ pena, quasi tenerezza. Mi voltai verso la povera cameriera infreddolita e le chiesi gentilmente se mi potesse portare una cioccolata calda, mentre Bonatti prima mi lanciò uno sguardo scandalizzato - molto probabilmente perché si aspettava che prendessi qualcosa di alcolico – e poi ordinò con scazzo della vodka liscia.
«Non capisco che tipo di problemi tu possa avere, comunque, se ci tieni, ti darò corda. Cos’è che vuoi sapere?» gli domandai una volta che la ragazza fu scappata dentro.
«Guarda che non sei costretto a parlare, eh, puoi anche andartene se vuoi,» mi disse lui, a quanto pare infastidito da quel mio atteggiamento del tutto disinteressato.
«Vuoi sapere a cos’è dovuto il mio malumore? O se è vera la storia che me la faccio con uno studente?» chiesi al posto suo, e a quel punto feci che accendermi una sigaretta anche io, visto che a casa non lo facevo più per non far respirare del fumo passivo al mio coinquilino.
«Non sono un pettegolo come credi, Ruggeri,» tentò di dire, ma lo bloccai con un’espressione da “Ti prego, non portiamola per le lunghe, ché già ho poca voglia di dare retta a qualsivoglia essere umano. Ascoltami e basta.”
«Entrambe le domande hanno un punto in comune: Valerio. Sì, me la faccio con uno studente, si chiama Valerio Castelli, ha vent’anni, frequenta la facoltà di lingue e letterature moderne e abita con me. Il mio malumore è dovuto a lui. Non a causa sua, ma a causa della sua mancanza. E’ Natale e lui non può stare con me. Fine». Accavallai le gambe e dedicai l’attenzione alla mia sigaretta e al fumo che lasciavo uscire dalla bocca insieme al vapore acqueo, senza far caso alla probabile espressione stupita ora dipinta sul volto del mio collega. Durante il silenzio che seguì, mi preoccupai di finire la sigaretta e di schiacciarla nel portacenere e di fare spazio alla cameriera in modo che potesse lasciarci i nostri ordini.
«…Wow. Beh, Ruggeri, non credevo potesse piacerti il tordo, ma questa tua confessione così spontanea ti rende onore, sai? Io ai miei tempi non l’avrei fatto neanche morto. Devo dire che ti ho rivalutato. Mi piaci, professore,» si decise quindi a dire, ma subito agitò le mani, certo di aver detto qualcosa di fraintendibile. «Ovviamente non in quel senso, mi hai capito,» e mandò giù la sua vodka liscia senza guardarmi in faccia neanche per sbaglio. «Sei stato sempre così sicuro di te stesso?»
«Mai,» ammisi, le mani che formavano una coppa sopra la tazza di cioccolata calda, nel tentativo di scaldarsi.
«Oh beh. Credo che il nuovo Andrea Ruggeri farà furore. Vuoi una sigaretta?» mi aprì il pacchetto davanti al naso, quasi non avesse notato che avevo appena spento la mia nel portacenere.
«Ti ringrazio, ma ho le mani congelate,» rifiutai col tono più gentile possibile, ma quello sfilò una delle sue sigarette disgustose e me la ficcò in bocca rischiando di farla cadere nella cioccolata.
«E prenditi ‘sta sigaretta senza fare la femminuccia! E non starmi depresso. Quando torna il tuo cocco?»
«Il sei,» risposi infastidito dai gesti avventati di Bonatti. Mi appoggiai la sigaretta maledetta sull’orecchio e portai la tazza fumante alle labbra.
«Passa come un fulmine. Sei solo a Natale? Vieni a stare da me, semmai. So’ solo anch’io,» e il suo non era un tentativo di abbordaggio, solo la disperata ricerca di una compagnia durante le feste. Doveva essere un uomo piuttosto solo, col carattere che si ritrovava. Mi dissi che io dovevo stare zitto, visto che non avevo un carattere migliore, e prima di Valerio ero anche più solo di lui.
«Mi spiace, ma starò con mia sorella,» gli dissi alzando le spalle. Feci una smorfia di dolore dovuta al calore della cioccolata quando s’abbatté sui miei denti leggermente sensibili.
«Che immagino sapranno tutto della tua passione per le carni giovani».
Lo guardai scoraggiato e lui alzò immediatamente gli occhi al cielo e mi rivolse un’espressione da: “Dai, sto solo scherzando un po’, che palle che siete voi insegnanti di letteratura”.
«Sto pensando a come dirglielo. Temo che sarà il mio regalo di Natale per tutta la famiglia».
«Che culo!» esclamò Bonatti, seconda sigaretta quasi terminata. «Sennò, scusa, da quant’è che state insieme?»
«In realtà non so dirti neanche se stiamo ufficialmente insieme… Voglio dire, come funziona oggi quando ci si fidanza? Ai miei tempi si faceva un regalo alla ragazza, che fossero fiori o piccoli gioielli –di solito un anello- e con quello si suggellava il fidanzamento. Voglio dire, i giovani adesso come fanno?» chiesi particolarmente frettoloso, visto che, mi accorsi, ero a corto di fiato.
«Firmano un contratto».
«Cosa?» domandai shockato, e quello spalancò gli occhi e appoggiò il pugno chiuso sul tavolo.
«Dico, ma ti stai sentendo? Prima di tutto, appena hai pensato a un possibile regalo di fidanzamento da fare al ragazzo, sei diventato tutto rosso e sei partito come un treno a parlare a vanvera. E’ stata la tua frase più lunga da quando ci siamo conosciuti, più o meno. Calmati, okay?» e mi fece notare con un dito che stavo tentando di allargarmi il colletto della camicia sotto la giacca, come avessi davvero bisogno di più ossigeno. «I ragazzi d’oggi non usano anelli o cazzate simili. Mettono su facebookImpegnato” oppure “Fidanzato ufficialmente con” se il partner ha facebook, così possono far vedere a tutti con chi è che sono infognati. Tu hai facebook
«No».
«Allora, piscia, avrà messo “Impegnato”. Oppure, magari, se non è uno che segue la moda, ti ha chiesto qualcosa tipo “Ma io e te cosa siamo?” oppure “Io per te cosa sono?” oppure “Posso considerarmi il tuo fidanza-”»
«Sì, me l’ha chiesto! E io gli ho detto che se gli faceva piacere poteva considerarmi tale,» esclamai quando riportai alla memoria i ricordi di me e Valerio che passeggiavamo per mano accanto al piccolo parco giochi dietro casa nostra. Casa… nostra? Nostra…
«Bene, quello è il giorno del vostro fidanzamento».
«…E che giorno era?!» realizzai di avere una pessima memoria, e mi stampai in fronte le cinque dita.
«Lui se lo ricorderà».
«Ma con che faccia vado a chiederglielo? Pensa a quando lui verrà a farmi gli auguri di buon anniversario e io cadrò dalle nuvole!»
Bonatti si strozzò col fumo tirato dal filtro e schiacciò la sigaretta nel portacenere mentre tossiva in un pugno e si dava colpetti sul petto. Quando tornò a respirare, aveva gli occhi rossi e la faccia sconvolta.
«…Tu sei messo davvero male, amico mio. Sei nella merda, te lo dico io. Mi sembra di stare in una puntata del Mondo di Patty, che cazzo».
Abbassai gli occhi imbarazzato, pur non avendo idea di che diavolo fosse questo Mondo di Patty. Sperai non una telenovela argentina.
«Quindi, sai dirmi almeno da quant’è che scopate? Perché scopate, vero?» domandò ancora Bonatti riprendendo il filo principale del discorso.
«Euf,» mi scappò, mimando anche con la mano la quantità abbondante dei nostri incontri a letto. Ma non solo a  letto, anche sul divano, sul tavolo, per terra, contro la cucina, in piedi contro il frigo e l’armadio, sul gabinetto. Cristo, anche sul gabinetto?! «Voglio dire, solo a volte,» mi corressi, probabilmente rosso come un peperone. «E comunque… sono tre mesi circa».
«E tu hai già intenzione di dirlo a tutta la famiglia? Non è un po’ precoce la cosa?» mi fece notare, e io mi diedi qualche secondo per pensarci, poi,
«Non lo so, ma non mi importa. Adesso sono dell’umore di dire tutto a tutti,» dissi con una mano sotto il mento.
«Non ti importa di come reagirebbe tua sorella?»
«No. E comunque, già non andiamo troppo d’accordo, non mi mancherebbe molto se decidesse di tenermi fuori dalla sua vita,» spiegai senza troppa voglia, e tirai giù altra cioccolata, ché a furia di parlare l’avevo lasciata freddare.
«Preferisci lui a tua sorella?» mi chiese incredulo, le braccia incrociate sul tavolo e gli occhi che tentavano di leggere la mia espressione rilassata e risoluta.
«Preferisco lui a tutto, forse non mi sono spiegato,» gli risposi senza pensarci su, e mi pulii le labbra col fazzoletto.
«Ma che cazzo ha ‘sto ragazzo? T’ha fulminato, t’ha fatto qualche maleficio,» ne concluse lui tornando improvvisamente indietro con la schiena e aprendo le braccia, quasi a dire che ci rinunciava a farmi ragionare. Io alzai le spalle, sorrisi e finii la mia cioccolata senza replicare. Probabilmente sì, mi aveva lanciato qualche incantesimo. E non avevo intenzione di cercare la contro-maledizione.
---
Con Valerio mi sentivo ogni giorno, ma non eravamo riusciti a chiamarci nemmeno per mezzo minuto, e ci limitavamo a scambiarci messaggini, cosa che io, da buon vecchio caprone, sapevo fare con limitata dimestichezza. Non potevamo chiamarci perché, in poche parole, suo padre gli stava col fiato sul collo. Sempre. 24 ore su 24. E io mi sentivo come quei carcerati che non possono fare una chiamata ai familiari. Impossibilitato dietro una fila di sbarre. Non biasimavo suo padre, anche io mi sarei comportato così, se non peggio. Quindi cercai di farmi bastare gli sms, i suoi chilometrici, i miei stringati, spesso ridotti a una frase, proprio perché non ero abituato a scrivere messaggi, e quel telefonino touch screen di ultima generazione che mi avevano regalato Guido, Sara e Francesco al mio compleanno non mi aiutava per niente. Spesso lui mi chiedeva se fossi arrabbiato o triste, o se fosse successo qualcosa, e quando io gli chiedevo per quale motivo lo pensava, mi scriveva che le mie frasi drastiche lo preoccupavano. Gli chiedevo cosa intendeva per frasi drastiche, e lui diceva che mettevo il punto dopo ogni frase, e che lui lo mette solo quando è piuttosto arrabbiato o non ha voglia di parlare. In effetti, notavo che i suoi sms erano pieni di punti esclamativi, punti di sospensione, e smiles di ogni tipo, alcuni dei quali erano un vero mistero per me, ma mi vergognavo di chiedergli il significato. Tipo quell’ “XD” inquietantissimo, o quel “:3” altrettanto inquietante. Io gli dicevo che doveva avere pazienza, ma io scrivevo in quel modo e già facevo fatica, e che sarebbe stato meglio se potessi chiamarlo, anche solo per cinque minuti. Ma lui mi negava questa possibilità, dicendo che già per scrivere qualche sms si nascondeva il cellulare dietro la gamba o sotto le lenzuola o fingeva di avere la vescica sensibile e scappava in bagno, e quando suo padre lo vedeva scrivere, quello si inventava di star parlando con uno della facoltà. Infatti sulla rubrica mi aveva salvato con il nome di “Angelo”, sostenendo di avere davvero un compagno con quel nome, ma di non essersi mai preso la briga di chiedergli il numero. Quando stavo già iniziando ad essere geloso di quell’Angelo, lui mi disse che era un nerd allucinante, completo di faccia piena di brufoli, coi suoi fumetti sempre dentro la borsa e che si divorava tra una lezione e l’altra, seduto in corridoio, rigorosamente per terra, e con cuffie enormi collegate a un cellulare più enorme delle cuffie.
Quindi eravamo di nuovo lì, a scambiarci messaggi mentre suo padre era nella stanza accanto e io ero in macchina col riscaldamento acceso, pronto a raggiungere casa di mia sorella.
Vorrei sentire la tua voce…” mi scrisse, e io sospirai automaticamente.
A chi lo dici.
Ma non mi importa niente, a mezzanotte ti chiamo, dovesse cadere il mondo!
Sorrisi tra me e me e mi impegnai a scrivere con due mani, la sigaretta spenta appesa alle labbra.
Puoi far finta di dare gli auguri a un amico.
O posso chiamarti e fregarmene XD Tanto cosa può fare più di rimproverarmi?
Di nuovo quel misterioso “XD”. Mi ripromisi di chiederne il significato al più presto.
Proibirti di rivedermi al tuo ritorno?
Non può…
Guardai l’orario lì accanto al contachilometri, e mi accorsi di essere in leggero ritardo, cosa decisamente non da me. Ma mi dissi che se c’era di mezzo Valerio potevo anche prendermi tutto il tempo del mondo, e tornai con gli occhi sul luminosissimo display del cellulare.
Certo che può. Prima di tutto può portarmi in tribunale accusandomi di sequestro di persona e, dopo aver vinto la causa, può affibbiarti un paio di poliziotti che ti riportano a casa ogni volta che tenti di cambiare strada.
Non lo farebbe mai… Oh Dio, che prospettiva terrificante… entrerei in crisi depressiva.
Sì, perché ti sentiresti in gabbia.
No, perché non potrei più vederti! Capra!
Giusto, come avevo potuto non pensarci? Credevo che un giovinastro come lui tenesse più alla libertà e all’indipendenza che a un vecchio caprone come me. Mi dissi che, davvero, avevo 35 anni, non 90, dovevo piantarla di aggiungermene altri trenta sulle spalle. Stetti a ponderare su cosa scrivere nel messaggio successivo, ma me ne arrivò un altro prima che iniziassi a scrivere.
Sono quattro giorni che non ci vediamo. Quattro giorni che non dormiamo insieme, quattro giorni che non ti preparo la colazione, che non mi scarrozzi in macchina, che non mi dici che dovrei studiare di più, che non facciamo l’amore. Non credevo che il distacco potesse pesarmi tanto. In alcuni momenti della giornata non riesco a sopportarlo. L’altra mattina ero in piedi davanti al frigo a versarmi del latte, e m’è venuto il dejà vu di quella volta che m’hai sbattuto contro il frigo, hahah! Tutta colpa del colore del frigo dei miei nonni, è uguale al tuo!
Mi cadde la sigaretta di bocca e probabilmente divenni di una tonalità simile al viola. Mi schiacciai il cellulare sulla coscia e feci qualche lungo respiro prima di continuare a leggere –perché sì, aveva scritto un messaggio chilometrico in due minuti, quando io ce ne mettevo cinque a scrivere un paio di frasi -.
Mi manca addormentarmi spalmato su di te. Mi manca l’odore che emaniamo dopo il sesso. E sono solo quattro giorni! Pensa a quando dovrò tornare giù quest’estate per ben due mesi! Mi lego una delle bocce di mio nonno al piede e mi affogo!
Mi immaginai la scena e, sinceramente, mi venne da ridere. Forse più per non pensare al fatto di dover stare senza Valerio per due lunghi, lunghissimi, interminabili mesi. Avevo il magone al solo pensiero.
Allora, prima di tutto non può davvero mancarti il sesso! Prima che partissi l’abbiamo fatto, tipo, cinque volte di seguito? Ero stremato, pensavo che il mio amico qui non potesse alzarsi mai più, era rosso e bruciava da morire, e tu pure eri spaccato in due e, immagino, soddisfatto. Abbiamo finito il pacco maxi di preservativi, usando la scusa del “Facciamolo tanto, così ci basta per una settimana”, ma possibile che tu non ne abbia abbastanza?
Guardai l’orologio: ero in ritardo di già mezz’ora, e mia sorella iniziava a chiamarmi sull’altro telefono, quello con la scheda wind, vecchio ma sicuramente più semplice da utilizzare. Risposi velocemente mentre leggevo il messaggio di Valerio e sogghignavo. Dissi a Simona che stavo parlando con una persona e che avrei fatto un altro quarto d’ora di ritardo, poi chiusi la comunicazione con un Michele che urlava di aver paura di Babbo Natale.
…Cioè, dopo tutte le carinerie che ti ho detto io, romantico sino al midollo, sino a sembrare una ragazzina su un blog glitterato, tu mi rispondi dicendo che sono un sessuomane?
Non credo che esista come parola.
Non fare il saputello!
Risi nella mano chiusa a pugno, poi mi piegai a cercare la sigaretta che m’era caduta mentre pensavo a cosa rispondere. Me l’accesi e abbassai il finestrino, nonostante il freddo che entrava nelle ossa.
Comunque, lo sai che io non sono molto romantico. Non riesco a esserlo neanche se mi sforzo e, anzi, mi sono anche raddolcito parecchio da quando sto con te.
Mi piace il suono…
Di cosa?
“’Da quando sto con te’. Stiamo insieme, non mi sembra vero.
Anche se non mi è chiaro da quanto tempo.
Ammisi, sperando che non si arrabbiasse troppo.
Neanche io… Voglio dire, non abbiamo fatto nulla di ufficiale, e in realtà non credevo che stessi già considerando la nostra relazione come qualcosa di impegnato, dopo così poco tempo. Pensavo fossi più diffidente XD
Ma infatti lo sono. Non con te, però. Sei troppo adorabile, e non sono riuscito a starti lontano. Sei stato qualcosa di serio da subito, per me.
Scrissi, di getto, e mi accorsi anche di essere diventato più veloce nella composizione dei messaggi. Che stessi ringiovanendo a poco a poco?
Vedi che sei in grado di essere romantico? Sto squittendo come una ragazzina. E comunque, se non abbiamo ancora una data ufficiale, possiamo crearcela :)
Quando torni?
Sì, quando torno ci fidanziamo ufficialmente ;)
Non davanti al prete, vero?
Ti pare? Io neanche credo in Dio! Adesso devo scappare, reclamano il mio aiuto per il cenone!
Mi dispiacque dover terminare la nostra conversazione, che aveva preso decisamente  una piega piacevole, ma mi dissi che dovevo anche staccarmi dal cellulare ogni tanto – ero sempre fisso su quel dannato aggeggio aspettando un segno di vita da  parte di Valerio.
E hanno ragione. Vai a renderti utile.
Va bene, prof :) A mezzanotte ti chiamo, tieni il cellulare a portata di mano! Ti amo.
Mi uscì dalla gola un suono strozzato, come il guaito di un cane. Ero ridicolo.
Ti amo anche io. Tantissimo.
---
Quella sera non ci fu bisogno che io dichiarassi ad alta voce, al momento del brindisi, davanti a mia sorella, mio nipote, il compagno di mia sorella e i suoi genitori e i suoi fratelli con figli annessi che io stavo insieme a un ragazzo a cui insegnavo la letteratura italiana. Questo perché, in realtà, l’unica che volevo che sapesse, più che altro per non farmi domande imbarazzanti ogni qualvolta trovava indumenti sparsi per casa, era mia sorella. E lei lo venne a sapere da sé, scorrendo la conversazione tra me e Valerio sul mio iphone. Sapevo bene che Simona aveva preso il vizio di leggere i messaggi altrui da mia madre, e quindi, probabilmente, gli mollai il cellulare sotto il naso per poi andare in bagno ben conscio del fatto che si sarebbe fatta un giro tra le mie conversazioni in quel momento di pausa tra una portata e l’altra. E comunque, l’arrivo di un messaggio di Valerio che recava il testo “Ah, salutami tanto Michele! :D” non aiutò a diminuire la visibilità del mio cellulare, che si mise a fischiare e a tremare proprio accanto alla sua mano, che si mosse automaticamente ed aprì con nonchalance il messaggio, nel caos generale.
Quando tornai dal bagno, la trovai con ancora il mio telefono in mano, mentre leggeva velocemente i messaggi, con gli occhi che scattavano a destra e a sinistra, l’espressione neutra, senza la benché minima preoccupazione di mettere giù il cellulare al mio arrivo. Io stesso non feci niente per toglierle dalle mani l’aggeggio. Anzi, aspettai pazientemente che finisse di leggere, la guancia appoggiata alla mano e il gomito appoggiato sul tavolo, proprio secondo il Galateo.
«Valerio è il tizio strano che gira per casa tua?» mi chiese ad un certo punto, senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Sì,» dissi con un sospiro, pensando che forse forse non era stata proprio una brillante idea lasciare lì il telefono. Un terzo di quella conversazione verteva sul sesso. E non avevo poi così voglia che mia sorella leggesse i fatti miei, o almeno, non i fatti che riguardavano la mia vita sessuale. Poi Valerio era schietto e sincero anche negli sms, e non si tratteneva mai quando voleva dirmi qualcosa di particolarmente spinto.
«Non hai letto abbastanza?» le chiesi quindi, allungando la mano in attesa del mio telefono. Lei sbuffò e me lo riconsegnò appoggiandosi nella mia stessa posizione, ma rivolta verso gli ospiti che chiacchieravano allegramente tra di loro, senza degnarmi di parola o sguardo. Alzai le spalle e presi un sorso di vino, il mio sospiro coperto dalle urla dei bambini che giocavano attorno al tavolo. Poi Simona, evidentemente esclusa dalla conversazione dei parenti di Lorenzo, si voltò di scatto verso di me, che stavo finendo di mangiare gli spaghetti alle cozze.
«Fai proprio schifo,» mi disse, dritto in faccia. Io la guardai con la bocca piena e alzai le spalle, come a dire che non potevo farci niente. «Io non ci metto più piede in casa tua,» continuò, e io alzai nuovamente le spalle guardando nel piatto. «Non te ne frega niente?!» mi chiese dandomi un colpo sulla spalla, anche piuttosto potente. Alzai lo sguardo e mi pulii la bocca col fazzoletto rosso in tinta con la tovaglia.
«Mi basta lui,» ammisi, piuttosto lucido, nonostante avessi già tracannato un po’ di alcol.
«Eh?»
«Come hai potuto leggere dai messaggi, sono particolarmente preso. Lo amo».
«Ah, lo ami?» ripeté con una smorfia di derisione. «Sei patetico, lo sai, vero?» mi fece retoricamente. Non risposi e presi un altro sorso di vino.
«Vuoi che vada via?» domandai invece, con Lorenzo che adesso aveva smesso di chiacchierare e ci guardava leggermente preoccupati.
Fischiò nuovamente il mio cellulare lì accanto al piatto, e Simona lo prese prima di me e lesse il messaggio. “Salutami anche tua sorella, ovviamente!” diceva il testo. Lei distolse lo sguardo, forse infastidita, e mi restituì il cellulare.
«…Secondo me è troppo per te,» commentò guardando altrove, e io sorrisi infilandomi il cellulare in tasca.
«Lo so, lo penso anche io,» confermai  sgranocchiando un grissino.
«Voglio dire, questo tizio, oltre ad essere l’unico a far davvero divertire Michele, sa cucinare, tiene in ordine la casa, ha sempre voglia di fare sesso e si ricorda di me e ti chiede di salutarmi, nonostante io sia simpatica come un granchio nelle mutande. Tu invece fai sostanzialmente schifo,» mi ricordò con nonchalance, e io alzai le sopracciglia e strinsi le labbra.
«Sì, okay, grazie».
«Ed è anche nel fior fiore della gioventù, cosa pensa di fare infognandosi con un uomo di mezz’età?» continuò a infierire, ad affondare il coltello nella piaga.
«Ho 35 anni,» le feci notare.
«Anche io, ma ne sento addosso molti di più. Tu no?»
Non risposi, perché ovviamente me ne sentivo di più, e mi accorsi che io e mia sorella eravamo più simili di quanto pensassi. In quegli anni passati in due abitazioni diverse, mi ero dimenticato di quanto potessimo pensarla uguale. Giocherellai con un grissino spezzato arricciando le labbra, poi sentii caldo sulla spalla, e l’istante successivo mia sorella mi stava avvolgendo in un abbraccio particolarmente sentito. Le guardai i capelli stranito, poi incrociai lo sguardo di Lorenzo, interrogativo tanto quanto il mio, e portai istintivamente il braccio sulle spalle di Simona dando timide pacche, come facevo ogni qualvolta mi abbracciavano.
«Fai schifo,» ribadì, ma con la voce commossa, quasi stesse per piangere.
«E… è un bene?» domandai confuso, e quella mi annuì sulla spalla.
«”Fai schifo”. Me lo diceva papà, quando tornavo a casa ubriaca o puzzolente di fumo, o quando scopriva che m’ero fidanzata con un tizio strano,» mi disse, così dal nulla, riportando alla memoria vecchi, vecchissimi episodi.
«E aveva ragione».
«E mi paragonava sempre a te, mi faceva notare quanto tu fossi perfetto e quanto io facessi schifo. Invece adesso sei tu che fai schifo, fai più schifo di me, ti scopi un ragazzino! Ho avuto un complesso di inferiorità per 35 lunghissimi anni. E adesso, finalmente…» Sembrò quasi asciugarsi delle lacrime, e sicuramente tirò su col naso. Sciolse l’abbraccio e mi diede un buffetto sulla guancia. «No, non voglio che tu vada via. Mi piace stare in tua compagnia, adesso che so che fai schifo,» mi disse quindi, un sorriso che raramente le avevo visto in faccia, gli occhiali appannati.
«Magari potresti anche non ricordarmelo ogni tre secondi,» le chiesi indirettamente, e Lorenzo, giustamente, venne a vedere se fossimo pazzi o quasi.
«E’ successo qualcosa?» si piegò tra di noi, e Simona rise quasi isterica muovendo la mano.
«Niente. Andrea fa schifo. Non è fantastico?» fece euforica. Io e Lorenzo ci guardammo shockati, poi tornammo con gli occhi su Simona e le demmo due pacche sulla schiena.
«Aiutami a servire il pesce arrosto, va,» le disse quindi Lorenzo incitandola ad alzarsi. Lei annuì entusiasta e lo seguì al piano di sopra, dato che mangiavamo nel largo seminterrato. Mi rilassai sulla sedia e feci un lungo respiro. Era andata. A quella pazza non importava nulla del fatto che me la facevo con un ragazzo, quanto di sentirsi migliore di me. Come se non lo fosse mai stata. Probabilmente, l’immagine che mio padre le aveva dato di me era ancora troppo forte per essere sostituita dal me attuale.
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Scattò la mezzanotte, e quasi saltai dallo spavento per il tempismo con cui il mio cellulare si mise a vibrare furiosamente nella tasca dei pantaloni. Risposi frettolosamente – il costoso iphone rischiò di scivolarmi dalle mani -, mentre i bambini  si preparavano ad aprire, finalmente, i loro regali.
«Amore,» fece la voce di Valerio ancor prima che potessi dire il mio “Pronto”. «Buon Natale!»
«Puntuale, per non dire svizzero,» risi, e mi spostai in un angolo più silenzioso del seminterrato. «Buon Natale anche a te».
«Mi hai salutato Michele?»
«Sta aprendo i regali adesso,» dissi buttando un occhio ai tre bambini che scartavano i pacchi come fossero posseduti dal demonio.
«Potevi salutarlo prima!»
«Prima stavo dicendo a mia sorella di me e te,» dissi girandomi nuovamente verso il muro, le urla a ultrasuoni dei bambini che mi uccidevano l’orecchio libero dal cellulare.
«Ah, beh, allora sei perdon- come, come? Oddio. E come l’ha presa?» fece, improvvisamente nervoso, ché sicuramente non s’aspettava per nulla al mondo una notizia del genere e tanto improvvisa.
«Mi ha detto che faccio schifo,» alzai le spalle e mi mordicchiai un’unghia.
«Cazzo. Cioè, scusa. Mi dispiace».
«No, è okay. E’ un complimento detto da lei. Ti spiegherò meglio quando tornerai».
«Va bene,» disse, mesto mesto, e subito dopo, il mio orecchio appoggiato al ricevitore fu trafitto da urla disumane. Anche casa di Valerio doveva essere invasa dai bambini. Dio, che scocciatura. «Non hai idea di quanto vorrei essere lì con te. Solo sentire la tua voce mi fa uscire il cuore dal petto,» mi comunicò poi, la voce commossa.
«Pure io sono tutto emozionato,» confessai, e già lo si capiva dal mio tono di voce e da come avevo preso a stringere la camicia più o meno elegante all’altezza del petto.
«Ahahah! Vorrei vedere la tua faccia!» rise lui, e io mi morsi l’interno della guancia: la sua risata era qualcosa di extraterrestre, mi stimolava le cellule nervose.
«Ti manderei una foto, ma non sono fotogenico,» dissi fintamente rammaricato, e me lo immaginai mentre scuoteva la testa scoraggiato.
«Ovviamente. Muoviti, mandami una foto, così mi sento un po’ più vicino a te. Fanne una anche a Michele».
«Te ne fai una anche tu, quindi?» domandai tentando di non utilizzare un tono malizioso. Come se ne fossi davvero in grado.
«Come la vuoi? Da nudo o da vestito?» fece lui di rimando, una risata trattenuta, la domanda maliziosa, ma il tono da ingenuo, come sempre.
«In mutande?» proposi, e lui fece un suono con la bocca.
«Andata».
Sentii la voce di Bruno intimare al figlio di chiudere la comunicazione con un “Metti via ‘sto cellulare del demonio”, e quindi Valerio parlare con un volume decisamente più basso, tanto che feci fatica a sentire quello che diceva.
«Devo già lasciarti, mi dispiace. Ti giuro che la notte del sei gennaio stiamo tutta la notte svegli a parlare,» mi disse sommessamente, le parole che si intendevano appena.
«Dubito che tu voglia solo parlare,» feci divertito e lui ridacchiò.
«Guarda, evito di ricordarti tutte le volte che mi hai detto di “avere voglia” solo perché devo chiudere. Ancora buon Natale, saluta tutti. Ti amo da diventare matti! Ciao!»
«Ciao, amore».
Mi voltai, e avevo mia sorella in piedi a pochi centimetri da me, le mani sui fianchi, la faccia da “Sto per prenderti in giro e lo farò per il resto dei tuoi giorni senza mai stufarmi”.
«Ciao, amore,» mi fece il verso con la faccia deformata in modo orribile. «Ma vedi te se devo sentire mio fratello dire “amore” a un ventenne, oltretutto maschio. Ah, i drammi della vita, a cosa possono portare!» alzò la mano al cielo con fare teatrale e mi diede la schiena, felice di avere qualcosa con cui rompermi ulteriormente l’anima ogni giorno. Sospirando, cercai nell’iphone la fotocamera, poi raggiunsi il tavolo ormai sparecchiato e su cui i bambini aprivano e provavano i regali e puntai la fotocamera su Michele.
«Michi,» lo chiamai, e quello alzò la testa rossa solo dopo il mio terzo richiamo. «Mi sorridi?»
Lui mi guardò storto, ché mai gli avevo fatto una richiesta del genere. Quindi non si degnò di sorridermi e continuò a guardarmi in cagnesco, le mani impigliate in un nastro rosso. «Valerio vuole una tua foto,» provai a dire, e quello si illuminò all’istante, ridendo al solo nome del ragazzo. Ne approfittai per scattare la foto e fortunatamente venne bene al primo colpo.
«Lo chiami al telefono? Me lo passi?» provò a chiedere Michele, ed era già pronto a lasciar perdere i regali, saltar giù dalla sedia e urlarmi che voleva per forza parlare con Valerio sennò non mi faceva più amico. Ma Lorenzo lo precedette riportandolo sulla sedia e mostrandogli un regalo gigantesco ancora da aprire. Inutile dire che quel regalo lo ipnotizzò e lo convinse a restarsene in ginocchio sulla sedia. Lorenzo mi strizzò l’occhio con fare complice, e quello voleva poter dire due cose: A, mia sorella gli aveva raccontato già tutto ridendo istericamente e ripetendo quanto fossi uno sporco pedofilo e quanto facessi schifo; B, probabilmente era il più furbo di tutti i protagonisti della mia storia e aveva capito tutto ancor prima di me e Valerio. Ma non prima di Giulio, quello no, ché lui era un pervertito, e certe cose le sapeva addirittura prevedere.
Sospirai un’altra volta dopo aver sorriso grato a Lorenzo, poi mandai velocemente la foto di Michele a Valerio. Dopo cinque minuti, mi arrivò una foto in risposta di due bambini, il più grande coi capelli lisci e castani, due occhioni neri e un paio di occhiali dai bordi azzurri, la più piccola coi capelli ricci e biondo cenere, occhi altrettanto neri e la mano in bocca, che guardava diffidente l’obiettivo. Sotto la foto il testo diceva: “Questi sono i miei due cuginetti :) Michi è bellissimo come sempre. Tutto sua madre. Quindi tutto suo padre, visto che siete identici, hahaha! Ok, la pianto di rendermi ridicolo. Mandami una tua foto, muoviti :D
Non se ne parla.” Gli scrissi drastico. Perché col cavolo mi facevo una foto da solo o me la facevo fare da qualcuno, o andavo in bagno o farmela allo specchio o che altro. Avevo i brividi al solo pensiero.
Se te la mando io?
Non te la mando in nessun caso.
Per un attimo desiderai che il mio cellulare non fosse l’unico a prendere la linea nel seminterrato. Ma poi dovetti rimangiarmi i pensieri, se mai potesse esistere tale espressione. Mi fischiò di nuovo il cellulare segnalando l’arrivo di un mms, e quando l’aprii trovai una foto di Valerio. Conoscendolo, mi aspettavo una foto in chissà quale posizione provocante, ma in realtà se ne stava seduto ai piedi di un letto, non sapevo se nudo o meno, visto che si vedevano solo le spalle scoperte e le ginocchia – era seduto con le gambe al petto – e aveva un cappello da Babbo Natale in testa. Un ciuffo particolarmente lungo e biondo spuntava dal cappello e andava verso l’alto, non so secondo quale legge fisica. Faceva un sorriso un po’ imbarazzato, e gli occhi riflettevano il display del cellulare. Sentii una fitta al cuore che poi si propagò sino all’inguine. Era sin troppo carino, e presto tutta quella carineria mi avrebbe ucciso di certo. Salii quasi di corsa al piano di sopra senza dare spiegazioni a nessuno e andai a chiudermi in bagno. Sì, c’era un bagno anche sotto, ma probabilmente avrei emesso qualche rumore molesto mentre mi masturbavo sulla foto del mio coinquilino. Me lo immaginai mentre gemeva sotto di me con addosso solo quel cappello lì. E magari un nastro colorato, quello per i pacchi regali, che gli circondava spalle, braccia, gambe e fianchi. Non credevo che il Natale mi avrebbe fatto quest’effetto, un giorno.
Mi arrivò un messaggio sul più bello, ed ebbi pure il coraggio di aprirlo.
Mi sto masturbando pensando a te.” Diceva il testo. Mi si rizzarono le punte dei capelli, e venni l’istante dopo, nel pezzo di carta igienica che tenevo pronto nell’altra mano. Feci una smorfia e mi pulii per bene, sperando con tutta l’anima che mia sorella non mi avesse seguito e avesse origliato tutti i miei possibili rumori. Lavai le mani nel lavandino e mi sistemai i capelli, sorridendo al mio riflesso decisamente ringiovanito nonostante quello che avevo appena fatto, e finalmente risposi al messaggio.
Anche io. E grazie al tuo messaggio sono venuto.
Uscii dal bagno e andai a sedermi sul divano nel salotto buio, sollevato dal fatto che non ci fosse l’ombra di mia sorella.
Quando torno scopiamo come animali :)
Presi a tossire rumorosamente quasi mi fosse andato di traverso del fumo, e per un momento pensai che mi stesse uscendo del sangue dal naso.
Come puoi dire una cosa del genere e poi metterci vicino il sorriso?!” scrissi alquanto scosso, e la risposta arrivò qualche secondo dopo.
Quando torno scopiamo come animali. Meglio?
Scossi la testa e digitai, più velocemente del solito,
Non scrivermi più.
Perché???
Sei scurrile.
Ma va va. Dopo tutto quello che mi hai fatto…
Basta.
Ti odio.
La cosa è reciproca.
Non mi scrisse per un po’, e pensai che si fosse offeso per davvero. Stavo già per chiedergli scusa, quando mi arrivò la sua terza foto della serata: era vicinissimo all’obiettivo, tanto che si vedeva solo la sua faccia e un sorriso a trentadue denti. Gli occhi erano strizzati, quasi completamente chiusi, e in un angolo libero della foto si intravedeva quello che sembrava il muso di un gatto.
Questa è la mia faccia happy dopo essere venuto :D
Mi chiesi se esistesse un limite all’amore provato per una persona. Mi chiesi se sarei mai stato in grado di smettere di amarlo. Mi chiesi cosa sarebbe successo se fosse stato lui a smettere di amarmi.
Per il momento, pensai, mi salvo la foto e me la guardo quando mi sento solo. Gli diedi un’altra occhiata: era bellissimo pure con la faccia deformata  e i denti in primo piano. Sospirai, ancora una volta. Poi mi dissi che anche io mi sarei fatto una foto. Il vecchio Andrea non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo, ma il nuovo Andrea si piaceva, e anche parecchio. Attivai il flash sperando che non mi accecasse. E sperando che anche Valerio guardasse quella foto quando sentiva di aver bisogno di me. Passandomi il pollice sul filo rosso legato al mignolo, scesi nuovamente nel seminterrato, e vidi mia sorella già pronta a prendermi nuovamente in giro.
Il Natale più bello dopo anni e anni di inerzia.


 







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This chapter is HUGE. HUGE, I tell you. And I write HUGE in capital letters just to make sure you understand that this chapter is, like, super HUGE.
Più che altro scrivevo senza accorgermene. Vado a periodi, ovviamente, come tutti. Posso rimanere inattiva una settimana e poi scrivere dieci pagine e oltre di word in due sole nottate – sì, uso la notte per scrivere, sono molto più sveglia.
Simona è adorabile, no? Cioè, è totalmente una figa, dai, hahaha, rido da sola perché ho fatto un personaggio piuttosto strambo e quindi mi vien da ridere se ci penso. Me la immagino a ridacchiare come una poco sana di mente, un po’ come… non so come spiegare l’immagine che ho in mente… tipo Rossana in… Rossana. Il cartone animato. Quando si prendeva gioco di Heric, e poi rideva tutta soddisfatta, con la bocca a triangolo e gli occhi spiritati. Ecco.
Oh, ho trovato un’immagine, è perfetta!!!


Quella è Simona da ragazzina. Ha pure lo stesso colore di capelli che m’immagino.

Spero che la roba dei messaggini non vi abbia annoiato. Io, personalmente, mi sono divertita un mondo a farli comunicare via sms come una coppia di ragazzini <3 Quelli che fissano il cellulare in attesa di quel magico messaggino che possa migliorare loro la giornata.

Bonatti l’ho riportato sulla scena perché mi stava troppo simpatico. E poi perché volevo che Andrea ammettesse davanti a un quasi sconosciuto che ha una relazione con uno studente. Il mio Andrea sta crescendo. Il mio bambino *si asciuga lacrimuccia*.
E comunque, il Natale che ho descritto è uguale a quello che passo io più o meno ogni anno, solo che di solito io sono più partecipe. Non me ne sto in un angolo a parlare col mio amante di quindici anni più piccolo, e poi comunque il mio cellulare non prende lì sotto. I due bambini descritti (i cugini di Valerio) sono i miei cugini. Federico e Francesca. Non interessava a nessuno, mmh.

Lorenzo non l’ho approfondito come personaggio perché non voglio farlo. E’ uno molto paziente e gentile, comunque, e che capisce al volo le cose. Un po’ come me, solo che io sono rompiballe. Avessi capito che Andrea se la faceva col ragazzino, sarei andata lì a dire: “Eeeh, guarda che lo so che te la fai…” eccetera. Come Giulio, stessa roba irritante. Giusto perché l’ho già fatto.
E comunque, chi se ne importa di me! Vi saluto, un bacio a chi segue ancora! La storia sta volgendo al termine, per vostra somma gioia XD



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Mirokia

   
 
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