Cap. 25
Bonatti mi invitò a bere un goccio in un bar in
centro durante le vacanze di Natale, e il che mi stupì, visto che non è che io
e lui fossimo poi così amiconi. Lui non faceva che trattarmi a merda – si
comportava così con il mondo, in realtà – e io non facevo che ignorarlo o
dargli corda se proprio era in uno dei suoi giorni no. Quindi avevo accettato
titubante, e anche perché mi sentivo piuttosto solo, visto che Valerio, come
lui stesso aveva promesso al padre, era già partito per la Puglia, come faceva
ogni anno a Natale. Era solo il giorno prima della vigilia, e lui doveva
starsene lì sino al sei gennaio, perché a sua detta, suo padre ci teneva a
regalare le calze della befana piene di dolciumi ai suoi due nipotini. Io ero
solo in casa da tre giorni, e già mi stavo deprimendo. Mi guardai la mano prima
di entrare nel bar in cui mi aveva dato appuntamento il mio collega: sul
mignolo troneggiava un filo di lana rosso che Valerio aveva strappato dal suo
maglioncino poco prima di partire e che poi aveva legato stretto al dito, col
rischio di bloccarmi la circolazione. Poi aveva tagliato il suddetto filo e si
era legato l’altra metà al proprio mignolo. “Così ti ricordi che siamo connessi
anche se non ci sono. Guai a te se lo togli.” Mi aveva intimato, col cipiglio
divertito, ben conscio che una roba del genere non avrebbe fatto altro che
darmi fastidio, e che me la sarei tolta seduta stante. Ma a quanto pareva,
avevo davvero iniziato ad impazzire, visto che era tre giorni che mi lavavo le
mani senza la benché minima intenzione di tagliare via quel misero pezzo di
lana attorno al dito. E di nuovo, quel filo rosso mi ricordava qualcosa, ma non
riuscivo ancora a mettere bene a fuoco l’immagine stampata da qualche parte nel
mio cervello.
Sospirai ed entrai nel tiepido locale odoroso di cioccolata calda, e vidi Bonatti discutere col cameriere, anche in modo piuttosto
acceso. Mi dissi che avevo fatto malissimo ad andare incontro a una tale
scocciatura quale era Bonatti, e alzai gli occhi al
cielo, spinto a rimanere sul posto solo dalla vocetta
nella mia testa – che poi era quella di Valerio – che mi diceva di prendere in
mano la mia vita e di piantarla di vivere all’ombra degli altri. Bonatti si alzò dal tavolino tondo in cui era stravaccato,
disse “Va bene, va bene!” al giovane cameriere, poi mi prese dal braccio e mi
trascinò fuori con un “Sediamoci fuori, ché non mi fanno fumare dentro, ‘sti bastardi”. Neanche mise piede fuori che si accese la
sua benedetta sigaretta, e solo dopo si allacciò il cappotto e mi fece segno di
accomodarmi in un tavolino fuori. Ed eravamo gli unici seduti lì al gelo. Solo
per Bonatti e la sua dannata sigaretta. “Valerio,
dammi la forza”, mi ripetevo in testa, e mi sentivo anche piuttosto ritardato.
«A cosa devo questo invito?» chiesi dopo essermi rotto del silenzio disturbato
soltanto dagli sbuffi di fumo del mio collega.
«Ti vedevo strano e allora ti ho invitato,» rispose lui con nonchalance, le
gambe accavallate e la mano libera nascosta nelle cosce.
«Dove mi vedevi strano?» chiesi giustamente, visto che neanche mi ricordavo
l’ultima volta in cui l’avevo incrociato. Lui mi disse che gli ultimi giorni
prima delle vacanze natalizie entravo in facoltà che ero cupo e uscivo che ero
nero pece. Non arrabbiato, piuttosto depresso, triste, e disse che aveva deciso
che mi avrebbe invitato a bere qualcosa, visto che siamo colleghi e “sulla
stessa barca”. Quindi era sicuro che ci saremmo capiti come, insomma, membri
della “stessa squadra”. E ogni volta faceva in aria il segno delle virgolette.
Insopportabile.
«Il tuo malumore è dovuto a quello che è successo due settimane fa?» mi chiese,
la domanda in netto contrasto col suo solito tono menefreghista. Cos’era
successo due settimane prima?
«Ma… da quand’è che ti preoccupi per me?» gli chiesi
di rimando, e lui sbuffò rumorosamente e con scazzo una nuvola di fumo, facendo
poi segno a una cameriera di prendere le ordinazioni.
«Senti. Io non avevo un cazzo da fare stasera, tu nemmeno, ti ho invitato a
prendere un goccio per non passare la serata davanti a un film di serie B.
Faresti anche solo finta di apprezzare l’iniziativa?» mi chiese retoricamente,
con la cameriera lì in piedi al gelo, in attesa che quello si decidesse a
ordinare. Lo guardai con un occhio socchiuso e sollevai d’istinto il lato della
bocca in un sorriso, perché no, davanti a individui del genere proprio non
riesci ad incazzarti seriamente. Ti fanno un po’ pena, quasi tenerezza. Mi
voltai verso la povera cameriera infreddolita e le chiesi gentilmente se mi
potesse portare una cioccolata calda, mentre Bonatti
prima mi lanciò uno sguardo scandalizzato - molto probabilmente perché si
aspettava che prendessi qualcosa di alcolico – e poi ordinò con scazzo della
vodka liscia.
«Non capisco che tipo di problemi tu possa avere, comunque, se ci tieni, ti
darò corda. Cos’è che vuoi sapere?» gli domandai una volta che la ragazza fu
scappata dentro.
«Guarda che non sei costretto a parlare, eh, puoi anche andartene se vuoi,» mi
disse lui, a quanto pare infastidito da quel mio atteggiamento del tutto disinteressato.
«Vuoi sapere a cos’è dovuto il mio malumore? O se è vera la storia che me la
faccio con uno studente?» chiesi al posto suo, e a quel punto feci che
accendermi una sigaretta anche io, visto che a casa non lo facevo più per non
far respirare del fumo passivo al mio coinquilino.
«Non sono un pettegolo come credi, Ruggeri,» tentò di dire, ma lo bloccai con
un’espressione da “Ti prego, non portiamola per le lunghe, ché già ho poca
voglia di dare retta a qualsivoglia essere umano. Ascoltami e basta.”
«Entrambe le domande hanno un punto in comune: Valerio. Sì, me la faccio con
uno studente, si chiama Valerio Castelli, ha vent’anni, frequenta la facoltà di
lingue e letterature moderne e abita con me. Il mio malumore è dovuto a lui. Non
a causa sua, ma a causa della sua mancanza. E’ Natale e lui non può stare con
me. Fine». Accavallai le gambe e dedicai l’attenzione alla mia sigaretta e al
fumo che lasciavo uscire dalla bocca insieme al vapore acqueo, senza far caso
alla probabile espressione stupita ora dipinta sul volto del mio collega.
Durante il silenzio che seguì, mi preoccupai di finire la sigaretta e di
schiacciarla nel portacenere e di fare spazio alla cameriera in modo che
potesse lasciarci i nostri ordini.
«…Wow. Beh, Ruggeri, non credevo potesse piacerti il tordo,
ma questa tua confessione così spontanea ti rende onore, sai? Io ai miei tempi
non l’avrei fatto neanche morto. Devo dire che ti ho rivalutato. Mi piaci,
professore,» si decise quindi a dire, ma subito agitò le mani, certo di aver
detto qualcosa di fraintendibile. «Ovviamente non in quel senso, mi hai
capito,» e mandò giù la sua vodka liscia senza guardarmi in faccia neanche per
sbaglio. «Sei stato sempre così sicuro di te stesso?»
«Mai,» ammisi, le mani che formavano una coppa sopra la tazza di cioccolata
calda, nel tentativo di scaldarsi.
«Oh beh. Credo che il nuovo Andrea Ruggeri farà furore. Vuoi una sigaretta?» mi
aprì il pacchetto davanti al naso, quasi non avesse notato che avevo appena
spento la mia nel portacenere.
«Ti ringrazio, ma ho le mani congelate,» rifiutai col tono più gentile
possibile, ma quello sfilò una delle sue sigarette disgustose e me la ficcò in
bocca rischiando di farla cadere nella cioccolata.
«E prenditi ‘sta sigaretta senza fare la femminuccia! E non starmi depresso.
Quando torna il tuo cocco?»
«Il sei,» risposi infastidito dai gesti avventati di Bonatti.
Mi appoggiai la sigaretta maledetta sull’orecchio e portai la tazza fumante
alle labbra.
«Passa come un fulmine. Sei solo a Natale? Vieni a stare da me, semmai. So’
solo anch’io,» e il suo non era un tentativo di abbordaggio, solo la disperata
ricerca di una compagnia durante le feste. Doveva essere un uomo piuttosto
solo, col carattere che si ritrovava. Mi dissi che io dovevo stare zitto, visto
che non avevo un carattere migliore, e prima di Valerio ero anche più solo di
lui.
«Mi spiace, ma starò con mia sorella,» gli dissi alzando le spalle. Feci una
smorfia di dolore dovuta al calore della cioccolata quando s’abbatté sui miei
denti leggermente sensibili.
«Che immagino sapranno tutto della tua passione per le carni giovani».
Lo guardai scoraggiato e lui alzò immediatamente gli occhi al cielo e mi
rivolse un’espressione da: “Dai, sto solo scherzando un po’, che palle che
siete voi insegnanti di letteratura”.
«Sto pensando a come dirglielo. Temo che sarà il mio regalo di Natale per tutta
la famiglia».
«Che culo!» esclamò Bonatti, seconda sigaretta quasi
terminata. «Sennò, scusa, da quant’è che state insieme?»
«In realtà non so dirti neanche se stiamo ufficialmente insieme…
Voglio dire, come funziona oggi quando ci si fidanza? Ai miei tempi si faceva
un regalo alla ragazza, che fossero fiori o piccoli gioielli –di solito un
anello- e con quello si suggellava il fidanzamento. Voglio dire, i giovani
adesso come fanno?» chiesi particolarmente frettoloso, visto che, mi accorsi,
ero a corto di fiato.
«Firmano un contratto».
«Cosa?» domandai shockato, e quello spalancò gli occhi e appoggiò il pugno
chiuso sul tavolo.
«Dico, ma ti stai sentendo? Prima di tutto, appena hai pensato a un possibile
regalo di fidanzamento da fare al ragazzo, sei diventato tutto rosso e sei
partito come un treno a parlare a vanvera. E’ stata la tua frase più lunga da
quando ci siamo conosciuti, più o meno. Calmati, okay?» e mi fece notare con un
dito che stavo tentando di allargarmi il colletto della camicia sotto la
giacca, come avessi davvero bisogno di più ossigeno. «I ragazzi d’oggi non
usano anelli o cazzate simili. Mettono su facebook “Impegnato” oppure “Fidanzato ufficialmente con” se il partner ha facebook,
così possono far vedere a tutti con chi è che sono infognati. Tu hai facebook?»
«No».
«Allora, piscia, avrà messo “Impegnato”. Oppure, magari, se non è uno che segue
la moda, ti ha chiesto qualcosa tipo “Ma io e te cosa siamo?” oppure “Io per te
cosa sono?” oppure “Posso considerarmi il tuo fidanza-”»
«Sì, me l’ha chiesto! E io gli ho detto che se gli faceva piacere poteva
considerarmi tale,» esclamai quando riportai alla memoria i ricordi di me e
Valerio che passeggiavamo per mano accanto al piccolo parco giochi dietro casa
nostra. Casa… nostra? Nostra…
«Bene, quello è il giorno del vostro fidanzamento».
«…E che giorno era?!» realizzai di avere una pessima
memoria, e mi stampai in fronte le cinque dita.
«Lui se lo ricorderà».
«Ma con che faccia vado a chiederglielo? Pensa a quando lui verrà a farmi gli
auguri di buon anniversario e io cadrò dalle nuvole!»
Bonatti si strozzò col fumo tirato dal filtro e
schiacciò la sigaretta nel portacenere mentre tossiva in un pugno e si dava
colpetti sul petto. Quando tornò a respirare, aveva gli occhi rossi e la faccia
sconvolta.
«…Tu sei messo davvero male, amico mio. Sei nella
merda, te lo dico io. Mi sembra di stare in una puntata del Mondo di Patty, che
cazzo».
Abbassai gli occhi imbarazzato, pur non avendo idea di che diavolo fosse questo
Mondo di Patty. Sperai non una telenovela argentina.
«Quindi, sai dirmi almeno da quant’è che scopate? Perché scopate, vero?»
domandò ancora Bonatti riprendendo il filo principale
del discorso.
«Euf,» mi scappò, mimando anche con la mano la
quantità abbondante dei nostri incontri a letto. Ma non solo a letto, anche sul divano, sul tavolo, per
terra, contro la cucina, in piedi contro il frigo e l’armadio, sul gabinetto.
Cristo, anche sul gabinetto?! «Voglio dire, solo a volte,» mi corressi,
probabilmente rosso come un peperone. «E comunque…
sono tre mesi circa».
«E tu hai già intenzione di dirlo a tutta la famiglia? Non è un po’ precoce la
cosa?» mi fece notare, e io mi diedi qualche secondo per pensarci, poi,
«Non lo so, ma non mi importa. Adesso sono dell’umore di dire tutto a tutti,»
dissi con una mano sotto il mento.
«Non ti importa di come reagirebbe tua sorella?»
«No. E comunque, già non andiamo troppo d’accordo, non mi mancherebbe molto se
decidesse di tenermi fuori dalla sua vita,» spiegai senza troppa voglia, e
tirai giù altra cioccolata, ché a furia di parlare l’avevo lasciata freddare.
«Preferisci lui a tua sorella?» mi chiese incredulo, le braccia incrociate sul
tavolo e gli occhi che tentavano di leggere la mia espressione rilassata e
risoluta.
«Preferisco lui a tutto, forse non mi sono spiegato,» gli risposi senza
pensarci su, e mi pulii le labbra col fazzoletto.
«Ma che cazzo ha ‘sto ragazzo? T’ha fulminato, t’ha fatto qualche maleficio,»
ne concluse lui tornando improvvisamente indietro con la schiena e aprendo le
braccia, quasi a dire che ci rinunciava a farmi ragionare. Io alzai le spalle,
sorrisi e finii la mia cioccolata senza replicare. Probabilmente sì, mi aveva
lanciato qualche incantesimo. E non avevo intenzione di cercare la
contro-maledizione.
---
Con Valerio mi sentivo ogni giorno, ma non eravamo riusciti a chiamarci nemmeno
per mezzo minuto, e ci limitavamo a scambiarci messaggini, cosa che io, da buon
vecchio caprone, sapevo fare con limitata dimestichezza. Non potevamo chiamarci
perché, in poche parole, suo padre gli stava col fiato sul collo. Sempre. 24
ore su 24. E io mi sentivo come quei carcerati che non possono fare una
chiamata ai familiari. Impossibilitato dietro una fila di sbarre. Non biasimavo
suo padre, anche io mi sarei comportato così, se non peggio. Quindi cercai di
farmi bastare gli sms, i suoi chilometrici, i miei stringati, spesso ridotti a
una frase, proprio perché non ero abituato a scrivere messaggi, e quel
telefonino touch screen di
ultima generazione che mi avevano regalato Guido, Sara e Francesco al mio
compleanno non mi aiutava per niente. Spesso lui mi chiedeva se fossi
arrabbiato o triste, o se fosse successo qualcosa, e quando io gli chiedevo per
quale motivo lo pensava, mi scriveva che le mie frasi drastiche lo
preoccupavano. Gli chiedevo cosa intendeva per frasi drastiche, e lui diceva
che mettevo il punto dopo ogni frase, e che lui lo mette solo quando è
piuttosto arrabbiato o non ha voglia di parlare. In effetti, notavo che i suoi
sms erano pieni di punti esclamativi, punti di sospensione, e smiles di ogni tipo, alcuni dei quali erano un vero mistero
per me, ma mi vergognavo di chiedergli il significato. Tipo quell’ “XD” inquietantissimo, o quel “:3” altrettanto inquietante. Io
gli dicevo che doveva avere pazienza, ma io scrivevo in quel modo e già facevo
fatica, e che sarebbe stato meglio se potessi chiamarlo, anche solo per cinque
minuti. Ma lui mi negava questa possibilità, dicendo che già per scrivere
qualche sms si nascondeva il cellulare dietro la gamba o sotto le lenzuola o
fingeva di avere la vescica sensibile e scappava in bagno, e quando suo padre
lo vedeva scrivere, quello si inventava di star parlando con uno della facoltà.
Infatti sulla rubrica mi aveva salvato con il nome di “Angelo”, sostenendo di
avere davvero un compagno con quel nome, ma di non essersi mai preso la briga
di chiedergli il numero. Quando stavo già iniziando ad essere geloso di
quell’Angelo, lui mi disse che era un nerd allucinante, completo di faccia
piena di brufoli, coi suoi fumetti sempre dentro la borsa e che si divorava tra
una lezione e l’altra, seduto in corridoio, rigorosamente per terra, e con
cuffie enormi collegate a un cellulare più enorme delle cuffie.
Quindi eravamo di nuovo lì, a scambiarci messaggi mentre suo padre era nella
stanza accanto e io ero in macchina col riscaldamento acceso, pronto a
raggiungere casa di mia sorella.
“Vorrei sentire la tua voce…” mi scrisse, e io sospirai automaticamente.
“A chi lo dici.”
“Ma non mi importa niente, a mezzanotte
ti chiamo, dovesse cadere il mondo!”
Sorrisi tra me e me e mi impegnai a scrivere con due mani, la sigaretta spenta
appesa alle labbra.
“Puoi far finta di dare gli auguri a un
amico.”
“O posso chiamarti e fregarmene XD Tanto
cosa può fare più di rimproverarmi?”
Di nuovo quel misterioso “XD”. Mi ripromisi di chiederne il significato al più
presto.
“Proibirti di rivedermi al tuo ritorno?”
“Non può…”
Guardai l’orario lì accanto al contachilometri, e mi accorsi di essere in
leggero ritardo, cosa decisamente non da me. Ma mi dissi che se c’era di mezzo
Valerio potevo anche prendermi tutto il tempo del mondo, e tornai con gli occhi
sul luminosissimo display del cellulare.
“Certo che può. Prima di tutto può
portarmi in tribunale accusandomi di sequestro di persona e, dopo aver vinto la
causa, può affibbiarti un paio di poliziotti che ti riportano a casa ogni volta
che tenti di cambiare strada.”
“Non lo farebbe mai…
Oh Dio, che prospettiva terrificante… entrerei in
crisi depressiva.”
“Sì, perché ti sentiresti in gabbia.”
“No, perché non potrei più vederti!
Capra!”
Giusto, come avevo potuto non pensarci? Credevo che un giovinastro come lui
tenesse più alla libertà e all’indipendenza che a un vecchio caprone come me.
Mi dissi che, davvero, avevo 35 anni, non 90, dovevo piantarla di aggiungermene
altri trenta sulle spalle. Stetti a ponderare su cosa scrivere nel messaggio
successivo, ma me ne arrivò un altro prima che iniziassi a scrivere.
“Sono quattro giorni che non ci vediamo.
Quattro giorni che non dormiamo insieme, quattro giorni che non ti preparo la
colazione, che non mi scarrozzi in macchina, che non mi dici che dovrei
studiare di più, che non facciamo l’amore. Non credevo che il distacco potesse
pesarmi tanto. In alcuni momenti della giornata non riesco a sopportarlo.
L’altra mattina ero in piedi davanti al frigo a versarmi del latte, e m’è
venuto il dejà vu di quella volta che m’hai sbattuto contro il frigo, hahah! Tutta colpa del colore del frigo dei miei nonni, è
uguale al tuo!”
Mi cadde la sigaretta di bocca e probabilmente divenni di una tonalità simile
al viola. Mi schiacciai il cellulare sulla coscia e feci qualche lungo respiro
prima di continuare a leggere –perché sì, aveva scritto un messaggio
chilometrico in due minuti, quando io ce ne mettevo cinque a scrivere un paio
di frasi -.
“Mi manca addormentarmi spalmato su di
te. Mi manca l’odore che emaniamo dopo il sesso. E sono solo quattro giorni!
Pensa a quando dovrò tornare giù quest’estate per ben due mesi! Mi lego una
delle bocce di mio nonno al piede e mi affogo!”
Mi immaginai la scena e, sinceramente, mi venne da ridere. Forse più per non
pensare al fatto di dover stare senza Valerio per due lunghi, lunghissimi,
interminabili mesi. Avevo il magone al solo pensiero.
“Allora, prima di tutto non può davvero
mancarti il sesso! Prima che partissi l’abbiamo fatto, tipo, cinque volte di
seguito? Ero stremato, pensavo che il mio amico qui non potesse alzarsi mai
più, era rosso e bruciava da morire, e tu pure eri spaccato in due e, immagino,
soddisfatto. Abbiamo finito il pacco maxi di preservativi, usando la scusa del
“Facciamolo tanto, così ci basta per una settimana”, ma possibile che tu non ne
abbia abbastanza?”
Guardai l’orologio: ero in ritardo di già mezz’ora, e mia sorella iniziava a
chiamarmi sull’altro telefono, quello con la scheda wind,
vecchio ma sicuramente più semplice da utilizzare. Risposi velocemente mentre
leggevo il messaggio di Valerio e sogghignavo. Dissi a Simona che stavo
parlando con una persona e che avrei fatto un altro quarto d’ora di ritardo,
poi chiusi la comunicazione con un Michele che urlava di aver paura di Babbo
Natale.
“…Cioè, dopo
tutte le carinerie che ti ho detto io, romantico sino al midollo, sino a
sembrare una ragazzina su un blog glitterato, tu mi
rispondi dicendo che sono un sessuomane?”
“Non credo che esista come parola.”
“Non fare il saputello!”
Risi nella mano chiusa a pugno, poi mi piegai a cercare la sigaretta che m’era
caduta mentre pensavo a cosa rispondere. Me l’accesi e abbassai il finestrino,
nonostante il freddo che entrava nelle ossa.
“Comunque, lo sai che io non sono molto
romantico. Non riesco a esserlo neanche se mi sforzo e, anzi, mi sono anche
raddolcito parecchio da quando sto con te.”
“Mi piace il suono…”
“Di cosa?”
“’Da quando sto con te’. Stiamo insieme, non mi sembra vero.”
“Anche se non mi è chiaro da quanto
tempo.”
Ammisi, sperando che non si arrabbiasse troppo.
“Neanche io…
Voglio dire, non abbiamo fatto nulla di ufficiale, e in realtà non credevo che
stessi già considerando la nostra relazione come qualcosa di impegnato, dopo
così poco tempo. Pensavo fossi più diffidente XD”
“Ma infatti lo sono. Non con te, però.
Sei troppo adorabile, e non sono riuscito a starti lontano. Sei stato qualcosa
di serio da subito, per me.”
Scrissi, di getto, e mi accorsi anche di essere diventato più veloce nella
composizione dei messaggi. Che stessi ringiovanendo a poco a poco?
“Vedi che sei in grado di essere
romantico? Sto squittendo come una ragazzina. E comunque, se non abbiamo ancora
una data ufficiale, possiamo crearcela :)”
“Quando torni?”
“Sì, quando torno ci fidanziamo
ufficialmente ;)”
“Non davanti al prete, vero?”
“Ti pare? Io neanche credo in Dio! Adesso
devo scappare, reclamano il mio aiuto per il cenone!”
Mi dispiacque dover terminare la nostra conversazione, che aveva preso
decisamente una piega piacevole, ma mi
dissi che dovevo anche staccarmi dal cellulare ogni tanto – ero sempre fisso su
quel dannato aggeggio aspettando un segno di vita da parte di Valerio.
“E hanno ragione. Vai a renderti utile.”
“Va bene, prof :) A mezzanotte ti chiamo,
tieni il cellulare a portata di mano! Ti amo.”
Mi uscì dalla gola un suono strozzato, come il guaito di un cane. Ero ridicolo.
“Ti amo anche io. Tantissimo.”
---
Quella sera non ci fu bisogno che io dichiarassi ad alta voce, al momento del
brindisi, davanti a mia sorella, mio nipote, il compagno di mia sorella e i
suoi genitori e i suoi fratelli con figli annessi che io stavo insieme a un
ragazzo a cui insegnavo la letteratura italiana. Questo perché, in realtà,
l’unica che volevo che sapesse, più che altro per non farmi domande
imbarazzanti ogni qualvolta trovava indumenti sparsi per casa, era mia sorella.
E lei lo venne a sapere da sé, scorrendo la conversazione tra me e Valerio sul
mio iphone. Sapevo bene che Simona aveva preso il
vizio di leggere i messaggi altrui da mia madre, e quindi, probabilmente, gli
mollai il cellulare sotto il naso per poi andare in bagno ben conscio del fatto
che si sarebbe fatta un giro tra le mie conversazioni in quel momento di pausa
tra una portata e l’altra. E comunque, l’arrivo di un messaggio di Valerio che
recava il testo “Ah, salutami tanto
Michele! :D” non aiutò a diminuire la visibilità del mio cellulare, che si
mise a fischiare e a tremare proprio accanto alla sua mano, che si mosse
automaticamente ed aprì con nonchalance il messaggio, nel caos generale.
Quando tornai dal bagno, la trovai con ancora il mio telefono in mano, mentre
leggeva velocemente i messaggi, con gli occhi che scattavano a destra e a
sinistra, l’espressione neutra, senza la benché minima preoccupazione di
mettere giù il cellulare al mio arrivo. Io stesso non feci niente per toglierle
dalle mani l’aggeggio. Anzi, aspettai pazientemente che finisse di leggere, la
guancia appoggiata alla mano e il gomito appoggiato sul tavolo, proprio secondo
il Galateo.
«Valerio è il tizio strano che gira per casa tua?» mi chiese ad un certo punto,
senza staccare gli occhi dal cellulare.
«Sì,» dissi con un sospiro, pensando che forse forse
non era stata proprio una brillante idea lasciare lì il telefono. Un terzo di
quella conversazione verteva sul sesso. E non avevo poi così voglia che mia
sorella leggesse i fatti miei, o almeno, non i fatti che riguardavano la mia
vita sessuale. Poi Valerio era schietto e sincero anche negli sms, e non si
tratteneva mai quando voleva dirmi qualcosa di particolarmente spinto.
«Non hai letto abbastanza?» le chiesi quindi, allungando la mano in attesa del
mio telefono. Lei sbuffò e me lo riconsegnò appoggiandosi nella mia stessa
posizione, ma rivolta verso gli ospiti che chiacchieravano allegramente tra di
loro, senza degnarmi di parola o sguardo. Alzai le spalle e presi un sorso di
vino, il mio sospiro coperto dalle urla dei bambini che giocavano attorno al
tavolo. Poi Simona, evidentemente esclusa dalla conversazione dei parenti di
Lorenzo, si voltò di scatto verso di me, che stavo finendo di mangiare gli
spaghetti alle cozze.
«Fai proprio schifo,» mi disse, dritto in faccia. Io la guardai con la bocca
piena e alzai le spalle, come a dire che non potevo farci niente. «Io non ci
metto più piede in casa tua,» continuò, e io alzai nuovamente le spalle
guardando nel piatto. «Non te ne frega niente?!» mi chiese dandomi un colpo
sulla spalla, anche piuttosto potente. Alzai lo sguardo e mi pulii la bocca col
fazzoletto rosso in tinta con la tovaglia.
«Mi basta lui,» ammisi, piuttosto lucido, nonostante avessi già tracannato un
po’ di alcol.
«Eh?»
«Come hai potuto leggere dai messaggi, sono particolarmente preso. Lo amo».
«Ah, lo ami?» ripeté con una smorfia di derisione. «Sei patetico, lo sai,
vero?» mi fece retoricamente. Non risposi e presi un altro sorso di vino.
«Vuoi che vada via?» domandai invece, con Lorenzo che adesso aveva smesso di
chiacchierare e ci guardava leggermente preoccupati.
Fischiò nuovamente il mio cellulare lì accanto al piatto, e Simona lo prese
prima di me e lesse il messaggio. “Salutami
anche tua sorella, ovviamente!” diceva il testo. Lei distolse lo sguardo,
forse infastidita, e mi restituì il cellulare.
«…Secondo me è troppo per te,» commentò guardando
altrove, e io sorrisi infilandomi il cellulare in tasca.
«Lo so, lo penso anche io,» confermai
sgranocchiando un grissino.
«Voglio dire, questo tizio, oltre ad essere l’unico a far davvero divertire
Michele, sa cucinare, tiene in ordine la casa, ha sempre voglia di fare sesso e
si ricorda di me e ti chiede di salutarmi, nonostante io sia simpatica come un
granchio nelle mutande. Tu invece fai sostanzialmente schifo,» mi ricordò con
nonchalance, e io alzai le sopracciglia e strinsi le labbra.
«Sì, okay, grazie».
«Ed è anche nel fior fiore della gioventù, cosa pensa di fare infognandosi con
un uomo di mezz’età?» continuò a infierire, ad affondare il coltello nella
piaga.
«Ho 35 anni,» le feci notare.
«Anche io, ma ne sento addosso molti di più. Tu no?»
Non risposi, perché ovviamente me ne sentivo di più, e mi accorsi che io e mia
sorella eravamo più simili di quanto pensassi. In quegli anni passati in due
abitazioni diverse, mi ero dimenticato di quanto potessimo pensarla uguale.
Giocherellai con un grissino spezzato arricciando le labbra, poi sentii caldo
sulla spalla, e l’istante successivo mia sorella mi stava avvolgendo in un
abbraccio particolarmente sentito. Le guardai i capelli stranito, poi incrociai
lo sguardo di Lorenzo, interrogativo tanto quanto il mio, e portai
istintivamente il braccio sulle spalle di Simona dando timide pacche, come
facevo ogni qualvolta mi abbracciavano.
«Fai schifo,» ribadì, ma con la voce commossa, quasi stesse per piangere.
«E… è un bene?» domandai confuso, e quella mi annuì
sulla spalla.
«”Fai schifo”. Me lo diceva papà, quando tornavo a casa ubriaca o puzzolente di
fumo, o quando scopriva che m’ero fidanzata con un tizio strano,» mi disse,
così dal nulla, riportando alla memoria vecchi, vecchissimi episodi.
«E aveva ragione».
«E mi paragonava sempre a te, mi faceva notare quanto tu fossi perfetto e
quanto io facessi schifo. Invece adesso sei tu che fai schifo, fai più schifo
di me, ti scopi un ragazzino! Ho avuto un complesso di inferiorità per 35
lunghissimi anni. E adesso, finalmente…» Sembrò quasi
asciugarsi delle lacrime, e sicuramente tirò su col naso. Sciolse l’abbraccio e
mi diede un buffetto sulla guancia. «No, non voglio che tu vada via. Mi piace
stare in tua compagnia, adesso che so che fai schifo,» mi disse quindi, un
sorriso che raramente le avevo visto in faccia, gli occhiali appannati.
«Magari potresti anche non ricordarmelo ogni tre secondi,» le chiesi
indirettamente, e Lorenzo, giustamente, venne a vedere se fossimo pazzi o
quasi.
«E’ successo qualcosa?» si piegò tra di noi, e Simona rise quasi isterica
muovendo la mano.
«Niente. Andrea fa schifo. Non è fantastico?» fece euforica. Io e Lorenzo ci
guardammo shockati, poi tornammo con gli occhi su Simona e le demmo due pacche
sulla schiena.
«Aiutami a servire il pesce arrosto, va,» le disse quindi Lorenzo incitandola
ad alzarsi. Lei annuì entusiasta e lo seguì al piano di sopra, dato che
mangiavamo nel largo seminterrato. Mi rilassai sulla sedia e feci un lungo
respiro. Era andata. A quella pazza non importava nulla del fatto che me la
facevo con un ragazzo, quanto di sentirsi migliore di me. Come se non lo fosse mai
stata. Probabilmente, l’immagine che mio padre le aveva dato di me era ancora
troppo forte per essere sostituita dal me attuale.
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Scattò la mezzanotte, e quasi saltai dallo spavento per il tempismo con cui il
mio cellulare si mise a vibrare furiosamente nella tasca dei pantaloni. Risposi
frettolosamente – il costoso iphone rischiò di
scivolarmi dalle mani -, mentre i bambini
si preparavano ad aprire, finalmente, i loro regali.
«Amore,» fece la voce di Valerio ancor prima che potessi dire il mio “Pronto”.
«Buon Natale!»
«Puntuale, per non dire svizzero,» risi, e mi spostai in un angolo più
silenzioso del seminterrato. «Buon Natale anche a te».
«Mi hai salutato Michele?»
«Sta aprendo i regali adesso,» dissi buttando un occhio ai tre bambini che
scartavano i pacchi come fossero posseduti dal demonio.
«Potevi salutarlo prima!»
«Prima stavo dicendo a mia sorella di me e te,» dissi girandomi nuovamente
verso il muro, le urla a ultrasuoni dei bambini che mi uccidevano l’orecchio
libero dal cellulare.
«Ah, beh, allora sei perdon- come, come? Oddio. E
come l’ha presa?» fece, improvvisamente nervoso, ché sicuramente non
s’aspettava per nulla al mondo una notizia del genere e tanto improvvisa.
«Mi ha detto che faccio schifo,» alzai le spalle e mi mordicchiai un’unghia.
«Cazzo. Cioè, scusa. Mi dispiace».
«No, è okay. E’ un complimento detto da lei. Ti spiegherò meglio quando
tornerai».
«Va bene,» disse, mesto mesto, e subito dopo, il mio
orecchio appoggiato al ricevitore fu trafitto da urla disumane. Anche casa di
Valerio doveva essere invasa dai bambini. Dio, che scocciatura. «Non hai idea
di quanto vorrei essere lì con te. Solo sentire la tua voce mi fa uscire il cuore
dal petto,» mi comunicò poi, la voce commossa.
«Pure io sono tutto emozionato,» confessai, e già lo si capiva dal mio tono di
voce e da come avevo preso a stringere la camicia più o meno elegante
all’altezza del petto.
«Ahahah! Vorrei vedere la tua faccia!» rise lui, e io
mi morsi l’interno della guancia: la sua risata era qualcosa di extraterrestre,
mi stimolava le cellule nervose.
«Ti manderei una foto, ma non sono fotogenico,» dissi fintamente rammaricato, e
me lo immaginai mentre scuoteva la testa scoraggiato.
«Ovviamente. Muoviti, mandami una foto, così mi sento un po’ più vicino a te.
Fanne una anche a Michele».
«Te ne fai una anche tu, quindi?» domandai tentando di non utilizzare un tono
malizioso. Come se ne fossi davvero in grado.
«Come la vuoi? Da nudo o da vestito?» fece lui di rimando, una risata
trattenuta, la domanda maliziosa, ma il tono da ingenuo, come sempre.
«In mutande?» proposi, e lui fece un suono con la bocca.
«Andata».
Sentii la voce di Bruno intimare al figlio di chiudere la comunicazione con un
“Metti via ‘sto cellulare del demonio”, e quindi Valerio parlare con un volume
decisamente più basso, tanto che feci fatica a sentire quello che diceva.
«Devo già lasciarti, mi dispiace. Ti giuro che la notte del sei gennaio stiamo
tutta la notte svegli a parlare,» mi disse sommessamente, le parole che si
intendevano appena.
«Dubito che tu voglia solo parlare,» feci divertito e lui ridacchiò.
«Guarda, evito di ricordarti tutte le volte che mi hai detto di “avere voglia”
solo perché devo chiudere. Ancora buon Natale, saluta tutti. Ti amo da
diventare matti! Ciao!»
«Ciao, amore».
Mi voltai, e avevo mia sorella in piedi a pochi centimetri da me, le mani sui
fianchi, la faccia da “Sto per prenderti in giro e lo farò per il resto dei
tuoi giorni senza mai stufarmi”.
«Ciao, amore,» mi fece il verso con la faccia deformata in modo orribile. «Ma
vedi te se devo sentire mio fratello dire “amore” a un ventenne, oltretutto
maschio. Ah, i drammi della vita, a cosa possono portare!» alzò la mano al
cielo con fare teatrale e mi diede la schiena, felice di avere qualcosa con cui
rompermi ulteriormente l’anima ogni giorno. Sospirando, cercai nell’iphone la fotocamera, poi raggiunsi il tavolo ormai
sparecchiato e su cui i bambini aprivano e provavano i regali e puntai la
fotocamera su Michele.
«Michi,» lo chiamai, e quello alzò la testa rossa
solo dopo il mio terzo richiamo. «Mi sorridi?»
Lui mi guardò storto, ché mai gli avevo fatto una richiesta del genere. Quindi
non si degnò di sorridermi e continuò a guardarmi in cagnesco, le mani
impigliate in un nastro rosso. «Valerio vuole una tua foto,» provai a dire, e
quello si illuminò all’istante, ridendo al solo nome del ragazzo. Ne approfittai
per scattare la foto e fortunatamente venne bene al primo colpo.
«Lo chiami al telefono? Me lo passi?» provò a chiedere Michele, ed era già
pronto a lasciar perdere i regali, saltar giù dalla sedia e urlarmi che voleva
per forza parlare con Valerio sennò non mi faceva più amico. Ma Lorenzo lo
precedette riportandolo sulla sedia e mostrandogli un regalo gigantesco ancora
da aprire. Inutile dire che quel regalo lo ipnotizzò e lo convinse a restarsene
in ginocchio sulla sedia. Lorenzo mi strizzò l’occhio con fare complice, e
quello voleva poter dire due cose: A,
mia sorella gli aveva raccontato già tutto ridendo istericamente e ripetendo
quanto fossi uno sporco pedofilo e quanto facessi schifo; B, probabilmente era il più furbo di tutti i protagonisti della mia
storia e aveva capito tutto ancor prima di me e Valerio. Ma non prima di
Giulio, quello no, ché lui era un pervertito, e certe cose le sapeva
addirittura prevedere.
Sospirai un’altra volta dopo aver sorriso grato a Lorenzo, poi mandai
velocemente la foto di Michele a Valerio. Dopo cinque minuti, mi arrivò una
foto in risposta di due bambini, il più grande coi capelli lisci e castani, due
occhioni neri e un paio di occhiali dai bordi
azzurri, la più piccola coi capelli ricci e biondo cenere, occhi altrettanto
neri e la mano in bocca, che guardava diffidente l’obiettivo. Sotto la foto il
testo diceva: “Questi sono i miei due
cuginetti :) Michi è bellissimo come sempre. Tutto
sua madre. Quindi tutto suo padre, visto che siete identici, hahaha! Ok, la pianto di rendermi ridicolo. Mandami una tua
foto, muoviti :D”
“Non se ne parla.” Gli scrissi
drastico. Perché col cavolo mi facevo una foto da solo o me la facevo fare da
qualcuno, o andavo in bagno o farmela allo specchio o che altro. Avevo i
brividi al solo pensiero.
“Se te la mando io?”
“Non te la mando in nessun caso.”
Per un attimo desiderai che il mio cellulare non fosse l’unico a prendere la
linea nel seminterrato. Ma poi dovetti rimangiarmi i pensieri, se mai potesse
esistere tale espressione. Mi fischiò di nuovo il cellulare segnalando l’arrivo
di un mms, e quando l’aprii trovai una foto di Valerio. Conoscendolo, mi
aspettavo una foto in chissà quale posizione provocante, ma in realtà se ne
stava seduto ai piedi di un letto, non sapevo se nudo o meno, visto che si
vedevano solo le spalle scoperte e le ginocchia – era seduto con le gambe al
petto – e aveva un cappello da Babbo Natale in testa. Un ciuffo particolarmente
lungo e biondo spuntava dal cappello e andava verso l’alto, non so secondo
quale legge fisica. Faceva un sorriso un po’ imbarazzato, e gli occhi
riflettevano il display del cellulare. Sentii una fitta al cuore che poi si
propagò sino all’inguine. Era sin troppo carino, e presto tutta quella
carineria mi avrebbe ucciso di certo. Salii quasi di corsa al piano di sopra
senza dare spiegazioni a nessuno e andai a chiudermi in bagno. Sì, c’era un
bagno anche sotto, ma probabilmente avrei emesso qualche rumore molesto mentre
mi masturbavo sulla foto del mio coinquilino. Me lo immaginai mentre gemeva
sotto di me con addosso solo quel cappello lì. E magari un nastro colorato,
quello per i pacchi regali, che gli circondava spalle, braccia, gambe e
fianchi. Non credevo che il Natale mi avrebbe fatto quest’effetto, un giorno.
Mi arrivò un messaggio sul più bello, ed ebbi pure il coraggio di aprirlo.
“Mi sto masturbando pensando a te.” Diceva
il testo. Mi si rizzarono le punte dei capelli, e venni l’istante dopo, nel
pezzo di carta igienica che tenevo pronto nell’altra mano. Feci una smorfia e
mi pulii per bene, sperando con tutta l’anima che mia sorella non mi avesse
seguito e avesse origliato tutti i miei possibili rumori. Lavai le mani nel
lavandino e mi sistemai i capelli, sorridendo al mio riflesso decisamente
ringiovanito nonostante quello che avevo appena fatto, e finalmente risposi al
messaggio.
“Anche io. E grazie al tuo messaggio sono
venuto.”
Uscii dal bagno e andai a sedermi sul divano nel salotto buio, sollevato dal
fatto che non ci fosse l’ombra di mia sorella.
“Quando torno scopiamo come animali :)”
Presi a tossire rumorosamente quasi mi fosse andato di traverso del fumo, e per
un momento pensai che mi stesse uscendo del sangue dal naso.
“Come puoi dire una cosa del genere e poi
metterci vicino il sorriso?!” scrissi alquanto scosso, e la risposta arrivò
qualche secondo dopo.
“Quando torno scopiamo come animali.
Meglio?”
Scossi la testa e digitai, più velocemente del solito,
“Non scrivermi più.”
“Perché???”
“Sei scurrile.”
“Ma va va. Dopo
tutto quello che mi hai fatto…”
“Basta.”
“Ti odio.”
“La cosa è reciproca.”
Non mi scrisse per un po’, e pensai che si fosse offeso per davvero. Stavo già
per chiedergli scusa, quando mi arrivò la sua terza foto della serata: era
vicinissimo all’obiettivo, tanto che si vedeva solo la sua faccia e un sorriso
a trentadue denti. Gli occhi erano strizzati, quasi completamente chiusi, e in
un angolo libero della foto si intravedeva quello che sembrava il muso di un
gatto.
“Questa è la mia faccia happy dopo essere
venuto :D”
Mi chiesi se esistesse un limite all’amore provato per una persona. Mi chiesi
se sarei mai stato in grado di smettere di amarlo. Mi chiesi cosa sarebbe
successo se fosse stato lui a smettere di amarmi.
Per il momento, pensai, mi salvo la foto e me la guardo quando mi sento solo.
Gli diedi un’altra occhiata: era bellissimo pure con la faccia deformata e i denti in primo piano. Sospirai, ancora
una volta. Poi mi dissi che anche io mi sarei fatto una foto. Il vecchio Andrea
non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo, ma il nuovo Andrea si piaceva, e
anche parecchio. Attivai il flash sperando che non mi accecasse. E sperando che
anche Valerio guardasse quella foto quando sentiva di aver bisogno di me.
Passandomi il pollice sul filo rosso legato al mignolo, scesi nuovamente nel
seminterrato, e vidi mia sorella già pronta a prendermi nuovamente in giro.
Il Natale più bello dopo anni e anni di inerzia.
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This chapter is HUGE. HUGE, I tell you. And
I write HUGE in capital letters just to make sure you understand that this
chapter is, like, super HUGE.
Più
che altro scrivevo senza accorgermene. Vado a periodi, ovviamente, come tutti. Posso
rimanere inattiva una settimana e poi scrivere dieci pagine e oltre di word in
due sole nottate – sì, uso la notte per scrivere, sono molto più sveglia.
Simona è adorabile, no? Cioè, è totalmente una figa, dai, hahaha,
rido da sola perché ho fatto un personaggio piuttosto strambo e quindi mi vien
da ridere se ci penso. Me la immagino a ridacchiare come una poco sana di
mente, un po’ come… non so come spiegare l’immagine
che ho in mente… tipo Rossana in…
Rossana. Il cartone animato. Quando si prendeva gioco di Heric,
e poi rideva tutta soddisfatta, con la bocca a triangolo e gli occhi spiritati.
Ecco.
Oh, ho trovato un’immagine, è perfetta!!!
Quella è Simona da ragazzina. Ha pure lo stesso colore di capelli che m’immagino.
Spero che la roba dei messaggini non vi abbia annoiato. Io, personalmente, mi
sono divertita un mondo a farli comunicare via sms come una coppia di ragazzini
<3 Quelli che fissano il cellulare in attesa di quel magico messaggino che
possa migliorare loro la giornata.
Bonatti l’ho riportato sulla scena perché mi stava
troppo simpatico. E poi perché volevo che Andrea ammettesse davanti a un quasi
sconosciuto che ha una relazione con uno studente. Il mio Andrea sta crescendo.
Il mio bambino *si asciuga lacrimuccia*.
E comunque, il Natale che ho descritto è uguale a quello che passo io più o
meno ogni anno, solo che di solito io sono più partecipe. Non me ne sto in un
angolo a parlare col mio amante di quindici anni più piccolo, e poi comunque il
mio cellulare non prende lì sotto. I due bambini descritti (i cugini di
Valerio) sono i miei cugini. Federico e Francesca. Non interessava a nessuno, mmh.
Lorenzo non l’ho approfondito come personaggio perché non voglio farlo. E’ uno
molto paziente e gentile, comunque, e che capisce al volo le cose. Un po’ come
me, solo che io sono rompiballe. Avessi capito che Andrea se la faceva col
ragazzino, sarei andata lì a dire: “Eeeh, guarda che
lo so che te la fai…” eccetera. Come Giulio, stessa
roba irritante. Giusto perché l’ho già fatto.
E comunque, chi se ne importa di me! Vi saluto, un bacio a chi segue ancora! La
storia sta volgendo al termine, per vostra somma gioia XD
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Mirokia